Nov 1999 “Il silenzio e la parola. Piccolo viaggio
intorno ai Men’s studies tra Italia e Stati Uniti”
di Claudio Vedovati*
Pubblicato in L. Balbo e B. Mapelli (a cura di)
Le parole delle pari opportunità, Quaderno n°2 allegato alla rivista “Adultità” 10 (1999), pp. 79-92
“Si è affermata, con il femminismo, la storia delle donne e con essa l’importanza del genere nella storiografia. Ma perché gli storici uomini (italiani) non fanno storia degli uomini?”. La domanda se la poneva circa una decina di anni fa Arnaldo Testi – storico e americanista – sulle pagine del quotidiano il manifesto[1]. Pochi anni prima, nel 1987, Maurizio Vaudagna – un altro americanista – intitolava “Il silenzio degli uomini” un suo articolo sulla rivistaL’indice, sollevando la stessa questione[2] . Questo improvviso lampo di luce e d’attenzione, che si manifestava in un periodo di crescente visibilità pubblica della riflessione delle donne e in particolare del pensiero della differenza italiano[3], è stato seguito da qualche convegno e relativi numeri di riviste specializzate, ma non ha tuttavia modificato la rimozione storica della nostra storiografia, di sinistra e non, che dopo un atteggiamento tiepido ha rimesso da parte la riflessione sul genere[4]. Così, non è certo senza significato che a occuparsi della storia degli uomini siano state prima le storiche donne[5].
Il lampo si è spento e oggi in Italia – al di fuori di alcune eccezioni rilevanti – non ci sono tracce visibili di un lavoro storiografico sul genere maschile, qualcosa che possa essere avvicinato a ciò che nel mondo anglosassone ha preso la definizione di men’s studies.
Questa assenza di sapere intorno al maschile è cosa vistosa e le ragioni del vuoto sono tante e vanno prese sul serio. Non si tratta di una carenza o del mancato approfondimento in uno dei tanti campi in cui può essere articolato un sapere, ma di una condizione storica che permea di sé i fondamenti di quel sapere e di un silenzio che ha tante forme. Ad esempio, il modo con cui “prende la parola” lo stesso sapere storico e come gli uomini ne fanno uso.
È un vuoto e insieme un pieno: è il silenzio del maschile su di sé usato come strumento con cui esercitare il proprio potere sociale. È un silenzio fatto di parole. Parole che controllano l’immaginario, che producono e regolano il mondo, che si dicono a nome di tutti, che si presentano neutre, che negano la differenza di genere e permettono dunque al maschile di sottrarsi alle relazioni.
Rimozione dunque, assenza, ma anche potere. Che il discorso storico – come molti discorsi pubblici – sia stato fatto da uomini, parlando solo di uomini, e rivolto ancora a essi è una forma coerente del rapporto tra silenzio maschile e potere maschile. Si fa la storia del mondo senza dire che – come i women’s studies hanno dimostrato – la storiografia è stata e continua a essere essa stessa una forma della storia del maschile, com’è vero per molte altre discipline. Strumenti con cui il maschile ha modellato la propria presenza e concettualizzato il rapporto con il tempo, lo spazio, l’altro. Dietro, la storia dell’individuo moderno, paradigma assoluto e metastorico, universale, astratto, asessuato, da cui è derivata anche la nozione di cittadinanza e in cui il maschile finge di non esserci. Come finge di non aver determinato anch’esso, dentro le relazioni di genere, le forme assunte dalle istituzioni sociali (mercato, stato, politica).
In questo contesto i men’s studies non sono di per sé la parola magica con la quale cominciare a colmare un vuoto, che – abbiamo detto – è anche un pieno. Rimane sempre da chiarire chi parla, a partire da quali bisogni lo faccia, avendo preso parte a quali esperienze. Nel dare genere alla storia la prima cosa che deve venire meno è la finzione della distanza tra soggetto e oggetto. Fare storia è una esperienza della soggettività sessuata che sta dentro la storia. Men’s studies o no, è il formarsi di una soggettività maschile capace di decostruire se stessa che permette al fare storia di non essere ancora una volta strumento di rimozione. Altrimenti il rischio è quello denunciato da Barbara Ehrenreich, ovvero di dar vita a una “modernizzazione del patriarcato, non già di una sua denuncia”[6].
Quanto la questione sia complessa lo testimoniano le vicende dei men’s studies in quei paesi in cui si sono affermati da tempo come disciplina, conquistando spazi politici e universitari: Stati Uniti in testa e poi la Gran Bretagna, le nazioni anglosassoni dell’emisfero australe (Australia e Nuova Zelanda), ma anche l’Olanda, l’area scandinava, la Francia, più recentemente l’America latina e i Caraibi.
Dando uno sguardo a queste vicende – in particolare a quella statunitense – c’è una ragione che motiva più di altro la presenza di una storiografia del maschile, ed è di ordine sociale e politico. Alle spalle dei men’s studies c’è una stagione di mobilitazioni che si sono sviluppate tra le prime occupazioni dei campus universitari (1964) e la sconfitta americana nel Vietnam (1975). Mobilitazioni che hanno progressivamente fatto emergere una tradizione di femminismo radicale, la critica all’autoritarismo e alle forme della politica, e il tema delle relazioni interpersonali, dei vissuti, dei desideri, del rapporto pubblico-privato, delle forme di vita, del linguaggio. Dando loro rilevanza politica. Il maschile ha cominciato così a fare autoanalisi, a prendere posizione sulla propria storia, a mettere in discussione i ruoli sociali tradizionali, scoprendo la molteplicità delle identità di genere e contestando gli stereotipi sessuali.
