RIFLESSIONI SU COLONIA
di Mario Simoncini
E’ passato più di un mese dai fatti di Capodanno, quando branchi di uomini ubriachi, in gran parte magrebini e mediorientali, hanno molestato, assaltato e in alcuni casi stuprato donne sole o accompagnate a Colonia e in diverse altre città della Germania e, a quanto pare, in altri Paesi europei. Sembra plausibile ipotizzare un’organizzazione a monte, forse un passa parola attraverso la rete che ha coagulato atteggiamenti di disprezzo nei confronti delle donne e della loro libertà: diversamente bisognerebbe credere a una coincidenza di modalità e obiettivi che appare francamente improbabile, anche se episodi del genere continuano periodicamente a manifestarsi, a Capodanno o a Carnevale. Alcune altre ipotesi formulate in un primo momento, per es. gente assoldata dal Daesh o addirittura da gruppi di estrema destra allo scopo di far esplodere le contraddizioni della politica di Angela Merkel, si sono rivelate inconsistenti.
Alcuni commenti, come prevedibile, hanno spinto sul pedale dello scontro di civiltà, chiamando in causa la religione musulmana, attribuita quasi “per default” agli autori delle violenze. Ora, il Corano è un testo contraddittorio, notevoli sono le differenze tra una sura e l’altra, i non musulmani vengono chiamati infedeli ma poi si inneggia all’accoglienza e alla tolleranza, e allo stesso modo è ambigua la considerazione del ruolo delle donne e dei loro diritti e doveri. Testo contraddittorio come d’altra parte lo è l’Antico Testamento e, in una certa misura, i Vangeli. Ma più che la religione, oltre al procedere faticoso di processi di modernizzazione, può essere semmai il suo uso a fare problema, e cioè la dimensione fondamentalista che si accompagna al fatto che fra le tre religioni monoteiste – tutte comunque, quale più quale meno, ispirate a valori patriarcali – l’Islam è quella più recente e forse anche per questo la meno permeabile dalla dimensione della laicità e della separazione dei poteri. Quanto accaduto, inoltre, ha funzionato in qualche modo come alibi per riconsiderare in senso restrittivo le politiche di accoglienza e integrazione, che andrebbero invece rafforzate in un’ottica di razionalizzazione, tenendo conto della differenza sessuale ed evitando di costruire ghetti per soli maschi. In un contesto di timidezze della sinistra europea, in sostanza, le destre xenofobe sembrerebbero aver dettato la linea, dando forma a quello che chiamerei parossismo narcisistico. Narciso, il giovane innamorato della propria immagine, dunque di se stesso, che spinge la sua passione in un vortice mortale, richiama il tema dell’identità e dell’alterità: i migranti mettono a tema il nostro narcisismo, il nostro rifiuto dell’Altro, ci fanno ergere muri a difesa di comunità che respingono l’Altro o che tutt’al più riescono ad accettarlo solo quando ci è del tutto simile.
Ma nello stesso tempo il tema dei migranti ci pone un interrogativo: fino a che punto è possibile convivere con l’alterità? e quale è il limite dell’alterità? Questo ci rimanda a un errore speculare al primo, che affiora qua e là in altri commenti, quello cioè di annacquare l’analisi dei fatti per paura di fraintendimenti razzisti: sappiamo che la violenza di genere non ha confini nè geografici nè sociali, si manifesta a Colonia, a Singapore, a Chicago e a Canicattì, io stesso non esito a confessare mie intemperanze giovanili che oggi interpreto come vere e proprie molestie, magari non pesanti ma comunque censurabili, un branco di maschi è un branco di maschi a qualunque latitudine, come scrive Ida Dominijanni, il corpo delle donne è ovunque terreno di battaglia, tra uomini occidentali invidiosi della loro sottomissione e gli “altri” invidiosi della loro libertà, e tuttavia, in questi agghiaccianti episodi di Capodanno c’è appunto il segno della difficoltà di integrare culture diverse, in un processo che è sempre aperto, in contesti che propongono sempre nuove sfide e regole di adattamento. Colonia, Berlino, Monaco, sono (o erano? o sembravano?) luoghi di integrazione tutto sommato realizzata senza grossi traumi, luoghi relativamente sicuri per le donne, di giorno e di notte, almeno in situazioni normali, e dunque gli episodi di Capodanno sembrerebbero purtroppo ribaltare storici modelli di convivenza.
Questa regia ben organizzata, in definitiva, al di là della religione, pesca in un terreno di coltura che è spesso contrassegnato da arretratezza e a volte fanatismo, da culture che si fondano in larga parte sull’asservimento della donna, e dove i conflitti di genere, che pure esistono, appaiono ancora soffocati. Ovviamente è stupido e fuorviante abbandonarsi a generalizzazioni arbitrarie che non tengano conto delle contraddizioni presenti in quelle società (in Marocco e Tunisia e perfino in Iran affiorano tensioni e aperture che, per esempio, risultano molto meno evidenti in Arabia Saudita), e non è proprio il caso di proporre una visione caricaturale di quel mondo o di riesumare Oriana Fallaci, a volte delirante nel suo integralismo anti-Islam, nè tantomeno le pericolose sciocchezze di Salvini, ma è indubbio che il problema del rapporto fra le nostre diverse culture in un mondo globalizzato si pone con forza.
