Mar 2009 Traiettorie possibili del dibattito sul maschile:
omosessualità e gruppi maschili
di Massimo M. Greco
pubblicato sulla rivista Omosapiens 2009
Premessa
Il testo riporta la bozza preparata per l’articolo “Uomini a molte dimensioni. Omosessualità (maschile) e men’s studies in Italia” di Elisabetta Ruspini e Massimo M. Greco, pubblicato in forma ridotta e con alcuni tagli sulla rivista Omosapiens, 2009. Il testo è stato adattato al contesto del sito www.maschileplurale.it e alla natura di pubblicazione elettronica: alcune note e riferimenti sono stati sostituiti da collegamenti ipertestuali direttamente alla fonte e al riferimento. Laddove l’ho ritenuto necessario, ho aggiornato alcune idee e considerazioni da me formulate, mantenendo invece intatti i contributi raccolti.
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1. L’asimmetria fra women’s studies e men’s studies
In questo scritto si cercherà di mettere in luce le relazioni, soprattutto nell’ambito italiano, tra i men’s studies e la dimensione dell’orientamento omosessuale maschile, interrogando su questo tema l’esperienza di alcuni gruppi maschili di discussione sul maschile. Il compito è particolarmente fertile di opportunità di riflessione e di problematizzazione, ma non altrettanto di risposte conclusive. I punti critici della relazione tra men’s studies e omosessualità maschile, poi, si intrecciano su piani che riguardano i soggetti che producono cultura, i loro corpi sessuati, le società, le istituzioni, la politica. Questo testo, scritto volutamente a partire da un punto di vista e un’esperienza personali, rappresenta una delle traiettorie possibili sull’argomento.
La rivoluzione culturale ed epistemologica attuata dal femminismo ha promosso, e spesso determinato, un ripensamento in termini di “parzialità sessuata Vs universalità neutrale” non solo della politica ma anche dei prodotti culturali ed accademici e finanche dei processi stessi di sviluppo di questi prodotti (Piccone Stella e Saraceno, 1996). L’ambito di studi e ricerche women’s studies si sviluppa in questa atmosfera ed è caratterizzato da una serie di elementi ricorrenti: un forte collegamento con la dimensione di impegno e di militanza politica delle sue protagoniste; lo sviluppo di metodologie che presentavano una rottura con una certa consuetudine (ad es. l’esplicitazione metodologica del punto di vista soggettivo come parzialità); alcuni presupposti teorici, fra i quali l’idea centrale che tutta la Storia sia segnata dal discorso sui generi. Per i women’s studies inoltre bisogna riconoscere il ruolo fondamentale avuto dal lesbismo, come esperienza che conserva i caratteri attribuibili alla donna (ad esempio l’essere generante), ma che nello stesso tempo propone paradigmi identitari più fluidi ed autodeterminati, anche a prescindere dal dato biologico. Ciò aveva reso i women’s studies un insieme abbastanza riconoscibile come area tematica non solo in forza dell’importanza politica delle sue risultanze, ma anche per i modi con cui era portato avanti il discorso culturale e scientifico.
Quando invece si considerano i men’s studies (Vedovati, 1999), collegabili oltretutto principalmente al mondo anglosassone e anglofono, ci si riferisce meno ad un insieme omogeneo e coerente che ad un ambito composito e contraddittorio. Non si può attribuire infatti ai men’s studies simmetricamente la stessa qualità epistemologica, politica, sociale, di riconversione e di rivoluzione, realizzata da gran parte dei women’s studies, anche solo per il fatto che i primi non sono radicati in un movimento di ampia portata come il femminismo, tanto più se si esce dall’ambito anglosassone e anglofono dove un movimentismo maschile può essere individuato. Sebbene l’operazione di nominare il campo di studio con il termine man riconosce una qualche delimitazione e specificità (la questione di superare universalità e neutralità prima del femminismo non si poneva a livello della cultura egemone) e si dà testimonianza della percezione di un elemento prima invisibile (la parzialità che costringe a definirsi), ad un esame attento dei prodotti culturali, scientifici ed accademici è forte l’impressione della mancanza di un ripensamento delle modalità di produzione culturale e scientifica, nonché di una rilettura e ritematizzazione dei paradigmi fondanti le discipline.
