foto di Giulio Spiazzi dal sito http://ioricordogenova.altervista.org/blog/
2001 “La nonviolenza e le giornate di Genova”
di Stefano Ciccone e Michele Citoni
L’uscita del film Diaz in questa primavera 2012, a più di dieci anni di distanza, ha suscitato un dibattito rinnovato sulle giornate del luglio 2001. Un dibattito, come il film, concentrato più sulle violenze messe in atto dalle forze dell’ordine che sulle caratteristiche del movimento.
Può essere di qualche interesse tornare a pubblicare una riflessione di Stefano Ciccone e Michele Citoni che a quella mobilitazione parteciparono con un gruppo di affinità.
Non rappresenta, perché non ne esiste uno, il punto di vista di Maschile plurale; è rilevante qui perché parte anche da una critica dei modelli dominanti di mascolinità e incrocia la riflessione femminista sul rapporto fra forme di lotta e rappresentazione dei conflitti sociali.
“La nonviolenza e le giornate di Genova”
Questo punto di partenza era un elemento di forza o di debolezza? Noi riteniamo che contenesse una ricchezza, da giocare tuttora nel difficile percorso che si e’ aperto.
Abbiamo scelto quindi di partecipare alla rete nazionale dei gruppi di affinita’ per le azioni dirette nonviolente. A Genova ci siamo trovati nella stessa piazza della marcia delle donne. Ci aveva portato la’, credo, non un di meno (l’evitare lo scontro con la polizia con cui la “disobbedienza” accetta invece di misurarsi) ma un di piu’: percorsi paralleli di critica della politica e delle sue forme, dei rischi di subalternita’ alle culture dominanti e ai modelli di dominio e gerarchia che anche movimenti antagonisti rischiano di riprodurre. Nelle settimane che ci avvicinavano all’appuntamento genovese abbiamo tentato di sottoporre a critica l’equazione conflitto=scontro di piazza, un’opzione povera e irresponsabile che assumeva come ineluttabile lo scontro e veniva proposta al movimento con l’obiettivo di permettere al maggior numero possibile di persone di praticare questo scenario anziche’ di sovvertirne le regole.
L’abbiamo fatto con interventi come quello pubblicato, tra l’altro, sul sito di “Marea”, che evocava l’immagine di uomini in divisa con i loro scudi, contrapposti ad altri con divise diverse ma con scudi speculari, che paiono giustificarsi a vicenda in un gioco di rimandi di identita’ amplificati dai media e osservanti lo stesso ordine simbolico. Abbiamo tentato di denunciare il rischio di perpetuazione di vecchie culture gerarchiche e di potere che tradiscono la subalternita’ alle logiche patriarcali del pensiero unico, e la cui efficacia politica – al di la’ della conquista di qualche copertina – e’ tutta da verificare.
In questo conflitto che abbiamo tentato di aprire all’interno del movimento abbiamo trovato un riferimento forte nel documento “Lontane dai militari, lontane da chi li imita”, scritto in preparazione della marcia delle donne.
Ma l’urgenza di un intervento ci veniva suggerita anche dalla nostra esperienza piu’ diretta. Per esempio, da quanto avveniva nelle riunioni preparatorie della Rete Anti Globalizzazione Economica di Roma.
Una sera il rappresentante delle tute bianche ha proposto a tutta la rete di assumere la loro proposta organizzativa accettando che i particolari restassero riservati. Alla richiesta di garanzie di democrazia e informazione proveniente da una ragazza, la risposta fu piu’ o meno questa: non siamo generali che comandano ma “tecnici” (ebbene si’) che hanno messo a punto un “dispositivo”, il quale ha le sue regole e comporta “una temporanea sospensione della democrazia” (!), ma solo per fronteggiare l’emergenza esterna e per evitare di parlare a “radio Digos” che e’ sempre in ascolto..
