Quante volte genitori…
di Massimo M. Greco
Ho visto un film che parla di genitori: papà, mamme… Cosa hanno di speciale queste facce, questi corpi per “essere” mamme e papà… “Saranno pure qualcos’altro oltre al fatto di essere papà e mamme”, mi domando, distaccandomi dalla commozione che mi provocano le loro storie. Donne e uomini che parlano a partire dal fatto che sono genitori. Di figli gay e di figlie lesbiche. Ma soprattutto, per me, del fatto che sono genitori toccati da una profonda crisi esistenziale.
Stefano, Catia ed io, invitati da Fausto, che fa parte dell’Associazione Nuova Proposta, organizzatrice dell’evento, abbiamo assistito ieri sera in una sala gremita alla proiezione romana di “Due volte genitori”, film documentario di Claudio Cipelletti prodotto dall’AGEDO, Associazione genitori, parenti e amici di omosessuali. Spiega la sinossi del film: “Due volte genitori” è un viaggio in sei capitoli che parte da “quel giorno, quell’ora e quell’istante” in cui tutto è cambiato, il momento della rivelazione dell’omosessualità di un figlio o di una figlia. Un viaggio che traversa territori interiori impervi: all’inizio quelli della perdita, della colpa, poi quelli del bisogno di capire; i territori della conoscenza, dell’indignazione, del sesso, e quelli del confronto, della esposizione di sé, del cambiamento. Fino a quelli inattesi del “crescere da adulti” e del rinascere. Ma anche un viaggio nel nostro Paese, tra le mura domestiche delle famiglie italiane, dai figli e fratelli ai genitori, dai genitori ai nonni e poi di nuovo ai figli. Un viaggio in treno di una madre che si misura col pregiudizio, e un viaggio circolare dal family day a Roma, al gay pride nella stessa piazza dove tutto è cambiato”.
Articolandosi sui capitoli fondamentali del percorso che si compie per giungere di nuovo ad abbracciare il proprio figlio o figlia, mamme e papà raccontano del trauma del crollo dell’idea ingenua e tradizionale di normalità, del morire al loro sguardo non solo delle loro figlie e figli, ma di una parte di se stessi e se stesse. E del sentiero che li riporterà nella relazione, tra amore, trasformazione e apprendimento. Fino al passo che conclude il percorso di accettazione, lo conclude perché va sempre reiterato, di volta in volta davanti al ripresentarsi del pregiudizio e della riprovazione degli altri e delle altre, della volgarità e dell’ignoranza: il coming out di essere genitori di figli gay e lesbiche, in un’Italia che sembra scivolare all’indietro.
Le loro voci di padri e madri che si mettono a disposizione del loro senso di colpa, per aver tradito anche una sola volta, ma troppo radicalmente, quell’abbraccio prima incondizionato e poi guastato dallo schifo. Lo scoprire, anche con rabbia, dentro di sé, incorporata, l’ovvietà della prescrizione eterosessuale, che rimaneva nella sua parzialità fino allora invisibile e inaudita. La crisi esistenziale, identitaria, personale nel distruggersi per distruggere questo limite, per continuare a vedere il proprio figlio, per continuare ad ascoltare la propria figlia. Il cambiamento, l’affermazione coraggiosa delle cose come stanno, con il loro nome. Il faticoso riconquistare una saldezza interiore, il rifiuto di vedere il proprio orgoglio leso dagli insulti del mondo così come loro stessi, per primi, si scoprirono estranei e giudici nel percepire i propri figli come alieni e devianti. Tornare ad essere un punto di riferimento, un ruolo di responsabilità.
Gli occhi diventano spesso lucidi durante la visione del film, come spesso mi capita quando in una storia il personaggio ha come una radicale comprensione, un’agnizione, un’illuminazione su se stesso o se stessa che cambia alla radice il proprio schema mentale. Il film parla molto di questi eventi apicali. Partecipo della loro rabbia profonda, dignitosa, educata, organizzata, per essere stati traditi dalla società, che non gli aveva spiegato che si poteva nascere così o cosà. Mi nutro della loro determinazione che vuole creare spazi per l’auto-determinazione di figli e figlie.
Come gruppo di riflessione sulle identità maschili e di genere, si è attenti a cogliere un lato che rischia di rimanere occultato dalla emergenza di vissuti familiari forti, drammatici, emozionanti e anche divertenti. Il tema della trasmissione dell’identità di maschio di padre in figlio, esercizio genealogico di passaggio di ciò che è ovvio, indiscutibile e quindi sacro circa l’essere uomini, spezzato dall’inaspettata diversità e ricostruito su un altro piano. E il tema della propria identità di maschio, che sembrerebbe fondata su un senso interiore, ma che appare fragile come un riflesso, resa incerta dalla sconfessione dell’eterosessualità nel figlio. Sembra più nei padri difficile questo passaggio, questo ritrovarsi di fronte al delitto imperdonabile dell’omosessualità per poi scoprirsi bisognosi disperatamente di perdono. E il racconto di come sia stato totale lo sconvolgimento è per me una evidenza di come la questione sociale del genere sia profondamente alla base dell’essere nel mondo. E il lavoro comune su se stessi in gruppi di condivisione, che mostrano durante il film, diventa un ennesimo esempio di come un apprendimento collettivo volto ad uscire da un’oppressione sociale non si possa non trasformare in bisogno di fare politica. Per un certo modo di fare politica partendo da sé, guardo alla loro esperienza e mi domando per l’ennesima volta, e non retoricamente, qual è il motivo profondo che spinge le persone a fare politica. In questo caso, sembrerebbe una qualche forma di amore…
Alla fine del film e anche nella dibattito successivo, accettiamo senza discutere e copriamo di applausi grati e commossi l’esibizione di paternalismo e maternalismo anche politico. La loro oblatività, ugualmente ripartita tra i generi, non chiede ad alta voce per sé nelle pubbliche piazze dei Pride e fa gioco all’approccio rivendicativo. Terrorizzati gli uni, angosciate le altre dal disastro che è stato il dolore inascoltato di un figlio e di una figlia, dal pericolo corso di piangerne la perdita vera, cercano di avvertire i loro simili, gridano amore per tutti quelli resi dalla società orfani di genitori viventi. L’abisso che l’illusione di una tradizione bieca e triviale cela davanti ai passi di un padre, di una madre che ricevono la notizia, vogliono illuminarlo di politica, di cultura, di reti di relazioni.
Ci sarà pure qualcosa per sé in tutto questo impegno. Non lo so, perché non sono genitore. E siccome sono figlio sospettoso e sfiduciato, non mi so abbandonare alla cura e all’abbraccio, nemmeno di loro.
Quante volte si è genitori… Io non lo sono, e penso non lo sarò mai, per lo meno biologicamente e intenzionalmente. Questo tema del lavoro interminabile di essere padri e madri l’ho ascoltato spesso da chi vive l’essere genitore. Ho capito che lo sospende l’essere adulti e lo inverte solo il rovesciamento senile tra chi si prende cura e chi è bisognoso. Certo, turbato, mi devo ricordare il distacco necessario per capire veramente. Alimento la sospensione del giudizio anche nei confronti di queste persone giuste con la stessa rabbiosa, infantile, immatura domanda, io credo, che animava sotto sotto le risate di alcuni e alcune del pubblico in alcuni passaggi: come sarei stato io, come figlio, se questo sforzo, personale e poi pubblico, fosse stato fatto per me; come sarei stato se io, come figlio, mi fossi preso la responsabilità di chiedere esplicitamente questo sforzo.
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