di Alberto Leiss
Rubrica In una Parola – Il Manifesto 19-1-2016
http://ilmanifesto.info/maschi-pericolosi/
Qualunque cosa sia effettivamente successa a Colonia alla fine dell’anno – un po’ di notizie e considerazioni attendibili le ho trovate nel servizio di Der Spiegel tradotto e pubblicato in Italia dall’Internazionale – mi pare che se ne possano trarre, dal punto di vista di noi uomini, almeno due considerazioni.
Una riguarda il problema del tipo di relazioni da costruire con i maschi stranieri che cercano asilo e/o lavoro qui in Italia e in Europa. Non mi piacciono i luoghi comuni contro il “politicamente corretto” ( nel paese dei Grillo e dei Salvini preferisco catalanescamente un linguaggio politico corretto a uno scorretto) ma è vero che la sacrosanta esigenza di non subire o avvallare le strumentalizzazioni xenofobe non deve più far velo sul fatto che differenze sul piano della cultura e dei comportamenti, specialmente nei rapporti tra uomini e donne esistono, e non vanno rimosse.
Il Corriere della sera ha pubblicato uno dietro l’altro due articoli significativi. Nel primo si registrava il dato che tra i richiedenti asilo in Italia ben nove su dieci sono maschi. Sarebbe il primato di una tendenza generale. L’Europa del futuro quindi – si osserva – “rischia di essere troppo maschile e di soffrire così, inevitabilmente, un brusco aumento del tasso di criminalità”. Poco dopo l’avverbio inevitabilmente torna nelle parole di un professore che ha analizzato la situazione in Cina e in India, dove le politiche del figlio maschio unico e l’aumento della popolazione maschile viene associata all’aumento dei reati e specialmente delle violenze contro le donne. Qui – noto di sfuggita – l’Islam non c’entra o c’entra pochissimo. E abbiamo anche letto che la Cina sta mettendo in soffitta quelle politiche demografiche, mentre si organizzano corsi destinati ai maschi per educarli a essere buoni padri e a non picchiare le mogli.
Di “Lezioni di parità per rifugiati” parla il secondo articolo del Corriere, a proposito di corsi che si tengono in Norvegia per spiegare a chi proviene da paesi e culture diverse come comportarsi con le donne europee emancipate e libere. E qui rispunta l’esecrato “politicamente corretto”: infatti negli opuscoli e nei filmati del corso i comportamenti aggressivi maschili sono impersonati da un personaggio bianco e norvegese.
Ecco la seconda considerazione: dopo aver fatto tutti i necessari distinguo sui costumi e le culture diverse, resta che gran parte del problema ha a che fare con una radice del maschile dalla quale noi occidentali evoluti non siamo immuni, e non possiamo prescinderne. Anzi credo che sia un esercizio necessario partire da lì anche per aprire uno scambio, e semmai un conflitto, con altri uomini i cui comportamenti non accettiamo e che vogliamo mettere in discussione. Per prevenirli, e se del caso reprimerli.
A questi pensieri mi hanno condotto anche due esperienze leggermente stranianti. Ho visto giorni fa il video di Repubblica on line in cui l’ex direttore Ezio Mauro apriva la riunione di redazione con un accorato discorso sul conflitto di culture che avviene “sul corpo delle donne”. Nella grande stanza con tutto lo staff dei vicedirettori, capiredattori e capiservizio di corpo femminile mi è sembrato che ce ne fosse soltanto uno. Ho poi letto sul Sole 24 ore l’editoriale di Luca Ricolfi – che seguo sempre con interesse – nel quale le donne sono definite una “minoranza speciale”, “come gli immigrati, gli omosessuali , gli islamici, i diversi in genere”. Eppure si cita in lungo e in largo la femminista francese Elisabeth Badinter.
Insomma, anche la nostra “minoranza speciale” occidentale maschile ha ancora qualche motivo per riflettere su se stessa?
Riporto il finale del bell’articolo di Alberto Leiss.
“… Anzi credo che sia un esercizio necessario partire da lì anche per aprire uno scambio, e semmai un conflitto, con altri uomini i cui comportamenti non accettiamo e che vogliamo mettere in discussione. Per prevenirli, e se del caso reprimerli.”