L’emersione pubblica di una posizione critica degli uomini statunitensi data ai primi anni settanta, in coincidenza non casuale con la sconfitta nella guerra del Vietnam, metafora della crisi del maschile in cui il problema del reinserimento dei maschi reduci è solo la superficie. Uscivano in quegli anni i primi volumi che davano voce al tema della liberazione maschile, in una prospettiva fortemente influenzata dalla critica al tardo capitalismo fatta dal Marcuse di One Dimensional Man. Warren Farrell – che poi virerà verso posizioni antifemministe – pubblica Liberated Man, in cui propone una “masculine mystique” che mescola femminismo e marxismo, Jack Sawyer On Male Liberation, Marc Feigen Fasteau The Male Machine[7]. Quel che emerge è la consapevolezza del ruolo svolto dai modelli storici di genere prodotti dal maschile (bianco) nel creare una società alienata.
Queste prime e importanti prese di posizione di uomini radicals sul ruolo oppressivo del maschio americano, certamente liberatorie, sono tuttavia ancora molto approssimative nel confrontarsi con le forme storiche del maschile, e soprattutto fanno un uso spesso passivo delle analisi delle femministe. Ma da qui parte un lungo percorso che sfocia nei men’s studies e che, nel produrre un pensiero autonomo maschile, riserva sorprese. Nel momento in cui si comincia a superare la genericità e approssimazione delle prime posizioni, strategie e pensieri cominciano a divergere, si creano aree e correnti diverse, con esiti politicamente molto distanti, in alcuni casi contrapposti[8].
Uno di questi esiti – certamente tra i più controversi – è stato il mythopoetic men movement fondato nel corso degli anni ottanta da Robert Bly. Ispirato da una forte connotazione terapeutico-militante, vi si trovano insieme elementi della cultura pacifista e ambientalista, posizioni antirazziste e antimilitariste (riportate per lo più in un contesto apolitico), e un’idea molto tradizionalista dei ruoli maschili. Bly, servendosi in modo accattivante di un linguaggio metaforico e poetico, riconduce la crisi del maschile all’avvento della società industriale moderna e al conseguente distacco dal modello del wild man, un ipotetico uomo selvaggio interiormente libero. Propone quindi un ritorno allo “stato perduto” attraverso forme rituali e terapeutiche fortemente caricate di ideologia in cui la mascolinità viene rappresentata con modelli astorici e idealizzati, rimuovendo i legami con le strutture e le istituzioni sociali del mondo preindustriale[9]. L’ambiguità implicita di queste posizioni è stata la chiave del loro successo anche in altre aree del movimento maschile statunitense, come diversi gruppi sorti in ambito cristiano o l’area che si mobilità intorno ai diritti.
Quest’ultima – men’s rights e fathers’ rights, ovvero “diritti degli uomini” e “diritti dei padri” – è certamente la parte numericamente più rilevante della mobilitazione dei maschi anglosassoni. Sorta anch’essa nel corso degli anni ottanta, guarda caso in coincidenza con il taglio alle spese pubbliche dell’amministrazione repubblicana, quest’area della mobilitazione maschile teorizza in maniera abbastanza radicale la sua contrapposizione alle politiche di affermative action, esprimendo una posizione critica più generale nei confronti del femminismo e degli approcci di gender. A essi è contestato di presentare una immagine falsa del maschile, di cui sarebbero mitizzati poteri e privilegi, enfatizzati ingiustamente i comportamenti violenti. Le azioni positive vengono così presentate come compensazioni discriminatorie le cui vittime sarebbero gli uomini, in particolare quelli bianchi.
All’origine del men’s rights movement ci sono anche esperienze individuali che mostrano vissuti di sofferenza di fronte agli spazi che le donne si sono conquistate, leggendoli come contrapposti a quelli maschili, spazi tolti agli uomini e non certo come opportunità per ripensarsi. È questo – ad esempio – il caso di Richard Doyle (di recente ha promosso The Men’s Manifesto) che nel 1976, dopo una tormentata vicenda di divorzio, scrisse The Rape of the Male, pamphlet di denuncia delle discriminazioni riguardanti gli uomini, vero e proprio capostipite di un vittimismo aggressivo che ha fatto lunga strada[10]. Ricompare in questo ambito anche l’opera di Warren Farrell che nel frattempo, partito da posizioni vicine a quelle del femminismo, è approdato alla denuncia di un sistema sociale in cui le donne e non gli uomini sarebbero le maggiori beneficiarie di privilegi (ecco dunque il “mito del potere maschile”) e gli uomini sarebbero a loro volta vittime dell’immaginario che le donne hanno costruito di loro[11].
Sulla base di queste posizioni si muovono organizzazioni come la storica National Coalition of Free Men[12], il National Center for Men di New York, il Men’s Health Network di Washington, la californiana FREE (Fathers Rights and Equality Exchange), e una miriade di altre, tutte molto attive nell’attività di lobbing, nell’organizzare strutture di assistenza legale e psicologica (divorzi, accuse di violenza, affidamento dei figli, maltrattamenti nelle prigioni, ecc.), nello stimolare lavori scientifici “utili alla causa”[13]. Organizzazioni che sono certamente portatrici di una idea risentita del conflitto tra i sessi in cui pesano con molta evidenza i cedimenti della struttura patriarcale della società statunitense, dal Vietnam alla crisi delle forme di lavoro fordista[14]. Risentimento che può essere anche letto come impotenza. Non diversamente si può dire delle posizioni espresse da alcune strutture fondamentaliste e maschili cristiane, come PromiseKeepers, che rappresenta il versante più reazionario dei men’s movement statunitensi, frontalmente contrapposto al femminismo, ostile ai movimenti gay, vicino all’approccio mitopoietico nel definire in forma astorica e biologizzata l’identità maschile[15].