2. Men’s nemesis
Un’autorevolezza che si basi sul rapporto consapevole ed esplicito fra soggettività e sapere, così come era stata postulata in forza della sua valenza politica dal femminismo, non è facilmente riconosciuta dal pensiero accademico tuttora egemone e tanto meno nel paradigma in esso celato, il logos del maschile tradizionale: il partire dal rapporto fra intimità e conoscenza non è considerata una metodologia affidabile e quindi è inappropriato ad es. richiederlo in un contesto di discussione scientifica; tanto meno aspettarselo come impostazione di base dei men’s studies nella stessa misura in cui riusciamo a rintracciarlo nella gran parte dei women’s studies. Il “parlare partendo da sé” non riguarda solo una competenza del “divenire donna” (Guattari, 1978) nel rappresentare in grado maggiore l’integrità di un vissuto e nel riconoscergli un ruolo fondante per la coscienza; né mette in luce solo un’incompetenza costitutiva del maschile tradizionale nel superare la scissione fra teorie astratte e concretezze personali. Viene in scena, per chi sa guardare le resistenze al “parlare partendo da sé”, l’egemonia di un pensiero maschile disincarnato che ancora oggi, carsicamente e a dispetto di tutti i mutamenti culturali e sociali, riesce ad occultare il più delle volte, nel proprio discorso di uomini, l’uomo stesso e nel discorso scientifico la sua connessione con l’esperienza concreta di un soggetto.
Uno dei problemi è rappresentato dal fatto che uno studioso o una studiosa di men’s studies potrebbero anche partire dal presupposto che il maschile sia una costruzione culturale, non nominando però − come vedremo anche nei gruppi maschili di cui parleremo più avanti − che la costruzione culturale a cui ci si riferisce è sì relativa, storica e contestuale ma è comunque implicitamente eterosessuale. Si pone quindi il problema di una “neutralità invisibile” che, superata grazie al contributo di alcuni femminismi, si ripropone su un altro piano altrettanto scotomizzante, con una perdita di opportunità per un allargamento epistemologico ed ermeneutico (e chi scrive pensa anche esistenziale). In una dimensione più metodologica, i men’s studies potranno rappresentare qualcosa di rivoluzionario nella misura in cui “gli scienziati elaborano in sé la capacità di risalire e di indagare il senso originario di tutte le loro strutture di senso e di tutti i loro metodi: il senso storico della fondazione originaria, e, in particolare, il senso di tutte le eredità di senso inavvertitamente o successivamente assunte” (Husserl, ed. 2008, p.85, corsivo nostro).In questa prospettiva, andrebbe quindi verificato se l’atteggiamento degli studiosi e delle studiose dia per scontato la qualificazione di eterosessualità al maschile e se il loro approccio al materiale prodotto e alle esperienze vissute nell’ambito Gay Lesbico Bisex Transex e Queer sia meno vicino all’osservazione partecipante di un antropologo che al distacco riduzionista di un entomologo. Dal punto di vista di chi, come me, pensa che l’essere maschi sia una trama complessa e interconnessa di una pluralità di scelte, orientamenti e traiettorie, una questione aperta per un ambito di studi che voglia affinare i suoi strumenti di indagine è non solo la misura in cui viene identificata l’invisibile parzialità del maschile nella Storia (Bellassai, 2001) rispetto al femminile, ma anche se sia messa in campo l’indicibile parzialità degli eterosessuali rispetto agli altri orientamenti possibili nel maschile.