Delega agli esperti delle scelte che riguardano tutti, astrattezza delle ragioni tecniche per sottrarsi alla critica, accettazione delle ragioni dell’emergenza per giustificare la riduzione del dibattito interno e presentarsi compatti di fronte al nemico: un armamentario che riproduceva quanto avevamo combattuto nella lotta contro il nucleare, in quella contro i missili, come in tutte le occasioni in cui abbiamo difeso la democrazia e le regole del diritto quando leggi d’emergenza e militarizzazione della vita civile si rendevano per alcuni necessarie di fronte a un nemico, che fosse il Patto di Varsavia o il terrorismo. L’esito di quell’assemblea ci parve per diversi aspetti deprimente: molti espressero la propria distanza dal linguaggio e dalle forme organizzative proposte ma conclusero di affidarsi a chi offriva “esperienza, competenza, organizzazione, il grande lavoro fatto”, etc.
Oggi, dopo Genova ancor piu’ di ieri, non solo ci sentiamo estranei a culture e forme di lotta che riproducano linguaggi e modelli di comportamento “bellici”, anche solo simbolici, ma crediamo che queste scelte abbiano mostrato tutta la loro subalternita’ e pericolosita’. Oggi piu’ di ieri scegliamo di fare della nonviolenza un tratto portante della nostra quotidianita’ e il modo per oppoci alle ingiustizie di cui siamo testimoni
A Genova abbiamo capito (e forse lo abbiamo in parte anche dimostrato) che nonviolenza non vuol dire accettazione inerme degli eventi, ne’ riduzione del conflitto, ma un modo per restare coerenti senza fornire alibi agli avversari. Fare politica, agire il conflitto, vuol dire rimettere in discussione gli scenari che ci vengono presentati come ineluttabili e rifiutare il ruolo che quegli scenari ci assegnano.
Abbiamo avuto invece l’impressione che l’errore compiuto da tutte le “aree” guardando a Genova sia stato quello di accettare l’ineluttabilita’ di uno scenario e la sua rappresentazione simbolica: una dinamica in cui il potere e’ semplificato in una “cittadella” e la sua critica nella modalita’ dell’assedio, se non dell’invasione del territorio
L’aspetto logistico-militare era diventato la priorita’ dell’appuntamento che si preparava, a scapito della comunicazione politica con la citta’, dell’allargamento del movimento, della ricerca di contenuti piu’ avanzati.
La strada per Genova appariva sempre piu’ come un grande imbuto nero in cui entrare con virile sprezzo del pericolo o con riluttanza, oppure da scansare con timore. Un imbuto che rischiava di ridurre la ricchezza delle nostre storie e delle nostre soggettiivita’. Nei giorni precedenti le manifestazioni le cadute di subalternita’ a questa logica sono state da parte di alcuni sempre piu’ accentuate: dalla “dichiarazione di guerra” ai G8, alle sfilate per i giornalisti con il kit da disubbidiente completo di scudo, casco e busto salvagente. Ma in questa dinamica – quella che accetta che l’avversario tracci a terra una linea rossa e che questa diventi la misura del proprio agire – abbiamo rischiato di starci tutti e tutte: chi dichiarando di voler violare e penetrare quel limite con la forza, chi solo con la resistenza passiva, chi con forme piu’ creative, chi “limitandosi” a circondarlo, assediarlo. Solo nelle ultime ore, quando lo scenario era per molti versi determinato, si e’ cercato di fare uno sforzo per spostare il conflitto, per risignificare la linea che delimitava la zona rossa, per riportare sull’aspetto comunicativo e non “logistico militare” l’azione del movimento..
Abbiamo insomma peccato di scarsa fantasia e alterita’. La stessa area nonviolenta e’ apparsa accettare lo scenario descritto, rischiando di offrire una prospettiva solo piu’ “moderata” o “per bene”. Troppe volte la nonviolenza e’ stata confusa con la paura della violenza o con il rifiuto della violenza altrui e propria.
