Nov 1985 Se la notte lei ci incontra
di Stefano Ciccone e Renato Sebastiani
pubblicato per la prima volta in “Guernica”, n. 1, 1985*
E’ sera, camminando incontriamo una ragazza. Lei ci vede e affretta il passo finché non ci siamo sufficientemente allontanati. Due uomini di sera fanno paura. Siamo pericolosi. In questa situazione l’affermazione provocatoria secondo cui “gli uomini sono tutti stupratori” si fa reale e concreta e non c’è nulla che, agli occhi della sconosciuta, ci distingua da uno stupratore. Il primo impulso sarebbe la voglia di comunicare la nostra non aggressività, eppure molte donne hanno pagato subendo la violenza la loro fiducia nei confronti dell’amico, del parente, del collega, dell’apparente “bravo ragazzo”. Quanto siamo simili e quanto diversi dallo stupratore? Non è una domanda retorica: lo stupro certo non è il frutto di una devianza, l’atto di un “maniaco”; affonda le proprie radici in un universo maschile comune anche alla nostra cultura e alla nostra condizione.
Sono queste radici che vogliamo esplorare, radici che soffocano anche la ricchezza possibile della nostra vita di uomini. Questa riflessione cominciò nel 1985. Proponendo insieme ad altri per l’8 marzo un’assemblea di uomini sulla cultura dello stupro scrivemmo un volantino: “…non vogliamo dimostrare nulla. Non si tratta insomma dell’iniziativa di ‘maschi aperti e illuminati’, nè tanto meno lo scotto da pagare per rendere credibile la nostra ‘buona fede’. Neppure vogliamo assumere un atteggiamento vittimista, quasi rivendicare problemi nostri in contrapposizione a quelli delle donne…
Ma la nostra non vuole essere una semplice dimostrazione di solidarietà, l’appoggio ad una lotta non nostra, che anzi andrebbe contro i nostri diritti acquisiti, che andrebbe a scoprire i nostri scheletri nell’armadio. Se oggi diciamo la nostra non lo facciamo né per buona volontà né per un’adesione tutta ideologica; lo facciamo perché ne sentiamo profondamente il bisogno…”. Un mese fa, riproponendo questi temi all’interno del seminario nazionale dell’Associazione per la Pace, non abbiamo pensato di rivolgerci a uomini migliori che, per aver vissuto nel movimento per la pace il tentativo di sottoporre a critica una cultura dei rapporti tra gli stati e tra gli individui fatta di violenza e sopraffazione, dovrebbero vivere questa contraddizione come più stridente e dirompente.
Avviare una riflessione al maschile su questi temi vuol dire camminare su un campo minato in cui si mischiano ambiguità e ipocrisie. Ci siamo resi conto di quanto è forte la tendenza all’autoassoluzione, la ricerca di patenti di estraneità nei confronti dello stupratore, che dimostra quanto bruciante sia questa contiguità. Sentiamo dentro di noi la contraddizione di quella molla iniziale che ci ha portati a parlare, che é il senso di colpa. Ma queste ambiguità, che oggi vediamo più chiaramente di ieri, ci fanno meno paura, non annacquano, anzi arricchiscono la nostra ricerca. Ma la difficoltà maggiore è il silenzio degli uomini. Anche in questi giorni la nostra proposta ha incontrato la maggiori reazioni tra le donne piuttosto che tra gli uomini. Non solo, noi stessi, mentre sollecitiamo pubblicamente segnali maschili ci rendiamo conto di vivere con disagio la prospettiva di confrontarci con altri uomini che avranno letto questo intervento. La difficoltà è subito evidente nella diffidenza e nel timore che c’è in noi stessi e negli altri. Paradossalmente iniziare tra gli uomini rompe una sorta di virile complicità ma nello stesso tempo è per noi il primo passo per costruire una futura e diversa solidarietà. Ma parlare con chi? E in che modo?
C’è la paura di riconoscere negli altri la parte peggiore di sé, di scoprire che ciò che ci accomuna, anche partendo da esperienze diverse possa essere una cultura di violenza e di oppressione. Difficile inventare una strada collettiva di liberazione che parta da queste premesse. Ma vi è un silenzio più profondo, quello sulla propria sessualità, che divide gli uomini. Noi non parliamo di noi stessi, del nostro corpo con altri uomini, “non ci siamo abituati”. Con gli altri uomini si vantano le “conquiste” o si tacciono i fallimenti.