3. I men’s studies: quale spazio per l’eterosessualità?
Sembra un paradosso, ma il titolo “impossibile” di questo paragrafo, suggerito da Claudio Vedovati (vedi infra nota 6), rende visibile una serie di questioni, irrisolvibili nello spazio di questo scritto, che prendono di petto la traccia stessa del saggio: la cultura gay ha costruito un’idea di maschile? E in questa idea del maschile ha ricompreso l’esperienza gay o l’ha considerata aliena al maschile? E i men’s studies si sono misurati con l’idea del maschile che gli omosessuali hanno costruito? Le conseguenze sul ragionamento sono complesse: i gay studies sono stati rappresentati come un sottoinsieme “eccezionale” nei men’s studies? Per men’s studies ci si riferisce implicitamente (e senza tanto negoziare) all’eterosessualità e quindi i due ambiti sono sullo stesso livello logico della sessualità e dei suoi comportamenti (Cfr. ad es. la divisione tematica della bibliografia proposta da Michael Flood in Flood, 2008)?
Un modo di rispondere potrebbe essere verificare chi per primo e in maniera organica ed articolata ha messo in luce la propria parzialità. In questa prospettiva, il patrimonio di riflessione e di produzione culturale, politica, storica e sociale sviluppata a partire dalla parzialità omosessuale (cfr. la ricostruzione storica in Mieli, 1977) è più antica e più vasta dei men’s studies.
Inoltre, il modo con cui un autore gay rende la propria esperienza materia di dibattito è materia non solo di dissidenza ma anche di revisione metodologica degli strumenti culturali e scientifici. Potremmo anche spingerci a riconoscere valore ai gay studies non solo nei confronti dell’insieme di persone portatrici di questi vissuti, ma anche in forza della valenza rivoluzionaria nell’ambito del discorso, dell’interpretazione e della rappresentazione (Mieli, 1977; Guattari, 1978). La dimensione politica, che non riuscivamo a rintracciare a fondamento dei men’s studies, nell’ambito omosessuale è presente, per la presenza storicamente portante di un movimento di liberazione omosessuale e delle sue relazioni con alcuni femminismi. Tutto ciò rappresenterebbe una fertile problematicità dal punto della riflessione sul maschile, se riuscissimo a rispondere positivamente alla domanda che ci ha posto Stefano Ciccone nel recente confronto avvenuto sul tema: “Come soggettività politica costruita a partire da una discriminazione, quanto il discorso omosessuale ha riconosciuto a sé l’ipotesi o il fatto di essere un discorso sul maschile?”.
4. Parola di uomini: l’esperienza di un gruppo maschile di discussione e di condivisione
Un altro modo di rispondere alle domande poste all’inizio del paragrafo precedente è interrogare l’esperienza dei gruppi di uomini operativi in Italia, finalizzati alla decostruzione dei paradigmi tradizionali del maschile tramite il confronto, la condivisione e il partire da sé (Vedovati 2007). Alcuni di questi gruppi locali sono in rete con una complessa realtà di gruppi italiani maschili, accomunati oltre che dalla pratica di discussione, di condivisione, di lavoro con il corpo e di autocoscienza fra uomini, anche dall’ascoltare l’esperienza del femminismo come generativa di nuove opportunità (e non come una minaccia) e dal cercare un confronto politico con essa.
A proposito dell’autocoscienza, essa è una pratica nata negli USA negli anni ’60 del secolo scorso con il femminismo: “Le americane parlavano per l’esattezza di ‘elevare la consapevolezza’ (consciousness-raising). Il termine ‘auto-coscienza’ fu adottato da Carla Lonzi che diede vita a uno dei primi gruppi italiani con le caratteristiche di quella pratica. Ossia, gruppo volutamente piccolo, non inserito in organizzazioni più vaste, formato esclusivamente da donne le quali si riuniscono per parlare di sé o di qualsiasi altra cosa purché in base alla propria esperienza personale” (Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg&Sellier, Torino 1987, p. 32; citato in Muraro 2006, p.135)
Sono in numero maggiore i gruppi omogenei per quanto riguarda l’orientamento etero ma, considerando la storia della presenza gay in alcuni di questi gruppi e a giudicare dalla adesione della cosiddetta Rete degli Uomini al Pride nazionale di Bologna del 2008, si può affermare che la riflessione a partire da un’esperienza omosessuale sia ascoltata con attenzione. La motivazione che viene spesso ribadita è che, in forza di questo confronto, si può attuare non tanto l’elaborazione di un paradigma unitario, quanto un ripensamento che affronti la sfida della complessità dell’esperienza maschile.