Caro Alberto, apri un mare, anzi un oceano. Prevenire e reprimere. Il problema, a mio avviso, non è tanto il reprimere (parlando di quello buono ovviamente, quello che regola la vita civile, almeno per le ultime leggi del codice penale – vedi stalking) quanto il prevenire. Le statistiche ci indicano che il femminicidio avviene, in Italia, prevalentemente nel nord, perpetrato per lo più in famiglia e in da soggetti diciamo acculturati.
Sappiamo che il tasso di istruzione al Nord è più elevato che al sud, dunque sorprende perché al tasso di istruzione dovrebbe corrispondere un tasso di educazione “civica/sociale/culturale” maggiore. Secondo le statistiche, dunque, non funziona. In sostanza l’idea che la cultura, che noi tutti riteniamo essere un metodo di sviluppo mentale ed etico dell’individuo, sembra non essere sufficiente.
La scuola fa, pachidermicamente ovvero con la sua lentezza che mal si adatta alla corsa devastatrice del rinoceronte mascherato da gazzella propria del mercato consumista, quello che può, pretendendo dagli insegnanti prestazioni che, per preparazione, competenza, supporti a disposizione, non possono garantire. Però fa, arrancando in perenne ritardo, ma agisce.
Io sono più critico sul ruolo delle famiglie che spesso affidano, sgravandosi volentieri dalla responsabilità educativa, questo ruolo alla sopracitatica povera istituzione scolastica che funge anche da parafulmine.
Il mondo intorno a noi non aiuta: dalle pubblicità ammiccatamente sessuali, aprogrammi stile”Amici” della De Filippi, agli Chef, alle reclame di auto che ti portano in paradiso, alle immagini di vacanze coatte in spiagge caraibiche, ai films, novelas, aggeggi telefonici che fungono da insegnanti e soprattutto baby sitters, insomma una summa di depravazioni educative. Anche le canzoni recenti sono beceramente romantiche con amori urlati e mulinescamente bianche, canzoni barilliane.
Prevenire, dunque. Come si fa? Ormai è un mantra ripeterci che tutto ciò, e sopratutto la violenza, è frutto del patriarcalismo, del maschilismo. Significative, almeno per me, le pagine di M.P. Facebook. È vero. Ma anche troppo semplicistico. Personalmente ritengo – e non è un’impressione solo mia ma anche di qualche donna con la quale mi sono confrontato – che lo sforzo da fare sarebbe quello di un passo ulteriore e cioè, come peraltro accade, uomini e donne di buona volontà si prendano la responsabilità di non utilizzare quei due concetti (patriarcale e maschilismo) come un mantra talvolta deresponsabilizzante, ma insieme costruire il gradino successivo. Per altro non penso sia utile che questo mantra venga applicato toutcourt alla categoria maschile in senso assoluto. La cosa riguarda più che altro i giovani uomini che si trovano appiccicato addosso, e da subito, lo stigma del peccato originale di essere un maschio portatore di violenza ( vedasi il recente post 7-02-2016 di Gianluca Carmosino su M.P.facebook dal titolo “ Noi siamo il problema”). Anch’io come maschio adulto, ho quasi timore a rivolgere un saluto, una parola ad un bambino incontrato per la via, quasi che mi sentissi additato (inconsciamente) come possibile possibile pedofilo; brutta sensazione,per cui talvolta evito di farlo.
Temo di essere tacciato di fare un pensiero qualunquista e maschilista, ma io penso che i maschi violenti, viziati, deresponsabilizzati civilmente ed eticamente, sono figli di tutti e due i genitori che concorrono – ognuno si immagini la percentuale che desidera – alla loro educazione.
Insieme, solo insieme, responsabilmente, eticamente, riconoscendo l’importanza e il valore dell’altro, con l’amore che costa fatica perché ti costringe ad esserci, a riflettere, ad aver metodo e pazienza, ad indagare soprattutto su te stesso, all’impegno costante, a mio avviso si può parlare di prevenzione.Tutto ciò, sia ben chiaro, senza sottrazione alcuna di colpa e responsabilità da parte del maschile patr… masch…. E questo vale per ogni tipo di genitorialità.
E se i genitori non sono in questa dimensione?
Giancarlo