Illustrazione da “Piccole storie di una famiglia” di Francesca Pardi illustrazioni di BUM ill&art
Mar 2013 “Varizioni politico-filosofiche sul tema famiglia”
di Gian Andrea Franchi
Io ho attraversato interamente quella mutazione antropologica di cui parlava, con disperata energia, in prosa, versi e immagini, Pasolini. Il mio trascorso d’insegnante di Liceo, inoltre, mi ha offerto la possibilità di stare in contatto con giovani ‘figli di famiglia’, in una storica occasione, ribelli. Una ribellione che Pasolini non volle comprendere, di cui fu tuttavia a modo suo parte, e che, malgrado i suoi limiti, ha segnato un passaggio di non ritorno (come accennerò in seguito).
Questa mutazione conosce oggi altri livelli, più complessi e sfuggenti. Un percorso personale sottende dunque e dà il tono alle riflessioni che seguono.
La famiglia è stata fino ai nostri giorni il dispositivo elementare di potere in cui si esercitava, almeno in tutte le civiltà influenti, la forma primaria di dominio, il dominio dell’uomo sul corpo generativo della donna, soggetto, in secondo luogo, al godimento sessuale del maschio. L’umano di sesso maschile si poneva come modello dell’essere umano in generale. La donna e, a seguire, una vasta gamma di esseri umani, come il bambino, lo straniero, il povero, lo schiavo, l’operaio, eccetera, sono minus habentes rispetto alla pienezza dell’umano rappresentata dal maschio adulto pater, cioè dotato di potere sul suo entourage riproduttivo. In ogni civiltà, ovviamente, il controllo sulla riproduzione è l’elemento fondamentale.
La famiglia è arrivata fino ad oggi, cambiando molte volte, certo, ma nel modo che Hegel chiamava Aufhebung, che vuol dire togliere e conservare insieme. L’Aufhebung è una caratteristica della civiltà dominante che distrugge ogni tradizione, ma nello stesso tempo la riproduce, nella misura in cui ne ha bisogno per le sue esigenze di controllo e profitto: “Eppure quella cosa innaturale chiamata famiglia passa incessantemente da una generazione all’altra. Con ostacoli, difficoltà, rotture. Ma dopo migliaia di anni esiste ovunque, nell’Iran degli ayatollah e nel Greenwich Village postmoderno, tra gli Zulu africani e tra gli esquimesi del Polo Nord. È tutta la vita che inseguo questo mistero” – così lo scrittore Amos Oz, che ha fatto della famiglia il centro oscuro della sua opera (1).
Nella famiglia si genera quella forma fondamentale di relazione chiamata potere: nella sua misura originaria, è il potere del maschio sulla femmina e sui figli. E si generano anche gli affetti fondamentali, senza di cui non si può vivere. E’ forse questo il mistero di Oz.
L’etimologia è un buon indizio: famiglia deriva dal latino familia che viene da famulus, servitore, termine preindoeuropeo. In latino, infatti, il primo significato di familia è quello di contesto di relazioni subalterne al comando del pater.
Gli affetti devono stare dentro le disposizioni di potere ed e-seguirle. Questo è un punto importante. L’affetto del padre per i figli, del marito per la moglie, nascono e prendono corpo dentro un dispositivo di potere che li modella lungo il discrimine sessuale del corpo, per cui l’affetto dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo sono diversi. L’affetto maschile è inscindibile dalla paternità e dal possesso; quello della donna, nella misura in cui deve rapportarsi al primo, è inscindibile dalla maternità e dalla seduzione.
Nella famiglia, il centro del percorso formativo, dalla nascita in poi, è volto a produrre un tipo d’esperienza per cui il soggetto in formazione non deve essere un corpo ma soltanto avere un corpo. E’ volto a separare, cioè, l’io e il corpo, tratto caratteristico della cultura maschile, come mostrano benissimo i due rami principali della cultura maschile, oggi separati ma un tempo uniti: la scienza e la filosofia.