Alcune voci autorevoli del movimento omosessuale e del femminismo hanno espresso perplessità rispetto alla capacità trasformativa dei gruppi di autocoscienza maschili. Mario Mieli (Mieli, 1977, p.203) rappresenta “i gruppi di autocoscienza maschile”, quelli di cui era ai suoi tempi a conoscenza, come “reparto nemico che diserta la Norma eterosessuale”, nominando, consapevolmente con un linguaggio rivoluzionario bellico, una contrapposizione tra:
“… froci e Norma eterosessuale, tra checche e maschi ‘in crisi’ che non si riconoscono più completamente nell’Esercito della normalità e nella sua ideologia. I gruppi di autocoscienza maschile non hanno altro senso se non quello di prolungare il patteggiamento tra la ‘normalità’ sancita dal sistema e la gaia, totale opposizione ad essa: noi gay auspichiamo il loro scioglimento e la partecipazione in prima persona dei loro ex membri al movimento omosessuale rivoluzionario e in particolare ai suoi piaceri (…)”.
Si dà dunque rilievo alla difficoltà di superare una complicità costitutiva del maschile con la norma eterosessuale egemone, implicitamente però rappresentandoli solo come gruppi di uomini eterosessuali. Nel prosieguo dell’articolo, sarà presentato del materiale per verificare sia quanto queste riserve sia definitive sia quanto la nemesi di invisibilità agente dell’eterosessualità si possa riprodurre, come nell’”accademia”, anche nel microcosmo delle dinamiche dei piccoli gruppi maschili di discussione, per lo meno in riferimento ai gruppi a cui chi scrive ha partecipato. Le considerazioni e le attribuzioni di volta in volta espresse su “gli etero”, “i non-etero”, “i gay” etc. devono essere prese in senso idiografico e non nomotetico. Inoltre le posizioni critiche, che a volte verranno espresse da chi scrive, non comportano una svalorizzazione della pratica dei gruppi degli uomini e del Maschile plurale in particolare, ma riportano la problematica dell’eredità dell’incorporazione di condizionamenti e di un linguaggio che molte volte sopravanza le buone intenzioni.
4.1. Stare insieme
Come sottolineato più sopra, in pochi gruppi maschili, tra quelli di cui sono a conoscenza, sono presenti uomini apertamente non-eterosessuali. Il gruppo Maschile Plurale romano e la rete di cui fa parte hanno da tempo operato affinché ai lavori partecipassero anche gay dichiarati e consapevoli, fino a diventare una parte costitutiva imprescindibile, seppur minoritaria, della composizione e della vitalità di alcuni gruppi locali e sicuramente della rete nazionale dei gruppi uomini.
Il punto di vista di Fausto ci aiuta a individuare una delle dimensioni del confronto:
L’idea che gli omosessuali hanno costruito del maschile corrisponde ad un maschile decostruito.(…) Per quanto riguarda il discorso che come gay propongo al Maschile Plurale, non si tratta di costruire un’altra identità maschile in forza del fatto che quella che abbiamo ereditato non ci piace. Si tratta invece di far vedere come dentro la cosiddetta “identità maschile” ci sia una molteplicità di caratteri e caratteristiche che, per una necessità storica e culturale di dominio, sono state messe al lato, accantonate, cancellate.