Per noi la scelta di azione nonviolenta ha senso proprio per la valenza opposta che le conferiamo e cioe’ l’irriducibilita’ delle nostre ragioni, l’indisponibilita’ a scendere a patti con forme gerarchiche e di delega proprie del sistema che intendiamo porre a critica. Scegliamo la nonviolenza perche’ concede meno spazio a quel machismo tanto presente in forme espressive che si vogliono antagoniste, perche’ tende a rompere ogni specularita’ col potere che critica, perche’ cerca di disvelare i meccanismi di delega, di riproduzione delle gerarchie, di uso del “nemico” esterno o dell’emergenza per occultare o rimuovere i conflitti, tratti che tendiamo continuamente, anche a sinistra, nella sinistra piu’ radicale, a riproporre.
Nonviolenza e’ innanzitutto ampliamento del conflitto e rifiuto delle sue rappresentazioni ideologiche (intendendo per ideologia la falsa coscienza della realta’, generata da un potere che non si giunge a riconoscere e nominare); ampliamento del conflitto oltre i luoghi tradizionali per leggerlo nella quotidianita’, nelle relazioni interpersonali. Insomma la nonviolenza come scelta di radicalita’ estrema e intransigente che non mette da parte i rischi di subalternita’, non rinvia la loro tematizzazione a dopo la risoluzione dei “conflitti principali”. Perche’ ogni militarismo, dei potenti come degli oppressi, produce omologazione, lasciando i contendenti piu’ simili di quanto non fossero prima dello scontro e azzerando le differenze e l’autonomia dei soggetti all’interno di ognuno degli schieramenti in lotta.
Ma a Genova le differenze di prospettiva, di cultura e linguaggio che avevano portato a distinguere le varie piazze tematiche nella giornata di venerdi 20 luglio hanno rischiato di essere ridotte a mere varianti. E ancora oggi, dopo quelle drammatiche giornate, c’e’ chi continua a rappresentare le differenti scelte relative alle forme di mobilitazione come posizioni sulla scala lineare del gradiente di “determinazione e radicalita’”: cosi’, paradossalmente, ci sarebbe l’area che assume la violenza come parte delle proprie scelte, l’area delle tute bianche che accetta lo scontro dove produce forme di autodifesa passive, la forma tradizionale di presenza dei lavoratori con un proprio servizio d’ordine, fino alle forme piu’ imbelli e aconflittuali dei nonviolenti, delle donne e dei movimenti religiosi che si limitano a canti, rappresentazioni teatrali, veglie e preghiere.
Se si accetta questa tassonomia delle forme di lotta la nonviolenza sembra ridursi a disponibilita’ a essere picchiati senza reagire. La nonviolenza come semplice disponibilita’ a subire la violenza dell’avversario (aspetto eventuale e non necessario, ne’ fondante della nostra strategia nonviolenta), invece che mossa da giocare per ridislocare un conflitto, diventa misura della propria abnegazione, sacrificio che verifica la saldezza delle proprie motivazioni. In questa tendenza crediamo pesino alcune precise influenze che hanno alimentato la cultura dei movimenti nonviolenti. Pensiamo alla percezione del corpo in Gandhi (ne parla Marco Deriu su “Alfa Zeta”) o in componenti religiose che spesso tendono a condividere una svalutazione del corpo e un dualismo tra dimensione corporea e identita’ personale di cui abbiamo imparato a diffidare.
Decidere di misurarsi con il rischio di essere picchiati dalla polizia non e’ per noi una misura della nostra convinzione, ma un possibile esito dell’estrema tensione a non voler rinunciare alla nostra autonomia, alla nostra libera costruzione del mondo. E’ insomma un tentativo di non rinunciare a cio’ che si e’, di rifiutare l’omologazione a una logica di violenza, di azione-reazione, non certo vocazione mistica al martirio. E questo perche’ il nostro corpo e’ qualcosa che mettiamo in gioco in quella relazione e in quel percorso politico, non uno strumento che accettiamo di mortificare in nome di un ideale.