Solo una parte del vecchio men’s liberation movement, certamente minoritaria, si è posta il problema di ripensare l’identità maschile a partire da un disagio interno al genere. Quest’area, definita, più o meno propriamente, feminist men’s movement, è composta di gruppi militanti, fortemente politicizzati e di sinistra, attenti all’esperienza storica del femminismo, che spesso mantengono riferimenti teorici vicini al marxismo eterodosso. Partendo dal presupposto che il genere sia una costruzione sociale e contestando i ruoli sessuali tradizionali che il maschile si è riservato, questi uomini hanno trovato uno sbocco naturale della loro militanza in un confronto con la storia del genere. Ugualmente, hanno cercato di promuovere lo sviluppo di nuovi modelli di ricerca e di insegnamento, capaci di affiancare alla visione critica del maschile anche una approccio che si contrapponga a ogni forma di oppressione (di genere e di razza, di religione e di classe). È con questa prospettiva una struttura come l’American Men’s Studies Association (AMSA) promuove, ad esempio, il Journal of Men’s Studies, avamposto della storiografia di genere, in cui lavorano insieme uomini e donne, mentre associazioni come la National Organization for Men Against Sexism (NOMAS) di Pittsburgh o la Men Against Racism & Sexism (MARS) di Austin sviluppano con maggiore evidenza il versante militante e di base, con l’obiettivo di sostenere un male positive men[16] muovendosi in parallelo al lavoro di strutture antirazziste e gay affermative.
Dai pro-feminist (come vengono anche chiamati) sono venuti i contributi teorici e storici più interessanti, quelli che hanno preso sul serio l’obiettivo di decostruire storicamente il genere maschile. In questo ambito gli studiosi statunitensi hanno trovato linee di ricerca convergenti con quelle di altri studiosi anglofoni, come l’inglese Victor Seidler e l’australiano Robert Connell[17].
Il panorama dei lavori prodotti è vasto. Si va dalle sistematizzazioni teoriche e accademiche di Harry Brod e Joseph Pleck[18] alle ricerche sul campo di un antropologo come Gilbert Herdt che, lavorando sugli altopiani della Papua Nuova Guinea, ha mostrato l’artificialità del rapporto tra scelte sessuali e modeli di mascolinità[19], fino al lavoro teorico di David Gilmore, che tenta di sistematizzare il rapporto tra antropologia, genere e modelli di virilità[20]. Da approcci di tipo marxista sviluppatisi soprattutto in Gran Bretagna, come quello pionieristico di Andrew Tolson, che ha lavorato sul rapporto tra differenza di genere e differenza di classe, o di Jeff Haern[21], ai lavori di Michael Messner e Donald Sabo sui nessi tra sport e mascolinità e in particolare sul ruolo delle forme di socializzazione maschile nel promuovere una cultura della violenza[22]. Ci sono poi lavori più propriamente storiografici come quello del canadese Angus McLaren sulla costruzione di un modello di normalità maschile che emerge nei discorsi medici e giudiziari, nelle pubblicità e nelle lettere ai giornali popolari dell’Inghilterra vittoriana o di Eric Leed sull’identità maschile nella Grande Guerra[23]. E così via…
Un’area del tutto particolare ma importante della riflessione maschile americana è quella interna alla comunità afroamericana, che riflette sul rapporto tra razza e genere. La vicenda degli african-americans, in particolare dei maschi, è ovviamente segnata dal problema dell’identità, sospesa tra Afriche e Americhe reali e immaginarie, e condizionata dalle ossessioni dei bianchi sul corpo e sulla sessualità dei neri. A partire dall’ultimo dopoguerra, con il completamente della migrazione dei neri dalle aree agricole del sud alle città industriali del nord e dell’ovest, il maschio nero è stato progressivamente travolto da una pesante crisi sociale e d’identità, che è diventata una vera e propria crisi anche di leadership politica. Sono le donne, non gli uomini, a rappresentare nell’immaginario della comunità i modelli positivi: scrittrici, giornaliste, avvocate, femministe, attrici. Gli uomini neri falliscono come padri, finiscono in carcere, muoiono per droga, rivinano le proprie carriere (come O.J. Simpson o Mike Tyson), o divulgano cultura della violenza e misoginia (come nel caso del gangsta rap). In sostanza confermano gli stereotipi sulla razza[24]. Una delle risposte interne alla comunità l’ha fornita la marcia su Washington di “un milione di uomini”, e solo uomini, promossa nel 1995 dal leader islamico Louis Farrakhan, che aveva tra i suoi principali obiettivi quello di recuperare l’orgoglio del maschio nero, usando un modello islamizzato del maschile. Su un versante diverso – anzi opposto – lavorano invece studiosi come Houston Baker o Henry L. Gates, che sfiorando tematiche di genere rintracciano modelli e strategie nella tradizione folklorica nera[25].
Ciò che caratterizza tutte queste scritture storiche – e che qui ci interessa in modo particolare – è che esse non sono solo il risultato di un interesse accademico, ma hanno alle spalle esperienze personali di mobilitazione politica e riflessione, realizzate dentro gruppi di uomini. Certamente non bisogna dimenticare che la parziale sovrapposizione tra men’s studies e movimenti ha esteso l’uso del primo termine ben oltre i limiti di una dignitosa storiografia. Ma rimane rilevante il fatto che una parte consistente di questi studiosi non si nasconde dietro la maschera della disciplina, né si avvale della distanza possibile tra soggetto e oggetto di indagine, e parte invece da sé, da un bisogno forte di confrontarsi con la propria genealogia e di verificare i problemi epistemologici che sono posti dall’uso di tradizioni storiografiche che hanno rimosso, nel definire il proprio statuto, la differenza di genere.