I non-etero in effetti sembrano avere un vantaggio culturale e antropologico che Claudio nomina in termini di vere e proprie competenze, perché come dice Fausto “non è il fatto di essere omosessuali in sé ma il fatto che l’omosessualità dentro la nostra struttura culturale è un elemento che viene reso parziale; allora da quel punto lì, tu incominci a porti delle domande e a mettere in discussione la struttura stessa”. Claudio descrive così sia l’importanza che la problematicità di questo incontro:
E’ un poco come nel racconto Flatlandia di Abbot, un mondo piatto a due dimensione dove (…) l’ingresso di un soggettività tridimensionale mette in discussione tutto (…). Questa soggettività [i gay] vede il mondo in una maniera diversa da come il mondo normalmente si autorappresenta, perché ha costruito una rappresentazione di sé differente. E incontrare questa rappresentazione diversa di sé mi aiuta meglio a contestualizzare la mia rappresentazione.
Anima dello stare insieme è una buona volontà reciproca (“reciproca” perché spesso, e finora inevitabilmente, le due “sponde” vengono alla luce), che però ha per tutti costi non indifferenti. Due esempi: la disomogeneità delle esperienze di vita toglie il carattere, si potrebbe dire, “terapeutico” dell’autocoscienza e della condivisione fra omogenei; i vissuti gay, nei fatti e nell’esposizione di essi, sono sovente più estremi e abbaglianti rispetto alle dimensioni più sobrie e timide dei vissuti eterosessuali, che corrono a volte il rischio di avere meno spazio. Uno dei valori però dello stare insieme nella compresenza delle differenze risiede nelle interconnessioni fra le “sponde” ed è messo in luce da Jones:
Ho pensato che la questione dell’omofobia è una questione centrale e importante proprio nella misura in cui io individuo in questo problema il fatto che una cultura omofobica, di stigma nei confronti dell’omosessualità, è una cosa che condiziona fortemente la qualità delle mie relazioni, del mio modo di stare nelle relazioni. E lo condiziona nei termini di un limite, di una impossibilità, di un tetto alla qualità, alla possibilità di scambio, di condivisione, che ci può essere fra uomini a prescindere dal loro orientamento. Questo mi condanna ad una condizione di solitudine e di separatezza.
4.2. Padri e figli
Molti temi trattati nel gruppo toccano esperienze che ognuno può percorrere nella propria esistenza in modo “differente” ma non così “diverso”, ad esempio il tema “padri e figli”. Riportiamo su questo tema le parole di Andrea per dimostrare come la condivisione in gruppo possa avere prospettive non solo autocoscienziali ma anche politiche. Le considerazioni partono dal ricordo ancora vivo riguardante un genitore di un ragazzo omosessuale al Pride nazionale del 2000:
Su un autobus a due piani dei genitori degli omosessuali c’era un signore che sembrava l’ammiraglio Nelson a Trafalgar su una nave in piena battaglia: gli veniva secondo me francamente da vomitare. Però stava là, come a dire ‘sto sul ponte della nave nel pieno della battaglia’. Mi sono fatto tutta una fantasia: che era la moglie che ce l’aveva portato là e secondo me lui non c’entrava niente, ci aveva una faccia quasi disgustata. (…) La mia reinterpretazione politica era che attraverso la relazione personale con la sua famiglia, lui avesse superato l’omofobia, o ci stesse facendo i conti lì in quel momento (perché ci aveva una faccia…), ma stava fermamente dentro alla manifestazione a pieno titolo e affrontava i flutti irritanti, eccessivi, del Pride del 2000, dritto in piedi come uno che affronta la propria responsabilità e assume un gesto di presenza.