Anche con l’amico del cuore rimane l’incapacità a concedersi, a mettersi nelle mani dell’altro, a fare del proprio corpo un veicolo di comunicazione. Comunque non ci si scopre, non si possono mostrare le proprie debolezze in un rapporto tra “predatori”. Ci rendiamo conto che nello sforzo di generalizzazione degli spunti da cui siamo partiti rischiamo di dimenticare le novità che separano la nostra generazione da quella dei nostri padri e di non vedere i rapporti, anche profondi, che si sviluppano tra gli uomini. Ma quello che ci interessa è scoprire perché questi rapporti si reggano soprattutto sul sottinteso, sulle parole non dette e sui gesti incompiuti.
Non è solo la competitività a frustrare le loro potenzialità e le loro ricchezze possibili. C’è qualcos’altro; è quello che trasforma le carezze e gli abbracci in pacche sulle spalle, la solidarietà in cameratismo. Noi uomini parliamo assai di più con le donne. Alla compagna, all’amica o magari alla prostituta parliamo con più facilità di noi stessi, del nostro corpo, dei nostri sentimenti. Come se le donne avessero i linguaggi giusti, capissero, sentissero, si esprimessero più e meglio degli uomini; questo ci rassicura, ci fa parlare. I nostri gesti goffi, le nostre parole asettiche mostrano tutta la nostra inadeguatezza. E’ una difficoltà che si è scontata anche negli incontri che hanno preceduto questo intervento nei quali la resistenza a parlare di sé era grande come la tentazione di “buttarla in politica”, nei quali ci siamo trovati a invidiare e spesso a rubare le parole inventate dalle donne.
Per millenni gli uomini hanno avuto il primato, il monopolio della parole, ma di una parola pubblica, politica, incapace di esprimere i propri desideri, sentimenti, paure. Le donne sono sempre state depositarie della parola privata, quella della vita sentimentale di tutti i giorni; come se gli uomini, attenti a negare con ferocia ogni spazio sociale alle donne, fossero stati incapaci di impadronirsi anche di questa sfera della vita. Esiste una comunicazione interna tra le donne, forme di solidarietà e di intimità dalle quali l’uomo è storicamente escluso, a partire dal rapporto tra madre e figlia fino alle amiche, alle compagne di lavoro. Un linguaggio che non prescinde dal proprio corpo ma che anzi attinge dalla propria comune identità di sesso. Un universo sociale e umano di cui l’uomo constata la forza senza riuscire a comprenderne il senso profondo.
Poco importa ora quanto ciò sia stato mitizzato e quanto sia reale: noi abbiamo sempre provato una grandissima invidia per quel parlare fitto fitto delle ragazze tra loro, per la loro capacità di baciarsi senza vergogna o il loro misterioso parlare di “cose di donne”, un invidia che, da padroni, abbiamo mutato pubblicamente in scherno, svalutazione. Così le donne diventano pettegole, “esagerate”, intriganti, il piangere o i “sentimentalismi” “roba da femminucce”.
Un’invidia, un senso di esclusione che è anche nei confronti del corpo e della sessualità femminile. Probabilmente nella mitizzazione che ne facciamo dimentichiamo il dolore del parto o delle mestruazioni, la fatica della gravidanza e dell’allattamento ma queste esperienze a noi precluse ci dicono che esiste un corpo vivo che ogni mese ti ricorda di esserlo, capace di creare vita, di dare piacere e nutrimento ed un altro più povero, accessorio, una faccia mal rasata che fa piangere i figli al contatto ruvido. Ma non siamo gelosi soltanto nei confronti del rapporto tra madre e figli, siamo anche invidiosi del corpo desiderabile delle ragazze, del mistero del loro corpo che non riusciamo a capire neanche quando facciamo l’amore. La sessualità maschile è ridotta a povera cosa costretta tra i binomi potenza-impotenza, possesso-conquista. Non è un caso che questi termini riportino ad espressioni “esterne” della sessualità. Il sesso maschile è soprattutto uno strumento, una macchina che misura paradossalmente la sua esistenza solo fuori di sé. Un uomo è un uomo per le conquiste che fa, per le donne che possiede; senza queste verifiche esterne la sua sessualità (che si esaurisce nella virilità) è dubbia, priva di senso. Così mentre nessuno si sognerebbe di dire che una donna vergine si apriva di sessualità, ma anzi per molti, per questa condizione di “purezza”, più desiderabile; l’uomo che non abbia mai fornito prova delle sue “capacità” non è considerato uomo a tutti gli effetti.
