Il ritratto di Dorian Gray di noi tutti
Raffaele K. Salinari – il manifesto 29 gennaio 2011
L’analisi della necrosfera che governa la lenta discesa agli inferi del Presidente del Consiglio, descritta nell’articolo di Franco Arminio sulla «funerea alchimia del berlusconismo», si ferma sull’orlo di una domanda fondamentale, sul quando cioè sia «avvenuta questa mutazione della morte da evento che irrompe a realtà che ristagna». Questione fondamentale poiché essa è all’origine non solo del corpo necrotizzante e necrotizzato di Berlusconi, ma di tutta la pratica consumistica inaugurata dall’Occidente molti secoli fa, ben prima della nascita del capitalismo o, almeno, di questa sua forma oramai globalizzata e mortificante che, non a caso, prende il nome di occidentalizzazione del mondo. L’articolo muove da un assunto a mio parere evidentissimo: Berlusconi ha paura della morte e dunque consuma e si consuma accumulando potere e ricchezza.
Di questo consumo, volto a dipingere il suo ritratto di Dorian Gray, fanno certamente parte le pratiche sessuali di cui sappiamo. E allora, proviamo a rispondere alla domanda inevasa, e cerchiamo in primis di collegarla ad una analisi della relazione tra il sistema capitalista e la Grande Signora. Certamente la morte è il limite dei limiti, da sempre. Oltre ad essere «il mistero di tutti i misteri», la X di una equazione irrisolvibile, come diceva Vladimir Janchélévitch, cioè qualcosa di intrinsecamente inspiegabile che, però, è connaturato alla Vita, alla Zoé e non solo alla singola Bios caratterizzata.
Questo significa evidentemente che, partendo dall’accettazione del «mistero», vedendo in altre parole nella morte uno stadio irrinunciabile per assicurare il flusso stesso della Zoé, della vita senza ulteriori caratterizzazioni, attraverso le singole forme di Bios, si arriva a pensare una civilizzazione del limite, a partire da quello della propria stessa esistenza, come funzione ciclica irrinunciabile nell’assicurare l’esistenza nel suo eterno fluire.
In altre parole le civilizzazioni e le culture che accettano il «mistero» delle morte, che ne fanno un evento che, pur “irrompendo” nella vita ne fa intrinsecamente parte, sono portare alla costruzione di relazioni tra umanità e mondo tendenzialmente rispettose di tutte le forme di esistenza, e dunque vedono il limite ultimo come qualcosa che parametra tutti gli altri. Ad esempio questa è la “cosmovisione” dei popoli indigeni, non a caso i più ecologisti proprio per questa loro consapevolezza del posto che una singola vita occupa all’interno della vita.
Al contrario, rimuovere la morte significa rimuovere la vita. E allora da questo arriviamo direttamente alla domanda che pone Arminio sul quando si sia verificata la mutazione tra ciclicità e linearità, cioè la scomparsa della morte come limite e la sua progressiva rimozione dall’orizzonte degli eventi vitali. Il fatto si sovrappone esattamente con la nascita dell’Occidente dato che certamente ne è la cifra profonda, e avviene quando la cultura greca, la nostra cultura-madre, si stacca dalla ricerca della saggezza, indicibile ma non in conoscibile, per riflettere sulla verità, forse dicibile ma non sempre vissuta, quando cioè da Dioniso come protagonista della tragedia, direbbe Nietzsche, si passa all’umanità. Dioniso è, come dice Kerenyi, «l’archetipo della vita indistruttibile» non perché eterna in sé, come l’Occidente vorrebbe, ma perché in perenne mutazione proprio attraverso la Morte. Dioniso, infatti, è un dio che muore e rinasce, un principio ciclico, ma essere in empatia con lui significa accattare la stessa sorte, vivere la sua stessa tragedia. La nascita dell’Occidente tenta la carta dell’immortalità e per farlo mette “fuori di se” il mondo con la sua continua richiesta di cura e tempo ciclico, ma anche di mutamento e di morte. Il cristianesimo, meglio l’apparato ecclesiale, poi completa l’opera lucrando sulla gestione della morte e facendone uno spauracchio di salvazione o perdizione eterni, ancora una volta.
Ripensare la morte dunque significa ripensare il limite e dunque il modello simbolico che è alla base del consumare per rimuovere il momento dell’incontro finale. Berlusconi, in questo senso, è non solo il ritratto di Dorian Gray di noi tutti, rappresentazione plastica di un disfacimento che vede trasformarsi, come nel finale del romanzo, il ritratto corrotto nella persona fisica. Sapremo fermarci a guardare il nostro personale ritratto e non solo quello dell’ormai necrico Presidente del Consiglio? Non è questa la sfida simbolica che abbiamo davanti? Certo, lo è.
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