A questo proposito, crediamo che un incontro tra elaborazione delle donne e pratica nonviolenta possa arricchire e trasformare pratiche conflittuali che hanno rivelato in questa vicenda tutta la loro potenzialita’. Proprio perche’ crediamo nel valore strategico, culturale e politico della scelta nonviolenta pensiamo che sia straordinariamente attuale l’apertura di un dibattito e una ricerca che ne rinnovi riferimenti culturali, forme espressive, partecipative. In questa ricerca proprio il confronto con l’elaborazione che fa del corpo e della radice corporea della soggettivita’ un elemento fondante offre un’opportunita’ storica per elaborare un’idea della politica e del conflitto, ad esempio, in cui mettiamo in gioco i nostri desideri e non accettiamo di immolarli in un percorso di testimonianza.
Allo stesso modo, il confronto tra i percorsi di critica della parola, e in primo luogo della parola politica, compiuti dal femminismo e dalla nonviolenza, puo’ offrire le risorse per tentare di superare un limite con cui la vicenda di Genova si e’ scontrata, ovvero una “paura della parola” che ci pare attraversi componenti e generazioni diverse
La parola politica e’ stata spesso, in passato, strumento per la costruzione di gerarchie e potere, ha prodotto meccanismi di delega e appartenenza acritica al gruppo. Pensiamo alla retorica dell’intervento d’assemblea, alle “relazioni” in cui tutto torna e tutto conferma la scelta strategica del gruppo: parole giocate piu’ per il loro potere evocativo di un’appartenenza che non per essere strumenti di comunicazione, parole astratte per sottrarsi alle relazioni, parole escludenti per affermare il potere di una conoscenza o la condivisione elitaria di un percorso. Contro questo potere della parola, o meglio questa parola del potere, e’ stata ingaggiata negli scorsi decenni una lotta che ha teso a destrutturare le liturgie della politica e i meccanismi che ancora affliggono per molti versi la vita interna dei partiti, ma non solo di questi.
Eppure la parola politica e’ anche luogo di mediazione, di articolazione degli obiettivi, dei conflitti. E’ occasione per l’espressione delle soggettivita’ e delle irriducibili individualita’, che nell’azione comune rischiano spesso di restare in ombra. La parola permette di esprimere la storicita’ delle proprie affermazioni, il carattere multiverso, contraddittorio ed evolutivo del proprio discorso, da’ conto delle contraddizioni e della consapevolezza della parzialita’ del proprio punto di vista.
Per questo ci spaventa la cultura dell’obiettivo, dell’azione, specie a fronte di un terreno complesso e articolato coma la globalizzazione. Vediamo concretamente il rischio della rimozione della politica, l’idea che l’obiettivo sia dato una volta per tutte in termini piu’ o meno semplicistici (l’opposizione alla globalizzazione neoliberista) e che poi non resti che praticare questa opposizione con forme di espressione simbolica, con l’individuazione di obiettivi emblematici, con testimonianze estreme o con piu’ spicce forme di conflitto che rimuovono la necessita’ di riflessione sulle implicazioni simboliche del proprio agire e propongono l’efficacia, mediatica o logistica, come priorita’. Vediamo anche i segni di un fastidio per il confronto, il rischio che la necessita’ di raggiungere soluzioni e scelte sostenute dal maggior numero di adesioni limiti lo spazio per ascoltare le ragioni delle diverse opzioni, riduca l’attenzione da porre ai limiti accettabili da ognuno/a, e impoverisca la ricerca di una mediazione possibile
La necessita’ di contrastare l’uso del potere sul terreno della parola rischia insomma di generare un’indifferenza alle ragioni profonde degli altri, producendo una continua contrattazione anziche’ il dialogo. Prima e durante le giornate di Genova abbiamo sentito troppe volte frasi come queste: “basta coi discorsi, si tratta di agire, c’e’ un’urgenza maggiore, non e’ il momento di parlare di cio’ che ci divide ma di lottare per cio’ che ci unisce”. E’ paradossale che nel percorso che ha portato a Genova l’area della nonviolenza si siano scorti i segnali di una simile deriva. Per noi nonviolenza e’ anche, forse soprattutto, porre in atto forme di comunicazione interne e di ricerca del consenso che consentano di ascoltare i bisogni di ogni singola persona e non concedano spazio a dinamiche di tipo gerarchico o di adesione conformistica e di appartenenza acritica. La nonviolenza non e’ solo messa in campo di azioni dirette, tantomeno puo’ ridursi a una “tecnica” di presenza in piazza.