La dinamica fra padre e figlio rievocata non riguarda solo il processo di coming out, ma risuona in ciascun ascoltatore in quanto parla della necessità di uno strappo di autodeterminazione da parte di un figlio e dell’inevitabile necessità da parte di un padre di accettarlo. Si coglie anche la possibilità di riallacciarsi ad una riflessione politica, ossia di un apprendimento e di una conquista sul piano personale che diventa, secondo Andrea, patrimonio della collettività:
Il conflitto sull’identità di genere, sulla libertà di espressione e di pratica delle proprie scelte relazionali che esprime il movimento omosessuale mi trova, entusiasticamente se vogliamo, presente. E’ il fatto che dentro questa lotta si saldano l’esperienza personale di relazione, che non è solo relazione affettiva fra due omosessuali, ma relazione affettiva fra un omosessuale e un mondo di persone, e che attraversa le generazioni e pone di fronte a dei cambiamenti di paradigma personale non teorico, per esempio appunto i genitori degli omosessuali (…). [Il gesto di quel padre] ha un valore liberatorio che trascende il gruppo particolare che si incarica di porre storicamente e dentro il conflitto quel particolare diritto.
4.3. La relazione con le donne
I confronti, le condivisioni e le discussioni che ruotano intorno al rapporto con le donne potrebbero essere solo una questione di divergenza di desiderio, ma le implicazioni per tutti gli interlocutori maschili in gioco devono essere, secondo me, ancora ben chiarite. Sul tema della relazione con le donne, la voce gay si presenta, per lo più, se non laconica per lo meno fuorviante: da parte dei gay all’interno del gruppo sono spesso utilizzati nel discorso stereotipi e categorie di genere, venati di misoginia e di un certo machismo, che sfuggono all’accusa di revanscismo sia perché i gay sono rappresentati e si rappresentano in una certa misura “fuori gioco” rispetto alla relazione con la donna, sia per un atteggiamento di implicita tutela di una minoranza oppressa. In effetti in questi gruppi di discussione, e soprattutto sul tema della conflittualità fra uomini e donne, essi godono di una certa immunità generica e di una certa presunzione di innocuità. Ci sono infatti vari presupposti che qui potrebbero essere ipotizzati: il gay come persona socialmente oppressa e quindi particolarmente liberata; il gay come vittima da difendere; oppure l’idea che il gay, qualora non interessato alla relazione intima con le donne, agisca nei loro confronti intenzioni abbastanza anodine e minimali.
Il fatto è parso a me ancora più evidente nei gruppi misti di discussione e condivisione fra uomini e donne (Cfr. AA.VV., 2006). Il porsi come non-etero consente all’uomo di attuare con le donne, in maniera disinvolta, categorie, comportamenti e modalità di comunicazione di sapore spesso retrogrado, forzando quel limite del politically correct che invece condiziona in alcuni casi il confronto degli uomini etero con le donne.
La political correctness è stata riconosciuta come un rischio anche in altre situazioni, giacché, come dice la Haraway, “le posizioni dei soggiogati non sono innocenti ” (Haraway 1995). Ma i gay possono godere di uno status particolarmente nocivo in termini di maturità, personale e politica, nell’essere a seconda della convenienza paladini della franchezza con le donne e oppressi dalla maschilità tradizionale con gli etero. L’adagiarsi dei gay del gruppo in una situazione di comfort, giustificati dal comprensibile fabbisogno di requie che assilla chi vive da non-etero la società italiana contemporanea, oltre ad annoiare loro stessi (e quindi a togliere senso alla partecipazione e al coinvolgimento) riduce la possibilità di apprendimenti e di prese di coscienza, che si possono realizzare solo con il contributo di lucidità e di competenza de-costruente e de-generante di ciascuno. Secondo chi scrive, attribuire preventivamente ai gay un credito, in quanto storicamente oppressi, non consente che sia dibattuta esplicitamente nel gruppo la complicità e la pericolosità come supporto alla maschilità tradizionale che un certo modo di vivere l’omosessualità può avere avuto e potrebbe avere tuttora, ad esempio nei confronti dell’oppressione delle donne. Un esempio di questa complicità potrebbe essere la pubblicità di Dolce e Gabbana apparsa nel 2007, in cui è messa in scena, con un’estetica glamour, una violenza di gruppo su un donna. Sull’implicazione di un desiderio omoerotico non risolto nella violenza sessuale alle donne un esempio è la “(…) valenza omosessuale che agisce nella violenza di gruppo dove (…) non è la donna il vettore liturgico dell’eccitazione ma la vista del sesso dell’altro maschio. Qui è l’evocazione del latente fantasma omosessuale e non il corpo femminile il fattore scatenante il desiderio” (Ventimiglia 1998, p.29).
