Mar 2010 L’eclissi dei padri
Intervista a Luigi Zoja a cura di Daniele Balicco
pubblicata in forma ridotta nel blog
desian66.blogspot per cortese autorizzazione dell’autore.
La versione integrale di questa conversazione è stata
pubblicata nel numero 61 della rivista «Allegoria»
Per iniziare questa nostra conversazione sulle forme ambivalenti dell’identità maschile, le chiederei di descrivere anzitutto la qualità peculiare che la differenzia dalla sua identità opposta, quella femminile.
Premetto che la tesi che sosterrò deriva da letture di grandi scienziate, su tutte l’antropologa americana Margaret Mead e poi Helen Fischer. In poche parole la tesi è questa: per cercare di ricostruire a tutti i livelli zoologici dell’evoluzione cosa possa essere definito ereditato, istintivo, zoologico, vale a dire appartenente a noi in quanto corporeità animale, e cosa invece elaborato dalla cultura, si vede facilmente che esiste una continuità del naturale nel femminile. Anche solo per la simbiosi tra la madre e il piccolo. Per questa ragione si può sostenere abbastanza facilmente che l’elemento materno è istintuale prima che culturale. Ed è un elemento molto profondo soprattutto a partire dai mammiferi che compaiono sulla Terra circa 250 milioni di anni fa. Questa generalizzazione non vale, per esempio, se osserviamo i volatili, dove è molto frequente un nucleo monogamo familiare che per molti aspetti anticipa il nostro. Ma tornando a noi, nel corso dell’evoluzione è possibile riscontrare che i mammiferi specializzano il rapporto madre/figlio e non invece il rapporto paterno. Qui possiamo iniziare ad introdurre l’ambivalenza fondamentale dell’identità maschile: quella di padre e quella di maschio fecondatore. La natura ha predisposto nel maschio solo la capacità di fecondare la femmina, non veramente quella di accudire e proteggere la prole. I mammiferi generalmente conoscono il maschio genitore, ma non il padre, parola che va usata intendendo l’elemento culturale, perché deriva da una radice indoeuropea /pa/ che indica nutrizione, quindi prendersi cura in modo continuativo, che nei mammiferi è un attributo solo delle madri. Anche avvicinandoci alla specie umana, nei mammiferi più sviluppati, continua questa funzione del maschio genitore senza un rapporto diretto con la sua prole. Poi c’è un salto. Perché se uno inizia a studiare le società umane più semplici, tanto quelle antiche quanto i cosiddetti fossili antropologici, troviamo subito la comparsa del ruolo paterno, vale a dire del maschio che riconosce la propria discendenza e la protegge. Questa è l’invenzione del padre, dunque non un semplice genitore biologico, quanto una figura impegnata nella protezione e nella crescita dei piccoli. Per questa ragione, come sostengo nel Il gesto di Ettore, sono convinto che la paternità è fondamentalmente un’adozione. Sono necessarie intenzione e consapevolezza. Il diritto romano le codifica in un rituale: il padre deve innalzare il figlio verso l’alto e così lo adotta. Quello che è dunque sorprendente, se uno segue l’evoluzione dei mammiferi, è che è proprio questo il salto che differenzia la specie umana, l’invenzione di un nucleo monogamico stabile che assegna al maschio una funzione paterna.
Quali sono le figure mitiche che meglio rappresentano, secondo lei, i pericoli e i poteri del maschile non paterno?