Questo è proprio il punto da cui è necessario partire per tornare in Italia, dove è invece completamente mancata una sensibilità eterosessuale[26] sia sulla storia del genere maschile, ovvero sulla sua natura sociale e relazionale, sia sulle forme private e pubbliche che il maschile produce e dentro le quali si riproduce. È mancata una presa di posizione, una parola credibile. Ma anche una rete di relazioni maschili che potesse produrre questa stessa parola e il bisogno di mettere in discussione se stessi come uomini, le rappresentazioni di genere con cui agiamo, pensiamo, comunichiamo, elaboriamo. Di confrontarsi quindi con la storia che il genere ci ha consegnato attraverso modelli sociali e relazioni personali, genealogie dirette e indirette.
D’altra parte, se agli storici (italiani e non) non è chiesto di aggiungere ai tanti rivoli tematici della loro disciplina anche la storia del maschile o del genere come specialismo, ma di modificare le priorità del paradigma, discutere i fondamenti sessuati del loro sapere, accettare come un valore la parzialità del proprio approccio a partire dalla parzialità della stessa esperienza storica maschile, deriva da questo che essi sentano come uomini queste priorità dentro di sé e a tutto campo, e non come mero dovere professionale. Le donne questa priorità se la sono data.
È in questo deserto che vanno inserite quelle poche esperienze di riflessione sull’identità maschile. Poche e deboli, che certo “aumentano ma non si sommano, non interagiscono, è come se cadessero nel vuoto… risultato della mancanza di relazione, comunicazione, condivisione tra uomini, della mancanza di momenti e spazi di confronto e di crescita”[27]. Ma comunque esperienze che ci sono, che non si spengono e che timidamente, in alcuni casi, cominciano a mettersi in rete.
Non ci sono padri nobili e anzi la comunicazione tra le diverse generazioni di uomini è uno dei punti più deboli. I padri – certamente la sinistra storica perché in altri campi politici il problema proprio non si pone – sono davvero assenti. La tradizione lavorista del movimento operaio, come i modelli della mobilitazione politica che essa ha proposto, sono rimasti per molto tempo ancorati a una immagine tradizionale dei rapporti di genere e del maschile in particolare. Le esperienze di critica del maschilismo elaborate nel corso degli anni settanta, in particolare intorno al movimento del ‘77, non hanno invece avuto continuità e si sono esaurite: non è a esse che si può far riferimento[28]. Arnaldo Testi e Maurizio Vaudagna, evocati all’inizio, sono l’eccezione alla regola.
Ciò che oggi c’è è nato dentro l’esperienza, nello stare nelle cose della vita, pubblica e privata. L’emergere del pensiero della differenza ha comunque stimolato la riflessione di alcuni intellettuali della sinistra critica, come Mario Tronti che ne ha colto non solo uno strappo teorico forte (“che da solo scardina interi mondi di pensiero”) ma ha visto nel partire da sé una strategia politica di parte, radicale, non universalistica[29], o ha permesso la costituzione di gruppi di lavoro misti, come quello promosso dalla rivista Democrazia e diritto che si è occupato di diritto sessuato e a cui hanno partecipato giuristi come Giuseppe Cotturri, Luigi Ferrajoli, Giuseppe Bronzini[30]. E importante è anche il contributo dato da Alberto Leiss, giornalista, che sulle pagine de l’Unità ha promosso e garantito spazi di riflessione al maschile[31].
In un ambito più propriamente scientifico si colloca il lavoro dello storico Alfredo Capone e del sociologo Carmine Ventimiglia. Capone, riprendendo il lavoro sulla sessualità di Foucault, ha lavorato a definire i legami tra l’esperienza storica del maschile e il carattere incorporeo del pensiero e del soggetto filosofico della tradizione europea, identificando nel distacco dal corpo femminile materno una delle chiavi da cui partire per comprendere l’esperienza del corpo maschile[32]. Ventimiglia, che come sociologo della famiglia ha lavorato sulla paternità e sulle violenze maschili, ha più volte sottolineato i nessi tra questa violenza e la pretesa di “universalità indifferenziata” con cui la riflessione maschile riduce a sé il mondo, neutralizzando e delegittimando l’altro genere. Ciò riguarda anche la storia del pensiero scientifico e di quelle attività mediche (come la ginecologia) che, secondo Ventimiglia, devono la loro fortuna “all’espropriazione che inevitabilmente operarono a danno dei saperi pratici delle donne” e che legittimano anche la falsa convinzione che l’identità di genere abbia “esclusiva” origine dal dato biologico[33]. Infine, lo psicoterapeuta Claudio Risé, forse l’unico studioso italiano a fare riferimento alle posizioni “iniziatorie” di Robert Bly e del movimento mitopoietico[34].
Chi scrive appartiene a un’altra generazione, cresciuta a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, che ha sfiorato il movimento del ‘77 e sofferto la violenza del terrorismo, si è sentita a disagio con i modelli teorici della sinistra storica italiana, con le forme della politica che essa aveva fatto proprie, con la cultura dell’appartenenza. Tutto questo sicuramente non corrisponde a una esperienza generazionale comune. Ma alcuni di noi[35] si riconoscevano in questo disagio, come tanti altri, e in particolare leggevano la crisi dello stato, della rappresentanza e dei partiti di massa, del welfare state e dei riformismi nazionali, dello sviluppo come modello inesauribile, anche come possibile opportunità.