Il controaltare è la tentazione di nascondimento individuata da Stefano: “Su questo c’è anche la posizione di comodo di riferirsi ad una norma e di porsi rispetto a questa solo in una posizione che interroga ma che non si interroga”.
4.4. Il corpo
Altro tema border-line fra diversità e divergenza è quello del corpo. Anche presupponendo che nelle pratiche del gruppo si possa prescindere dall’orientamento del proprio desiderare, la parzialità non è solo nella destinazione in sé e per sé del desiderio, ma in come il desiderio ha fatto conoscere e vivere a ciascuno il proprio corpo, in considerazione del fatto che la sessualità coinvolge in maniera im-mediata il corpo. I partecipanti gay del gruppo pensano, in modo abbastanza omogeneo, che la consapevolezza da parte di un gay del proprio corpo può essere molto divergente/differente rispetto a quella che ha un etero: questo a volte è rivendicato dai gay (o invidiato dagli etero) come espressione di una maggiore libertà, come conquiste e possibilità proprie del corpo maschile, a prescindere dall’orientamento (Cfr. Morin, 1994).
Nella corso della recente discussione, ponevo questa domanda: “Nell’incontro fra due corpi maschili, qual è il confine, qual è il punto critico che segna il passaggio dall’etero all’omo? E questo confine, questo punto critico non è forse frutto di una costruzione, di un’educazione, di un contesto culturale?”. Anche Gianfranco si interrogava: “Non riesco a capire qual’è la differenza ultima fra il mio desiderio (maschile come voi, no?) e il vostro. Qual’è la differenza ultima del desiderio rivolto al maschile e al femminile? Quale poi è il punto che fa girare da una parte o dall’altra? Questo per me diventa un momento di riflessione e, devo dire, anche di esperienza personale”. Lucidamente, Stefano chiede “quanto nell’idea della rappresentazione del desiderio, un eterosessuale o un omosessuale si misura comunque con la stessa rappresentazione del corpo maschile?”.
Entra così in campo un’altra nemesi del corpo maschile, presente, secondo chi scrive, a prescindere dagli orientamenti: la bulimia sessuale, non tanto nelle manifestazioni patologiche particolari (la compulsività di un sex addicted) quanto nella sua dimensione culturale, come valore che il maschile si dà nell’accumulo quantitativo di prestazioni sessuali. Sandro parte da una provocazione e ipotizza un nuovo orizzonte, per qualsiasi “sponda”:
[Per quanto riguarda la sessualità] la modalità etero-patriarcale e la modalità [gay] dispersiva sono due modalità maschili del modo di comportarsi della sessualità maschile, entrambi a mio avviso condannate. La prima, quella patriarcale, la critichiamo tutti ed è condannata per la totale chiusura a cui porta l’individuo: nel senso che il maschio patriarcale, padre di famiglia, eterosessuale, è un uomo che non sa toccare altri uomini, non sa alla fine toccarsi, non ha più un rapporto secondo me con il proprio corpo. Il maschio omosessuale che visita i cessi è condannato invece da una dispersione. Allora la domanda che mi faccio è: “non sarà che la via d’uscita è uscire dalla sessualità”. E me lo dico molto provocatoriamente, nel senso che l’uscita sarà per gli uomini recuperare una dimensione affettiva che prescinda da queste che in certi momenti io sento come delle catene.