E’ proprio la dimensione emergenziale che, per altro verso, rischia di segnare pesantemente l’elaborazione collettiva del dopo Genova.
Le violenze della polizia, l’arbitrio contro i manifestanti, l’arroganza del governo hanno qualcosa di inedito e di insopportabile. Da quando siamo tornati non siamo riusciti a smettere di leggere tutti i particolari delle violenze, delle bugie, degli abusi. Non e’ cosa marginale. Si tratta di uno stato d’animo che ci sembra condiviso da migliaia di persone e che rischia di mutare la qualita’ della nostra azione e della nostra riflessione. Esso tende infatti a schiacciare la partecipazione di molti nella logica dello scontro militare, del “fare blocco” di fronte al “nemico”, e a intrappolarla nel vortice militarizzazione-criminalizzazione-isolamento.
Una poesia di Brecht contiene questi versi:
“Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce”.
Ecco, vogliamo che quanto e’ accaduto a Genova non riesca a mutare il nostro viso, vogliamo continuare a parlare con voce chiara, perche’ le nostre parole non siano dettate dall’emergenza della repressione ma continuino a rappresentare la nostra autonomia. In questo, dopo Genova, tutto e’ cambiato.
D’altra parte, c’e’ evidentemente il rischio di un’altra reazione: quella della paura, che rischia di rimandare molti a casa. A Genova abbiamo conosciuto, tra gli altri, un gruppo di ragazzi e ragazze che hanno partecipato con noi al percorso dei gruppi di affinita’ nonviolenti. Per alcuni/e di loro quella era la prima vera manifestazione. Come loro, migliaia di persone hanno conosciuto, partecipando per la prima volta a una mobilitazione di massa, le cariche, i lacrimogeni, gli insulti, i pestaggi indiscriminati, i cassonetti e le auto bruciate, le vetrine spaccate, una violenza che sembrava il dato sovrano. Molti e molte decideranno di non tornare la prossima volta (gia’ tantissime persone avevano deciso di non venire a Genova per non trovarsi coinvolti negli inevitabili “scontri”); altri e altre, forse meno, torneranno con la determinazione di non lasciarsi pestare e di reagire all’arroganza e all’arbitrio a cui abbiamo assistito
Il movimento, e con esso la sua ricchezza umana e politica, potrebbe a questo punto essere sopraffatto da due possibili reazioni psicologiche – la rabbia e la paura – che appaiono opposte ma sono per un verso speculari: entrambe riducono l’ampiezza della mobilitazione sociale e soprattutto la sua capacita’ di interlocuzione con il complesso della societa’. Se ci troveremo a praticare questo spazio “ristretto” non riusciremo a produrre conflitti che riguardino tutti e tutte, ma una sorta di guerra privata tra manifestanti e polizia, in cui le persone non militanti non si immischieranno.
Ma Genova non e’ stata solo scontri e violenza: e’ stata soprattutto una grande occasione di incontro tra decine di migliaia di persone provenienti da tutto il mondo con culture e storie diverse, accomunate dal tentativo di costruire un’alternativa all’arbitrio liberista, un’alternativa di pace, rispettosa del pianeta che ci ospita e di tutti i suoi abitanti. Di questa ricchezza di domande e culture la gran parte non giungono ai riflettori della cronaca, non essendo protagoniste dei riti muscolari e spettacolari
Ma qui nasce un ultimo dubbio che crediamo abbia investito in forme diverse sia chi e’ giunta a Genova a partire dalla propria pratica femminista sia chi ha scelto la nonviolenza come una delle chiavi di volta per leggere la politica. Un dubbio che ci porta a interrogare la nozione stessa di “movimento”. Chi ha sperimentato la ricchezza dell’azione quotidiana e concreta, della comunicazione nel piccolo gruppo, dell’utilita’ dell’agire tematico o locale o in un microprogetto di cooperazione si chiede se sia possibile, se sia utile mettersi in gioco in questa strana macchina o nube di polvere che chiamiamo movimento, o “movimento dei movimenti”; se sia necessario attraversare le strettoie che impone, frequentare dimensioni di massa in cui e’ sempre difficile far valere le individualita’, le differenze, le perplessita’, le domande prima ancora che le risposte.