Ciò che sentivamo in crisi – nascoste dentro le spoglie della politica – erano le forme della soggettività moderna e dunque insieme a essa anche del pensiero e delle pratiche maschili. Cresciuti soprattutto dentro i movimenti pacifisti e ambientalisti, combattevamo il rischio che la politica operasse una annessione neutralizzata di queste “nuove tematiche” senza coglierne la critica complessiva al sistema delle relazioni sociali, al modo di produrre, consumare, pensare. “A leggere queste parzialità – scrivevamo riflettendo su quegli anni- è stata una politica che non ha smesso di presupporre se stessa come generale e neutra, come direzione dall’alto dei processi”[36].
L’incontro con le culture politiche delle donne avviene in questo contesto, ma alle spalle c’era anche un’attenzione forte al rapporto tra cultura e politica, in particolare a quei saperi che mettevano in discussione con la loro criticità le forme stesse della politica: l’esperienza di critica del sapere fatta negli anni sessanta dal maestro elementare Mario Lodi, la critica alla scienza della rivista Sapere e la medicina del lavoro di Giulio Maccacaro, l’ambientalismo di Laura Conti, la critica del diritto sviluppata nelle Università del sud, Elvio Facchinelli, Giovanni Jervis, Franco Basaglia… e tanto altro rimasto qualche volta ai margini. Il femminismo è stato uno stimolo importante. Di fronte a noi emergeva una cultura politica che poneva problemi relativi all’ordine – materiale e simbolico – della realtà, che criticava l’astratto universalismo e praticava una esperienza della parzialità, che scopriva il valore della differenza. Questa differenza noi l’abbiamo scoperta pian piano, dentro i cortei dell’8 marzo in cui andavamo per “solidarizzare” e dentro cui scoprivamo quanta tensione si creava tra noi, maschi, e le donne. Tensione che ci interrogava. Scoprimmo che con quella “solidarietà” recitavamo un copione con cui il maschile disconosce le donne e nasconde a sé stesso la propria parzialità. Andavamo così scoprendo anche quanto la dimensione storica e antropologica, i comportamenti del maschile ci riguardassero, tutti: la violenza sessuale cominciava ad apparire meno esorcizzabile attraverso il paradigma della devianza e lo stupro strumento di regolazione sociale; le pacche sulle spalle, le battutine, il cameratismo, lo stare “tra uomini” diventavano una gabbia di povertà, segnale di quanto i nostri corpi fossero segnati da un immaginario povero, impotente, imprigionato da una cultura della prestazione e dalla paura del piacere e della relazione; il rapporto con i nostri padri si mostrava schiacciato da ruoli sociali miseri, capaci di trasmettere regole ma non affetto, e incapaci di usare il proprio corpo per farlo[37]; la legge, la scienza, i saperi, si rivelavano come protesi non neutre del corpo maschile. Il femminismo e il pensiero della differenza non ci mettevano in crisi ma – al contrario – ci apparivano ora come delle opportunità di libertà anche per il maschile, tutte da indagare, e ci aprivano forme inedite di relazione con l’altro genere.
È così che è cominciato lo scavo in un universo ancora non esplorato, l’essere soggetti sessuati, e il confronto critico con i ruoli socialmente costruiti del maschile. Se all’inizio si scopriva – come scrissero Stefano Ciccone e Renato Sebastiani – “la paura di riconoscere negli altri la parte peggiore di sé, di scoprire che ciò che ci accomuna, anche partendo da esperienze diverse, possa essere una cultura di violenza e di oppressione”[38], emergeva poi la voglia di interrogare il desiderio, di “non farci più poveri di quello che si è”[39] e di ricostruire una genealogia maschile, trovando i punti di aderenza positiva, quelli che danno senso alla nostra appartenenza di genere. Ciò non ha prodotto men’s studies ma una pratica di relazione e il tentativo di portarla nell’agenda della politica. Tentativo a cui la politica – quella degli uomini – ha tenacemente fatto resistenza.
Percorsi non troppo diversi dal nostro, romano, sono progressivamente emersi in altre parti del paese. Esperienze importanti a cui, da esterno, posso solo accennare. A Bologna nasce alla fine del 1996 l’associazione “Uomini contro la violenza alle donne” promossa in risposta a una serie violenze sessuali. Dentro di essa è attivo Sandro Bellassai, giovane storico, che ha ben descritto la difficoltà di socializzare questo percorso con altri: “molti uomini, con i quali parli di certe cose, ti dicono prudentemente certo, si, bravo, ma dagli occhi capisci che stanno pensando: questo si è bevuto il cervello”. A Parma, intorno alla rivista Alfazeta e a Marco Deriu, si è formato un altro gruppo di uomini che ha prodotto un numero monografico della rivista, importante anche per aver cominciato a mettere in rete le varie esperienze sparse sul territorio[40]. A Pinerolo gli “Uomini in cammino” della comunità cristiana di base[41]….
È a partire da queste esperienze, da altre che possono nascere o sono già nate e non sono visibili – e se esse riescono a entrare in rete tra loro, uscire alla luce del sole e affrontare l’impasse pubblica del discorso maschile – che poi è possibile cominciare a socializzare pratiche e riflessioni intorno al desiderio e all’identità maschile. Quindi riscoprire l’intreccio di materialità e storia del nostro corpo e mettere in discussione la storia del genere. Sono questi i presupposti per i quali, volendo proprio parlare anche per il nostro paese di men’s studies, abbia un senso farlo. Perché di domanda di senso si tratta e non di accademia.
[1] Arnaldo Testi, “Una storia da veri uomini. Perché gli storici (maschi) non usano il genere per leggere il passato”, il manifesto, sabato 16 giugno 1990.
[2] “Il silenzio degli uomini. Conversazione con Daniel Bell”, curata da Maurizio Vaudagna e Maura Palazzi, L’indice dei libri del mese, n. 4, 1987. Cfr. nello stesso numero “Tocqueville e l’identità maschile” sempre di Vaudagna.