Qui in Italia c’è stato all’inizio un sostanziale silenzio da parte del mondo femminista, con qualche eccezione (e sottolineo: con qualche eccezione, per evitare inutili polemiche), come ha notato anche, tra le altre, Lorella Zanardo; un silenzio poi interrotto da interventi più o meno condivisibili, ultimo dei quali il testo intitolato Speculum, l’altro uomo. Otto punti sugli spettri di Colonia, testo denso e importante, sul quale però mi permetto di esprimere alcune perplessità.
Non farsi – giustamente – “arruolare in nessuno scontro di civiltà” non può secondo me portare a dire tout court che “le civiltà in questione” e cioè quella occidentale e quelle che gravitano nell’orbita musulmana “sono entrambe marcate dal patriarcato” allo stesso modo, attenuando il fatto che è nelle nostre società, nelle nostre città, nei luoghi di aggregazione, per strada, che vediamo quanto siano più profonde le incrinature del patriarcato, quanto è più profonda la sua crisi che spinge alcuni uomini a sferrare colpi di coda ancora pericolosi e a volte letali, ma che sono al contempo segnali di impotenza e disperazione. Di questa crisi le donne sono vittime, ma con le loro lotte e la loro determinazione hanno attivamente contribuito a provocarla, contro i cardini patriarcali della civiltà occidentale ma anche avvalendosi di contesti normativi che ne hanno in qualche modo smussato eccessive asperità.
E’ proprio in Occidente che sono più marcate le contraddizioni. E’ qui da noi che possiamo vedere ribaltate le parole che Sofocle mette in bocca a Edipo – a Edipo che vive nella doppiezza, lui figlio e sposo, padre e fratello, lui che salva la sua città ma porta con sé una colpa che diviene germe della sua rovina, lui cittadino e straniero insieme, di Tebe e di Corinto: “uno non potrà mai essere uguale a tanti”. E’ proprio l’Occidente a essere invece con più evidenza uno e tanti, a scindersi nelle sue tante doppiezze, l’Occidente che accoglie e respinge, che postula libertà per alcuni irraggiungibili, che si fa promotore di diritti che però a tanti e a tante vengono negati, che promuove smodate ricchezze e distribuisce miserie, che esibisce vetrine abbaglianti e periferie desolate, benessere e precarietà, speranza e disperazione.
C’è poi più di una punta di sarcasmo sugli stili di vita occidentali, sulla libertà di sedersi al tavolo di un bar: esposte agli sguardi maschili, alla loro improntitudine, certo, io stesso ne ho scritto qualche tempo fa su Leggendaria, ma esporsi a quegli sguardi presuppone comunque la possibilità di occupare spazi pubblici che altrove sono negati. Conta dunque così poco poter andare da sole al bar o al cinema senza la tutela di un marito, di un padre o di un fratello?
Si accenna ancora “all’ingiunzione a velare il corpo femminile” in parallelo “all’opposta ingiunzione a scoprirlo” nel mondo occidentale. Sono due obblighi speculari? E ci si può opporre a essi? E come? Ma in un caso si rischia sulla propria pelle, nell’altro c’è forse la disapprovazione della comunità dei pari, tipo guarda la sfigata che non sa vestirsi, che non è alla moda, magari la negazione di un selfie insieme o nei casi più gravi (tra i giovani) il cyberbullismo, e c’è chi si è perfino suicidato per questo, e però gli argini sociali – ancora – reggono e c’è una giustizia – ancora – deputata a sanzionare. Il capo se lo coprono anche gli ebrei osservanti (la kippah) e i sikh (il turbante), ma il velo delle donne musulmane obbedisce a un ordine simbolico differente: che nessuno si azzardi a toglierglielo se non lo decideranno loro stesse, e però come negare che ancora una volta è lo sguardo maschile a dettare le sue leggi, che sia uno sguardo da catturare o che sia uno sguardo da evitare o neutralizzare?
E faccio infine un’ulteriore riflessione, che nasce dall’intervento in una trasmissione televisiva de LA7 di una giovane consigliera comunale lombarda convertita all’Islam. Raccontava della “comodità” di un costume da bagno ribattezzato burkini che permetterebbe alle musulmane di nuotare senza scoprirsi il corpo, e in più auspicava l’apertura di spazi riservati alle sole donne nelle piscine pubbliche. Pare che a Reggio Emilia in una di queste strutture sia stato già fissato un giorno di apertura solo alle donne. E’ veramente questo il mondo che vogliamo? Un’apartheid di genere che comincia dalle piscine e poi magari si estende agli autobus, ai treni, alle scuole e oltre? Secondo me occorre – senza abbandonare l’interlocuzione con chi le esprime – prendere nettamente le distanze da queste posizioni in nome dei valori di laicità che personalmente, pur consapevole della loro storica parzialità, rivendico senza esitazioni, e che anche per merito delle donne sono fondamento della nostra cultura.