Un uomo accerta e soprattutto dimostra la propria virilità sessuale non a partire dai propri desideri, ma dalla propria resistenza, dalla propria potenza; il rapporto sessuale diventa una prestazione fisica, una prova atletica. La scissione tra il proprio sesso e la propria persona intesa come complesso di sensazioni, sentimenti, tra il proprio piacere e quello della donna si vive facendo l’amore. Ne è un segno… la domanda che spesso segue un rapporto sessuale: “ti è piaciuto?” che è poi, fondamentalmente, una richiesta di ruolo (“ci sono riuscito, sono stato bravo?).
L’uomo ritarda il suo piacere per “ottenere” quello della donna. Naturalmente ciò non è sempre possibile e così nascono i vari problemi psicologici legati alle brusche interruzioni dell’atto sessuale neo “coito interrotto” (che tra i giovani è tra i metodi anticoncezionali più diffusi), o all’eiaculazione precoce e la paura di molti uomini per la propria virilità. Frequente è la scena in cui l’uomo “dopo” si giustifica con la donna per l’eccessiva velocità. Non abbiamo dimenticato gli uomini che non si preoccupano affatto del piacere della propria compagna o della propria moglie. Ma in questo caso la contiguità con il comportamento dello stupratore è subito evidente e ci dà più facilmente la possibilità di tirarci fuori considerandoli residui del passato, mentre esiste al fondo la comune percezione delle diverse sessualità come contrapposte e inconciliabili. Questa frattura tra sessualità maschile e sentimenti non deriva soltanto da questo ma soprattutto dalla scissione tra amore e “bassi istinti”.
“Basso”, sporco, osceno è come viviamo il nostro corpo. Lo stesso che ha fatto paura alla sconosciuta. Ridicoli e sgradevoli, oppure minacciosi i nostri genitali, ridicole le nostre gambe pelose. Noi crediamo che qui, nella percezione negativa del proprio corpo, sia il nodo profondo il filo sotterraneo più robusto che lega lo stupro alla cultura e all’esperienza diffusa degli uomini.Il rapporto sessuale è spesso violazione del corpo della donna da parte dell’uomo. Nella realtà e nelle fantasie degli uomini le donne devono superare una naturale ripugnanza e paura o in nome di un legame d’amore o perché pagate o coercite con l’autorità o la forza. Probabilmente non sono più i tempi della mitica “prova d’amore” ma questo meccanismo si riproduce anche oggi sotto forme nuove.
In un’intervista a Noi donne una dottoressa di un consultorio afferma: “perché le teen-agers fanno l’amore così presto? Cosa cercano? Non sarà per caso voglia di tenerezza? Quando non è la curiosità è la richiesta del partner. Pochissime sanno che cosa è il piacere, l’orgasmo. Ma neanche se ne preoccupano troppo. Lo fanno spesso perché è l’unico modo per avere coccole e tenerezze altrimenti negate”.Ma ci sono altre prove d’amore, altri limiti da superare, altri gradi di violazione del corpo femminile da parte dell’uomo. Ci sembra in questo senso significativo che i risultati di una ricerca sui comportamenti sessuali degli italiani rivelino la fellatio come la fantasia erotica prevalente degli uomini (La Repubblica 8/12/1987). Così ci pare che l’uomo “che ama la moglie ma va a puttane” o quello che impone il rapporto alla propria compagna o il ragazzo che si sente in colpa per il fatto di desiderare troppo la propria amica siano tutte facce (magari lontane mille miglia) della stessa medaglia. Forse violazione e violenza non hanno in comune solo radici etimologiche.
Ma questo è soltanto l’ultimo “corto circuito” tra noi e lo stupro di cui abbiamo voluto parlare. Si tratta di una riflessione che è solo all’inizio capace non di produrre risposte ma, anzi, nuove domande. Il rischio di oscillare tra l’autoflagellazione, il vittimismo o la tendenza a giustificare è forte e ci pare sia presente anche in quest’intervento. Ma crediamo ci sia la possibilità di farne un’occasione di crescita e di liberazione, se diventerà ricerca collettiva, se sarà capace di creare forme di comunicazione tra uomini.
* Questo contributo è stato riproposto successivamente con il titolo di Una proposta di riflessione “al maschile” sulla violenza sessuale, in “Giornalino dei Centri d’iniziativa della per la pace”, Roma, numero speciale per l’8 marzo 1988, e poi su “Noi donne”, n. 4, 1988. Ripubblicato in “Amori difficili” (rivista autoprodotta da alcuni studenti dell’università “La sapienza” e “Tor Vergata” di Roma), n. 0, giugno, 1989 (nelle uscite successive sarebbe diventato un luogo di riflessione di una parte del movimento della Pantera)
Commenti recenti