Nella discussione svolta tra noi sono emerse, naturalmente, le solide ragioni della critica verso forme e luoghi tradizionali del conflitto politico, i cortei di massa, i sit-in, le grandi assemblee; allo stesso tempo, se Genova e’ stata un’occasione in cui percorsi politici diversi, linguaggi e forme dell’agire politico differenti si sono incrociati, crediamo sia utile evitare che questi tornino a separarsi nella reciproca diffidenza-indifferenza
Da una parte c’e’ il valore di un’assunzione di responsabilita’, la volonta’ di non lasciare quel luogo del conflitto alla dinamica di piazza gia’ sperimentata, il tentativo di praticare anche li’ forme di presenza e di comunicazione differenti che aiutino ad allargare la partecipazione. Ci sembra significativo che proprio Luisa Muraro, dopo avere riaffermato la forza di una “politica prima” costruita nelle relazioni quotidiane, abbia scelto di aggiungere queste parole: “Molto di quello che ho scritto qui, io e altre meglio di me, lo sapevamo da prima. Anche la mossa dell’avversario era prevedibile da prima, almeno da parte di chi ha una storia come la mia, che comincia negli anni Sessanta e si e’ sviluppata nei movimenti non organizzati. Ma non abbiamo parlato, non siamo intervenute. Saremmo state ascoltate? Non lo so, ma valeva la pena esporsi a questa prova e, forse, si doveva”.
Ma c’e’ qualcos’altro, oltre l’assunzione di responsabilita’: crediamo che ognuno e ognuna di noi abbia molto da imparare e non solo da insegnare.
Abbiamo scelto di ricercare forme di lotta che ci permettessero di restare fedeli a noi stessi/e, ai nostri bisogni, alle nostre domande e alle nostre scelte etiche e culturali; ma rifiutare di piegare alle emergenze la nostra autenticita’ e differenza, rifiutare di ridurre la propria soggettivita’, e’ altra cosa dal ritrarsi autoreferenziale. A Genova siamo cambiate/i: questo cambiamento e’ un elemento dinamico che ci arricchisce, ci costringe a parlare in modo da farci comprendere da persone con esperienze e linguaggi lontanissimi dai nostri, ci da’ l’opportunita’ di misurarci con temi che non avevamo affrontato, di verificare le nostre certezze e le nostre categorie interpretative su terreni differenti. Soprattutto ci porta a incontrare tante persone che non conosciamo.
La pratica dei gruppi di affinita’ per realizzare azioni dirette nonviolente non vuol dire semplicemente scegliere di interloquire con poche persone con cui c’e’ gia’ un’affinita’ e realizzare piccole o grandi azioni esemplari, ma anche comunicare e ascoltare in quel luogo grande, complesso e faticoso che ancora si chiama movimento. Movimento quindi non come soggetto portatore di una linea, di un’appartenenza, a volte addirittura di un “onore” o di un orgoglio da difendere, ma movimento come esperienza, luogo di incontro e trasformazione reciproca delle domande di senso e di liberta’ che separate rischiano di avvizzire e di abdicare alla trasformazione della realta’, per tutti e tutte. Il problema del dopo Genova e’ come espandere questa esperienza relazionale nel quotidiano. E’ questa, se vogliamo, la vera “emergenza” dell’oggi.
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