Nel lungo percorso storico fino a noi, è anche sotteso un filo rosso di liberazione degli affetti – la chiamo trasformazione degli affetti in emozioni che implicano pensiero -, anche attraverso la letteratura e l’arte, in momenti e modi che qui non è possibile trattare.
Mi soffermerò, invece, sui tempi nostri. Gli anni intorno al ’68 sono stati un momento importante, in tutto il mondo occidentale e non solo, di liberazione politica delle emozioni. E’ venuta alla coscienza collettiva, almeno in parte, la crisi della famiglia patriarcale (lato sensu). C’è stata una ribellione politica dei figli contro i padri e, più importante e duratura, delle donne contro la forma primigenia di dominio.
Bisogna ricordare che la famiglia patriarcale è stata l’incunabolo e il modello di ogni forma di potere, in primis del potere statuale, dapprima legittimato da un padre divino; ma anche di quello, diverso, dell’imprenditore capitalista – del padrone – e di ogni altro.
Ricordo anche che nella crisi della famiglia patriarcale, dentro la crisi del più patriarcale degli stati, quello asburgico, è nato l’importante filone culturale psicoanalitico.
La prima guerra mondiale si può considerare anche sotto il profilo di grande crisi della forma più rigida di patriarcato (i tre imperi: Austria, Germania, Russia). Per reazione, nei fascismi del dopoguerra si genera una forma esasperata di potere patriarcale che, nel nazismo, cerca base irrefutabile nel sangue.
Il tentativo sovietico, nato come liberatorio, finisce col cedere anch’esso, nell’epoca staliniana, a una nuova articolazione patriarcale.
Il ’68 è stato un momento breve ma intenso. La politica va a toccare le radici profonde della pòlis, in cui le varie forme di dominio, in particolare quello di classe così vivamente contestato in quegli anni, rimandano appunto alla più sotterranea matrice patriarcale, come peraltro anche uno dei fondatori del marxismo, Friedrich Engels, sapeva.
Non è un caso che il pensiero femminista, sviluppatosi allora, soprattutto quello europeo, abbia largamente utilizzato e utilizzi ancora strumenti tratti dalla psicoanalisi, nata come pensiero stupito dal corpo femminile. Un corpo che la psicoanalisi incontra come sessuato, emotivo, immaginativo, pensante e parlante. Un corpo quindi che è soggetto, che si dà come soggettivazione corporea. Non un soggetto che ha un corpo. Alla psicoanalisi, tuttavia, sfugge tra le mani il corpo-soggetto femminile come enigma, come eccesso che non riesce a com-prendere.
Una parte del pensiero femminista ha lavorato proprio su questa contraddizione fra ciò che la psicanalisi mostra e che non riesce a pensare. Non riesce proprio perché ancora legata a un pensiero maschile che, per poter parlare del corpo, tende a oggettivarlo, a parlare del corpo che abbiamo e non di quello che siamo.
Lo sviluppo del pensiero femminista, erede autentico delle esigenze libertarie del ’68, rappresenta il lato creativo e positivo della crisi della famiglia e dei valori patriarcali, indotta peraltro anche e soprattutto dalla stessa dinamica della cultura capitalistica, indifferente a tutto ciò che non sia riducibile a merce e denaro, capace quindi di sovvertire le tradizioni o di ripeterle, a seconda delle convenienze della fase storica.
L’evidente crisi attuale della famiglia è espressione della crisi della matrice patriarcale della relazione di potere, legata alle dinamiche dell’orizzonte simbolico chiuso di un’economia che sembra animata da una pulsione di morte. Ed è anche e di più crisi del genere maschile che nella figura del pater si è totalmente identificato nei secoli dei secoli.