[3] Nel passaggio tra anni settanta e ottanta l’impegno delle donne, allontanate dalla “politica” dalla crisi che subiscono i movimenti legati alla nuova sinistra e poi ancora dalle vicende degli “anni di piombo”, si concentra in un lavoro carsico che produce cooperative, centri culturali e di documentazione, librerie, riviste, case editrici e gruppi di ricerca interni ed esterni alle università, in cui prende corpo il pensiero della differenza e una tradizione di “studi femministi” sull’esempio dei women’s studies anglosassoni. Intorno al 1986, in parte anche grazie alla penetrazione del nuovo femminismo nelle formazioni della sinistra storica e alle prese di posizione pubbliche effettuate sull’incidente nucleare di Cernobyl e sulla “coscienza del limite”, il pensiero della differenza rilancia la questione del sociale e della politica. Nel 1987 la Libreria delle donne di Milano pubblica Non credere di avere dei diritti (Torino, Rosemberg & Sellier, 1987), Adriana Cavarero e altre pubblicano Diotima. Il pensiero della differenza (Milano, La Tartaruga, 1987), comincia le pubblicazioni la rivista delle donne comuniste Reti, esce il volume La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia a cura di M.C. Marcuzzo e A. Rossi Doria (Torino, Rosemberg & Sellier, 1987).
[4] Proprio Maurizio Vaudagna ha curato il numero monografico sul maschile della Rivista di Storia Contemporanea, 1/1991, introducendolo con il saggio “Tendenze e caratteri della storiografia sul maschile”. L’anno successivo esce il numero 79 di Quaderni storici, dedicato al “Maschile e femminile” (n. 79, 1992).
[5] Cfr. “Uomini”, numero monografico di Memoria. Rivista di storia delle donne, n. 27, 1989.
[6] Barbara Ehrenreich, In the Hearts of Men: American Dream and the Fight from Commitment, Londra, Pluto Press, 1983, citato da Robert W. Connell in Masculinity, Sydney, Allen & Unwin, 1995 (Mascolinità, Milano, Feltrinelli, 1996).
[7] Warren Farrell, The Liberated Man, New York, Bantam Books, 1974; Jack Sawyer, On Male Liberation, Pittsburgh, KNOW, 1971; Marc Feigen Fasteau, The Male Machine, New York, Doll, 1975.
[8] Tra le molte ricostruzioni storiche dei movimenti maschili statunitensi vedi il lavoro complessivo di Michael S. Kimmel, in particolare il volume scritto insieme a Thomas E. Mosmiller Against the Tide: Pro-Femminist Men in the United States, Boston, Beacon Press, 1992, che copre un arco storico che va dalla Rivoluzione americana agli anni Novanta del nostro secolo. Kimmel ha anche curato uno dei primi libri che fa il quadro della ricerca sull’argomento: Changing Men, Newbury Park, Sage Publ., 1987. Cfr. anche American Manhood, New York, Basic Books, 1993, di Anthony Rotundo. Una bibliografia particolarmente estesa e aggiornata al 1999 è stata realizzata da Michael Flood ed è consultabile su internet all’indirizzo www.anu.ed.au/~112465/mensbiblio.html. Aggiornata al 1994 è invece la seconda edizione del lavoro di Eugene August, Men’s Studies: A Selected and Annotated Interdisciplinary Bibliography, Littleton, Colorado, Libraries Unlimited Inc., 1994.
[9] I lavori di Robert Bly sono stati tradotti anche in italiano. Tra di essi: Per diventare uomini, Milano, Mondadori, 1992.
[10] Il Manifesto è stato pubblicato nel 1992 e come il volume The Rape of the Male è edito dalla Poor Richard Press.
[11] Cfr. Warren Farrell, Why Men Are the Way They Are, New York, McGraw-Hill, 1983; e The Myth of Male Power: Why Men Are the Disposable Sex, New York, Simon & Schuster, 1993.
[12] È stata fondata a Columbia, nel Maryland, nel 1977. L’indirizzo del suo sito è www.ncfm.org.
[13] Più o meno in questo ambito si muovono le riflessioni più aperte di Herb Goldberg in The New Male, New York, The New American Library, 1979, seguito di The Hazard of Being Male: Serving the Myth of Masculine Privilege, del 1976; legato al lavoro di recupero psicologico sono le posizioni meno politicizzate di John Lee espresse in The Flying Boy: Healing the Wounded Man, Deergield Beach, Fl., Health Communications Inc. 1987 e in At My Father’s Wedding: Reclaiming Our True Masculinity, New York, Bantam Books 1991, in cui esplora la figura del “padre assente”. Di guarire dalle ferite inferte dai padri parla esplicitamente il lavoro di Samuel Osherson, psicologo non schierato, ma molto letto: vedi in particolare Finding Our Fathers: The Unfinished Business of Manhood, New York, The Free Press, 1986, e The Passion of Fatherhood, New York, Fawcett, 1995. Cfr. anche Frank Pittman, Fathers, Sons, and the Search for Masculinity, New York, Putman’s Son, 1994.
[14] Per avere una idea di quanto sia esteso questo ambito di posizioni si può consultare su internet il sito Mens Issues Page (www.vix.com/pub/men) che contiene informazioni storiche, materiale militante, elenchi di organizzazioni, bibliografie. Oppure il sito della NZMERA, la New Zealand Men For Equal Rights Association (www.geocities.com/capitolHill/6708/altmfaq.html), attraverso il quale si può accedere al resto della rete.