Lo spazio in cui l’afasia può transitare in un’esperienza concreta e diventare di nuovo racconto si crea nel momento in cui si accantona il linguaggio delle parole, riconoscendo quanto ancora sia troppo condizionato dai paradigmi che si vorrebbe mettere in discussione, e si ascolta il corpo, più che agirne le voglie e le repulsioni, come avviene in alcuni spazi dedicati all’interno degli incontri dei gruppi uomini. Allora la parola può tornare ad avere qualcosa di cui parlare e gli uomini possono ritrovare uno spazio da esplorare e nel quale imparare l’uno dall’altro.
5. Dalle sponde di un fiume alle rive di un lago
Dentro il gruppo, le “sponde” appaiono e scompaiono ricorsivamente. Operano condizionamenti culturali di cui si fa fatica a liberarsi: “Quando si ragiona per sponde binarie, non solo si dà per scontato il carattere di normalità al proprio comportamento e di eccezionalità a quello dell’altro (operazione comune a tutti gli orientamenti), ma soprattutto si rappresenta come plurale la propria sponda, mentre l’altra appare avere un contenuto uniforme” (Greco, 2008).
L’ipotesi di chi scrive è che all’interno dei gruppi di uomini di cui stiamo trattando (a dire il vero più negli incontri a livello nazionale con la Rete degli uomini che a livello romano), si realizzi per alcuni versi un livello paritario di confronto e di relazione, ma per altri versi ci sia ancora un’identificazione più o meno conscia di maschilità con eterosessualità. Qui verte anzi una delle aree maggiori di criticità, riproducendosi quella contraddizione di cui abbiamo parlato rispetto a men’s studies e gay studies: il “dare per scontato” il carattere di norma all’eterosessualità e di eccezionalità al discorso omosessuale. Non solo ciò è irritante per chi lo sopporta e spaesante per chi si sente messo in discussione, ma soprattutto è poco utile per entrambi.
Eppure, la condivisione di vissuti rivela del maschile la qualità eteroclita, come quei verbi (ad esempio io vado, noi andiamo) che nel corso della loro declinazione alternano forme con diverso tema senza cambiare di significato: “Le narrazioni potrebbero ridefinire e ampliare per ciascuno il significato di ‘che cosa è un uomo’ ma lo spaesamento viene rassicurato rappresentandosi come ‘gli uni rispetto agli altri’: reciprocamente alieni; su due sponde diverse; noi e voi. Si presenta ricorsivamente la difficoltà di applicare la decostruzione del paradigma maschile tradizionale. Le regole di declinazione normalizzante dei codici linguistici e dei modelli concettuali appaiono profondamente incorporati in tutti. A meno che non si accetti lo spaesamento come condizione felice e l’essere eterocliti, tutti e ciascuno, come una esperienza di libertà” (Greco, 2008).
I vissuti, i contributi e le posizioni possono essere percepiti e rappresentati come “differenti” piuttosto che come “diversi”: nel primo caso si allude all’intenzione di supportare una pluralità nella quale non ci si confonda appunto in una genericità indifferenziata; nel secondo caso la divergenza sarebbe tale da rendere difficile sia il ricomporsi di posizioni che si escludono a vicenda, sia il costruirsi di un discorso condivisibile. Il dubbio che in questo tipo di posizionamento ci sia anche un’incorporazione inconsapevole dell’alienazione, dell’esclusione dell’omosessualità e dell’omoerotismo come possibilità del maschile sembra essere molto fondato.
In ogni caso, partendo dal presupposto che il maschile sia una trama complessa ed eteroclita, ci si deve interrogare quanto e per che cosa sia strumentale la configurazione che vorrebbe i modi maschili di vivere il desiderio separati come sponde di un fiume e non privi di soluzione di continuità come rive di un unico lago. La questione non è così chiara e l’”errore” non è per forza o esclusivamente attribuibile ad una parte piuttosto che all’altra: non è stata altresì ancora detta l’ultima parola su “a chi ciò convenga”.
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