Pater significa identità come potere: sono in quanto domino sull’altrui e sul mio corpo. Appunto: ho un corpo che domino, ho dei corpi da dominare. Si dice nel linguaggio maschile corrente: voglio avere quella donna. Avere equivale a possedere. Ecco il corpo-macchina di Cartesio. Cogito ergo sum. Il cogito vuol dire oggettivazione dei corpi, del mondo, della vita in modo chiaro e distinto. Dominio sulla riproduzione della vita, affidata alla donna subalterna, rinchiusa nella famiglia, nel privato (2) (anche quando ne esce, perché allora, donna che lavora, donna in carriera, è come un uomo).
La famiglia è stata ed è ancora in qualche misura il recinto in cui si sviluppano gli affetti e le emozioni. Come ho detto, distinguo affetti, subiti e subalterni, da emozioni, in cui si può affermare una creatività-libertà del singolo. Tra gli affetti e le emozioni scaturisce quel comportamento fondamentale che chiamiamo cura. E’ una forma d’amore che direi globale, in quanto si rivolge non solo al singolo ma a tutto quell’insieme senza di cui non può esistere. Cura della vita. E’ avvolgente nel senso letterale del termine, come avvolgente è il grembo in cui prende vita e forma il nuovo essere umano. Senza l’amore di cura, che dice al nuovo essere “tu sei”, egli non può raggiungere quel minimo di sicurezza ontologica che gli permette un livello minimo di esistenza. Ronald Laing porta l’esempio di un uomo che si era messo a fare l’allevatore di cani perché erano gli esseri viventi nei cui confronti non si sentiva inferiore.
La cura è stata dunque rinchiusa nella famiglia, attributo oblativo della donna che si cura dei figli e della domus. Fuori dalla famiglia prevalevano rapporti di potere. Il potere, infatti, è stato il fondatore ed è il principale connettivo dell’insieme sociale. Questo carattere (de)privato della cura si coglie anche nei confronti di ciò che chiamiamo natura, che l’orizzonte simbolico dell’economia ha ridotto a mero deposito di materie prime e fonte di merci alimentari, con alterazioni che hanno raggiunto il genoma, in un processo che si configura come un vero e proprio inizio di suicidio e di uccisione della vita. La crisi è, nel suo fondamento, crisi del predominio della forma maschile dell’umano, di una parte cioè erettasi a tutto. Scriveva Carla Lonzi nel lontano 1970: “Lo spirito maschile è entrato definitivamente in crisi quando ha scatenato un meccanismo che ha toccato il limite di sicurezza della sopravvivenza umana” (3).
La crisi della famiglia apre anche alla formazione di nuovi aggregati di tipo familiare, ad esempio, omosessuali. Cominciano a mostrarsi forme di genitorialità non tradizionale, anche non biologica, in cui prevale la libera scelta. Ciò porta anche degli uomini – pochi o molti non so – a porsi in un rapporto diverso, intimo, tenero, accogliente, di cura appunto, nei confronti dei figli. Tutto questo mostra la necessità di un’estensione della cura al di fuori degli ambiti privati o comunque ristretti, per essere arricchita ed estesa a forma generale delle relazioni fra gli esseri umani e fra gli umani e gli altri viventi e la matrice della vita – la ‘natura’ (4) -, che la nostra cultura considera non vivente ma da cui, misteriosamente, si origina la vita.
Si notano insomma, nell’orizzonte cupissimo della crisi di una civiltà mondiale che procede per automatismi ciechi e violenti, aperture verso orizzonti diversi, anche se embrionali. Crisi significa anche opportunità (5).
1) Intervista a “La Repubblica” 19/02/013. In Italia fino al 1975 vigeva un diritto di famiglia che sanciva l’inferiorità della donna e riconosceva solo all’uomo la patria potestas e, fino al 1981, l’aberrante delitto d’onore.
2) Ancora il carattere indiziario dell’etimologia. Privato da privare. In greco ìdios da cui significativamente ‘idiota’, privo d’intelligenza.
3) Cfr. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Ed. di Rivolta femminile, 1970.
4) Ancora etimologia: natura da nascere.
5) Ultima etimologia: krisis attività del distinguere, separare, scegliere.
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