[15] Sui PromiseKeepers vedi il volume curato dal suo fondatore Bill McCartney, What Makes A Man?, Colorado Springs, NavPress, 1992
[16] L’espressione male positive men gioca sulla connessioni complesse che mettono in relazione corpi e ruoli di genere. Si può letteralmente tradurre con “uomini positivamente maschili”. Cfr. il lavoro teorico di John Stoltenberg, autore dei 13 provocanti saggi contenuti in Refusing to Be A Man: Essays on Sex and Justice, New York. Miridian, 1990, e di The End of Manhood: A Book for Men of Conscience, New York, Plume, 1993. Cfr. anche Michael S. Kimmel (a cura di), The Politics of Manhood, Philadelphia, Temple University Press 1995, in cui si confrontano le posizioni pro-feminist del movimento con quelle degli aderenti al filone mythopoetic.
[17] Victor Seidler e Robert Connell, entrambi sociologi e il primo inglese e l’altro australiano, sono i due autori che con maggior evidenza hanno dato vita nei loro paesi ad approcci che decostruiscono l’identità di genere maschile. Di Seidler è stato tradotto in Italia Rediscovering Masculinity: Reason, Language and Sexuality, Londra, Routledge, 1989 (Riscoprire la mascolinità, Roma, Editori Riuniti, 1992); successivamente ha pubblicato Recreating Sexual Politics: Men, Feminism, and Politics, Londra, Routledge, 1991, e Unreasonable Men: Masculinity and Social Theory, Londra, Routledge, 1994. Di Robert Connell è stato tradotto Masculinity, cit.
[18] Harry Brod, che insegna alla Southern California University, ha curato The Making of Masculinities: The New Men’s Studies, Boston, Allen & Unwin, 1987, raccolta di 14 saggi in cui è evidente l’intreccio tra men’s studies e culture femministe; e ancora, insieme a Michael Kaufman, il volume collettivo Theorizing Masculinities, Thousand Oaks, Ca., Sage Publications, 1994. Joseph H. Pleck ha criticato il cosiddetta Male Sex Role Identity in The Myth of Masculinity, Cambridge, Mass., The MIT Press, 1981. Cfr. anche Jeff Hearn e David Morgan (a cura di), Men, Masculinity and Social Theory, London, Unwin Hyman, 1990.
[19] Gilbert H. Herdt, Guardians of the Flutes: Idioms of Masculinity, New York, McGraw-Hill, 1981, e il volume collettivo curato da Heard Rituals of Manhood: Male Initiation in Papua New Guinea, Berkeley, University of California Press, 1982.
[20] David D. Gilmore, Manhhod in the Making: Cultural Concepts of Masculinity, New Haven, Yale University Press, 1990 (tradotto in Italia dalla Nuova Italia nel 1993 con il titolo La genesi del maschile. Modelli culturali della virilità). Il suo lavoro è stato recentemente criticato dal sociologo australiano Robert Connell secondo cui, confondendo genere e ruoli sessuali maschili, Gilmore presupporrebbe erroneamente che la virilità possa essere studiata con un metodo positivista, divenendo un oggetto di conoscenza “che resti costante trasversalmente in tutti i casi studiati”. Connell definisce il lavoro di Gilmore “un clamoroso fallimento del tentativo di produrre dati che non siano banalità sulla virilità e sulla difficoltà di raggiungerla”. Vedi R.W. Connell, Masculinity, cit.
[21] Andrew Tolson, The Limit of Masculinity, London Tavisock, 1977; Jeff Hearn, The Gender of Oppression: men, Masculinity and the Critique of Marxism, New York, St. Martin’s Press, 1987; Jeff Hearn, Men in the Public Eye: The Construction and Deconstruction of Public Men and Public Patriarchies, London, Harper Collins, 1991.
[22] Vedi il loro ultimo lavoro Sex, Violence & Power: Rethinking Masculinity, Freedom, Ca., Crossing Press, 1994. Cfr. anche A.M. Klein, Little Big Men: Bodybuilding Subculture and Gender Construction, Albany, State University of New York, 1991.
[23] Angus McLaren, The Trials of Masculinity: Police Sexual Boundaries 1870-1930, Chicago, The University of Chicago Press, 1997 (tradotto in Italia come Gentiluomini e canaglie. L’identità maschile tra ottocento e novecento, Roma, Carocci, 1999, e Eric J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, Il Mulino, 1988. Al di fuori di un approccio teorico legato ai men’s studies può essere anche citato il lavoro dello storico tedesco George Mosse, di cui sono stati tradotti Sessualità e nazionalismo, Roma-Bari. Laterza, 1996, e L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997, in cui si indagano i rapporti tra totalitarismo, nazionalismo tedesco e modelli di virilità.
[24] Questo immaginario ha radici lontane. Cfr. tra l’altro G.M. Fredrickson, The Black Image in the White Mind 1817-1914, New York, Harper & Row, 1972, e David R. Roediger, The Wages of Whiteness: Race and the Making of the American Working Class, Londra, Verso, 1991.
[25] Cfr. Robert Staples, Black Masculinity: The Black Male’s Role in American Society, San Francisco, Black Scholar Press, 1982, e Marcellus Blount e George Cunningham, Representing Black Men, 1995. Il regista Spike Lee ha posto in evidenza la crisi degli uomini neri in diversi suoi film (Crooklyn, 1994). Si legge bene di riflesso la crisi maschile nera in H.A. Baker, Workings the Spirit: The Poetics of Afro-American Women’s Writing, Chicago, University of Chicago Press, 1991.
[26] I movimenti gay sono stati i primi a prendere la parola senza rimuovere la propria identità e i primi ad aver ragionato sull’identità maschile. In Italia c’è il caso straordinario di Mario Mieli.
[27] Marco Deriu, “Derive del maschile. Gli uomini dopo il femminismo”, articolo che introduce il numero monografico di Alfazeta, n. 63-64, 1997.
