Dopo il 13 Febbraio: quali uomini e quali donne
Leonardo Angelini, psicoterapeuta nei servizi pubblici, Reggio Emilia
pubblicato il 20 febbraio 2011 su Reggio Fahrenheit
La discussione sul “Se non ora quando” finora è stata impostata a partire da un general-generico rapporto uomo-donna che rischia da una parte di creare artificiose contrapposizioni, dall’altra di impedirci di cogliere alcuni interessanti elementi che attengono sicuramente al rapporto uomo-donna, ma che per essere compresi vanno declinati sia sul piano dei rapporti intergenerazionali, che nella loro genesi dentro ciascuno di noi: uomini o donne che siamo.
Sul piano intergenerazionale la riproduzione sociale della nostra cultura, cioè il passaggio da una generazione all’altra dei suoi tratti costitutivi – comprese ovviamente le rappresentazioni sociali della maschilità e della femminilità – vede nei modi di produzione, nella struttura della famiglia e nei modelli formativi i crogioli all’interno dei quali vecchie e nuove rappresentazioni, vecchie e nuove immagini s’impastano. Si definiscono così nel tempo e nella società attuale tante rappresentazioni sociali della maschilità e della femminilità quante sono le classi sociali e i gruppi di appartenenza degli individui.
Ma anche dentro ciascuno di noi la psicoanalisi c’insegna a riconoscere una pluralità d’introietti e di interdetti che variano da cultura a cultura, da gruppo sociale a gruppo sociale, da famiglia a famiglia; e, fra questi, anche gl’introietti e gl’interdetti di maschilità e femminilità, che così risultano instaurarsi dentro di noi in base ad una molteplicità d’influenze che provengono, fra l’altro dagli uomini e dalle donne più importanti della nostra vita, cioè da coloro che, a partire dai nostri genitori, ci hanno segnato di sé imprimendo nella nostra psiche molteplici modelli di maschilità e di femminilità.
Con ciò non voglio assolutamente negare la presenza di un potere maschile all’interno della società, ma solo che per comprenderne le origini, la struttura e gli attuali punti di crisi non possiamo sottrarci al fatto che a presiedere sia la riproduzione sociale, sia la psiche individuale degli uomini e delle donne d’oggi ci siano degli uomini e delle donne, che a loro volta hanno introiettato o proiettato fuori di sé queste imago in base alla loro appartenenza sociale, culturale e familiare.
E’ a partire da questa declinazione a mio avviso che è possibile comprendere da una parte la crescente partecipazione maschile ad eventi e manifestazioni come quella del 13 Febbraio, e più in profondità le nuove disposizioni che in una parte degli uomini è possibile cogliere sul piano della relazioni e della cura; dall’altra la violenza di coloro fra essi che reagiscono e “agiscono” la crisi del potere maschile aggredendo le donne.
Quindi la prima cosa che occorre fare è imparare a discriminare fra uomo e uomo e fra donna e donna, cercando di riconoscere nella prassi quali possono essere i settori ed i vettori e quali invece i punti di resistenza al cambiamento.
La seconda cosa, di conseguenza, è vedere, sempre nella prassi, quali possono essere i punti di connessione sui quali operare per costruire una tela che vista solo sul piano della contrapposizione uomo-donna può apparire ancora dilacerata: il teoreticismo su questo piano ci condurrebbe facilmente ad un “atteggiamento retrospettivo di principio”.
Si tratta di un lavoro che va fatto a partire da un’analisi gruppale dei fenomeni. Io mi limito qui ad enuclearne alcuni, a partire dalla mia prassi personale di psicoterapeuta preoccupato del significato sociale del proprio lavoro:
1. Innanzitutto la comune condizione di fronte al precariato. Ce lo ricordano le femministe della Libreria delle donne, ed in precedenza lo aveva sottolineato Luciano Gallino: le donne sono più facilmente esposte al rischio di vedere infranto dalla condizione precaria ogni progetto per il futuro e di essere schiacciate sulla cura. Ma d’altro canto all’interno delle Università e nei luoghi di lavoro (compresa Mirafiori) uomini e donne, autoctoni e migranti vanno cercando insieme elementi comuni che li conducano fuori dalla dimensione precaria. Perché non osiamo pensare che fra questi elementi possa esserci una comune realizzazione e nel lavoro e nella cura?
2. In secondo luogo ormai molte giovani coppie da decenni vanno sperimentando, appunto, una modalità di rapporto e di cura della prole più compartecipata; mentre nei nidi e nelle materne, almeno in quei luoghi in cui queste strutture svolgono con le famiglie realmente una funzione educante, da questa “cogestione educativa” vanno nascendo esperienze significative, che poi tendono ad essere iterate nel rapporto con la scuola. Anche su questo punto urge un passaggio da una conoscenza intuitiva ad una più razionale e trasformativa del fenomeno. Là dove fra le trasformazioni condivise sicuramente un posto preminente tocca alla difesa dei bambini e delle bambine, ma anche degli adulti, dai nefasti della “coltivazione televisiva”.
3. Nel gruppo di volontariato giovanile in cui opero e dal quale in due decenni sono passati quasi settemila giovani, all’inizio degli anni ‘90 la propensione alla cura era un’esclusiva femminile; ora l’impegno dei giovani maschi raggiunge il 30% dei giovani volontari. Questa disponibilità maschile alla cura, che sicuramente non va generalizzata, ed anzi va contestualizzata, a mio avviso è un importante segnale di un cambiamento che ha alle spalle i genitori di cui sopra, ma anche una prossimità, ormai quasi esclusiva, con una docenza femminile i cui influssi sulle giovani generazioni non sono stati studiati a sufficienza e non si limitano certo alla implementazione del reclutamento dei giovani maschi nella cura volontaria.
4. E poi il welfare familiare: cioè il lavoro di aiuto finanziario e di cura intrafamiliare che, con i suoi quasi 90 mila miliardi di euro annui frutto del risparmio domestico, risulta il più macroscopico non detto della realtà sociale italiana. La sua capacità di tenuta di fronte alla crisi è l’elemento più importante che ha permesso di attutirne gli effetti. Certo: si tratta di una provvidenza classista, ma perché non cercare di trovare dei punti di congiunzione con le interessanti esperienze delle banche etiche, in modo da estenderlo il più possibile anche ai meno abbienti?
5. Di fronte alle delocalizzazioni, infine, da una parte va maturando una proposta di autogestione degl’impianti, dall’altra, come suggerisce Viale, una loro ricollocazione sul piano dell’industria ecologica. Perché questi due elementi funzionino a dovere necessitano di un insieme di competenze e di funzioni che possono entrare in sintonia con il movimento presente nelle università, dove il sapere degli uomini e delle donne che sempre più numerose ed autocoscienti lì si formano, e che il governo tende a comprimere, potrebbe entrare in circolo con l’autogestione e la riconversione ecologica.
Questi cinque punti a mo’ di esempio: alcuni sono lì a portata di mano; altri, come il quinto che ho elencato, per ora sono solo vaghi progetti; altri ancora sicuramente sono presenti e mi sfuggono. Ciò che vale dal mio punto di vista è che si cominci a prendere atto che ormai in molti ambiti su di un ordito maschile, certo ancora molto tenue e grigio, che comprende solo una parte degli uomini si va componendo o si può comporre una trama femminile infinitamente più ricca e colorata, a formare un unico tessuto, foriero di ulteriori comuni disegni.
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