[28] Cfr. L’ultimo uomo. Quattro confessioni-riflessioni sulla crisi del ruolo maschile, Roma, Il Pane e le Rose-Savelli, 1977, e L’antimaschio. Autocoscienza e liberazione del maschio, Bologna, Moizzi, 1977. Nel primo di questi volumi Marco Lombardo Radice auspicava: non faremo in tempo a essere gli uomini nuovi, speriamo di essere gli ultimi vecchi (devo la citazione a Sandro Bellassai).
[29] Tronti è intervenuto più volte in occasione di dibattiti sul genere e la differenza. Vedi tra l’altro i suoi interventi settimanali nella pagina L’Una e l’Altro del quotidiano l’Unità, a partire dal marzo 1997. Vedi anche La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, p. 77-78.
[30] Il gruppo di lavoro, coordinato da Maria Luisa Boccia, ha prodotto il numero monografico Diritto sessuato?, in Democrazia e diritto, n, 2, aprile-giugno, 1993, che contiene anche una sezione intitolata Il tallone d’Achille in cui Adriana Cavarero recensisce Victor Seidler e compaiono scritti di uomini sull’esperienza del maschile. Il lavoro di questo gruppo è continuato nel numero monografico La legge e il corpo, in Democrazia e diritto, n. 1, gennaio-marzo 1996, in cui tra l’altro Giuseppe Cotturri interviene sul numero della rivista Sottosopra del gennaio 1996 dedicato alla fine del patriarcato. In campo giuridico e attento alle questioni di genere è attivo anche il giudice milanese Amedeo Santosuosso.
[31] Leiss ha curato insieme a Letizia Paolozzi la pagina L’Una e l’Altro uscita per diversi mesi su l’Unità a partire dal marzo 1997 e dedicata ai rapporti tra generi. Ha ospitato tra l’altro rubriche fisse di Mario Tronti e Carmine Ventimiglia. Alberto Leiss e Letizia Paolozzi hanno inoltre recentemente pubblicato Un paese sottosopra.1973-1996: una voce del femminismo italiano, Milano, Pratiche Editrice, 1999. Nell’area della sinistra, va ricordato anche Michelangelo Notarianni, che fu attento al dibattito delle donne e colse la necessità di una riflessione maschile sul genere: cfr. “L’idea di virilità che la modernità porta in sé” in il manifesto, 23 luglio 1997.
[32] Cfr. “La corporeità maschile tra antropologia e storia”, pubblicato in La critica sociologica, n. 125, 1998.
[33] Cfr. “Interrogarsi come genere: perché la violenza maschile”, in Alfazeta, cit., ma già pubblicato in Rivista di Sessuologia, n. 2, aprile-giugno 1997. Carmine Ventimiglia insegna psicologia della famiglia nell’Università di Parma. Ha pubblicato La differenza negata. Ricerca sulla violenza sessuale in Italia, Milano, Angeli, 1987; Di padre in padre. Essere, sentirsi, diventare padre, Milano, Angeli, 1994; Nelle stanze segrete. Violenze alle donne tra silenzi e testimonianze, Milano, Angeli, 1996; Paternità controluce. Padri raccontati che si raccontano, Milano, Angeli, 1996. Vedi anche “Pensando alla violenza sessuale a partire dalla categoria della differenza”, in Rivista di Sessuologia, n. 3, 1989.
[34] Claudio Risé ha pubblicato Parsifal. L’iniziazione dell’uomo all’amore, Como, Edizioni Red, 1993; Il maschio selvatico. Ritrovare la forza e l’istinto rimosso dalle buone maniere, Como, Edizioni Red, 1993; Maschio amante felice. Ovvero della bellezza di essere uomini, Milano, Frassinelli, 1995. Vedi anche “La questione maschile? È già scoppiata” in l’Unità, 18 maggio 1996.
[35] Il noi si riferisce a Stefano Ciccone, Renato Sebastiani, e ad altri compagni di viaggio, come Michele Citoni e Andrea Baglioni. Un resoconto di questo percorso è contenuto in ““Turisti per caso”. Viaggio difficile intorno alla differenza maschile”, in Democrazia e diritto, n. 2, 1993, scritto da Renato Sebastiani e Claudio Vedovati.
[36] In Renato Sebastiani-Claudio Vedovati ““Turisti per caso””, cit.
[37] Un approccio il nostro diverso da quello di molte associazioni, sorte anche in Italia, che si occupano dei diritti dei padri e che sostituiscono l’intervento della legge alla capacità di stare dentro le relazioni.
[38] Da “Una proposta di riflessione al maschile sulla violenza sessuale”, in Giornalino dei Centri d’iniziativa della per la pace, Roma, numero speciale per l’8 marzo 1988.
[39] A questo ci esortava anche Maria Luisa Boccia, all’epoca direttrice di Reti, nell’intervista “Pensare la differenza al maschile” pubblicata in Amoridifficili, n. 0, giugno 1989.
[40] Cfr. “Derive del maschile. Gli uomini dopo il femminismo”, cit. Contiene – tra gli altri – articoli di Marco Deriu, Luisa Muraro, Lele Galbiati, Pietro Olla, Claudio Vedovati e Stefano Ciccone, Carmine Ventimiglia, Claudio Risé, Franco Grillini, Ida Dominijanni, Alberto Leiss, Lia Cigarini. Ovviamente, ci sono e ci sono state esperienze di autoriflessione del maschile che non sono qui rappresentate. Ricordo in particolare un gruppo formatosi nella Facoltà di Psicologia della Sapienza di Roma, composto da studenti, che purtroppo non ha lasciato tracce pubbliche di sé.
[41] Non sono poche le esperienze del cristianesimo di base che, accanto al lavoro sul pacifismo e la nonviolenza, hanno avviato riflessioni su questioni di genere.
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