Anzitutto il ciclo di Troia. In Omero quello che viene rappresentato è proprio il conflitto fra la storia di questo recente incivilimento e la possibilità di un suo fallimento. Da una parte, infatti, abbiamo la rappresentazione della guerra fra maschi per il possesso di un’unica donna. La prima grande guerra “mondiale” dell’Occidente si svolge tutta per il possesso di Elena. Si interrompe la vita quotidiana di un intero popolo, tutto è sospeso, per una guerra assurda e lunghissima. Per questa ragione, il duello centrale, quello fra Achille ed Ettore, è emblematico: Ettore, infatti, a differenza degli altri guerrieri viene rappresentato anche come padre e come marito. E’ già una figura complessa, mentre Achille, e tutti gli altri Greci, sono solo guerrieri maschi. Se si fa attenzione a come sono rappresentate le armature dei guerrieri greci è interessante notare che sono pensate più per intimorire lo sguardo dell’avversario, che per l’utilità pratica nel combattimento. Certe vestizioni, come insegnano molti etologi della zoologia umana, come Irenäus Eibl-Eibesfeldt, sono semplici prolungamenti del comportamento animale. In tutto il ciclo troiano, dunque, viene messa in scena questa lotta fra l’istinto maschile e la scelta paterna; e anche l’Odissea ruota intorno a questo problema. Per esempio, lo scontro fra Ulisse e il Ciclope, tutta forza fisica esterna il secondo, tutta intelligenza il primo; ma soprattutto la vittoria di Ulisse contro i Proci. Del resto, la figura di Odisseo è molto complessa, è un padre che pensa sempre al suo ritorno, eppure si lascia tentare da altre figure femminili e dalla sua curiosità esplorativa dello spazio.
Spostando lo sguardo velocemente sulle figure femminili, forse si può notare che anche Penelope è l’esito di questa rivoluzione monogamica, assediata dalla regressione zoologica. È molto diverso, infatti, il suo femminile, da quello di Calipso, di Circe o delle sirene, tutte figure che vengono rappresentate come tentatrici e pericolose proprio perché foriere di regressione verso un maschile pre-paterno.
Mi sembra un’osservazione intelligente. Penelope è una figura di femminile materno, fedele al marito e alle generazioni. L’atto di tessere la tela è simbolico, si lega alla continuità delle generazioni perché quello che fa e disfa è il mantello in cui verrà avvolto il corpo di Laerte, una volta defunto. Ed è un atto bellissimo e anche impressionante, se uno ci pensa: testimonia come la presenza della morte e del negativo sia vissuta come elemento costitutivo della vita quotidiana. Se pensiamo, viceversa, a come la società moderna censura e cancella la morte, che viene, infatti, sbrigata come disgrazia affidandola ad un meccanismo commerciale predisposto, la differenza è quella di un vero e proprio capovolgimento. La rimozione è totale.
Uno dei miti su cui lei sta lavorando, e che mostra molto bene l’ambivalenza dell’identità maschile, è il mito dei Centauri.
Un anno fa, mi è capitato di vedere al Louvre delle metope e dei bassorilievi greci raffiguranti un gruppo di Centauri che rapiva donne Lapite. Non mi ero mai interessato alla figura del Centauro, ma, come è subito evidente, il suo significato fa proprio al caso nostro. La mitologia dei Centauri non è estesa, le fonti sono soprattutto romane: Le Metamorfosi di Ovidio, anzitutto. Poche le testimonianze greche. Quello che emerge è che sono un popolo intero maschile – solo in pochissime fonti viene rappresentata anche una “centauressa” – che conosce il rapimento come unica relazione con il sesso femminile. Del resto, la loro rappresentazione scissa, metà umana nella parte alta del corpo e metà animale in quella bassa, significa per immagini quello che poi dice il mito: il maschile non riesce a staccarsi dalla sua natura animale, non riesce a completare la propria umanizzazione. E non a caso è la parte inferiore che è animale, quella legata alla parte riproduttiva. Per altro, mi sento di poter sostenere che c’è una strana anticipazione nel mito di alcuni fenomeni attuali degenerativi. Penso alla gang rape, la violenza di gruppo. I Centauri conoscono solo questo tipo di sessualità di gruppo e sono, ed è molto interessante, sempre ubriachi, privi di coscienza.
I Centauri testimoniano dunque, attraverso il mito, della continua possibilità per la nostra specie di una regressione verso un maschile animale, non paterno?
Credo che la questione sia più complicata. Sarebbe, infatti, una semplificazione sostenere che i Centauri rappresentano una pura regressione animale, perché, in realtà, non esiste in nessuna specie animale questa pratica sessuale di gruppo violenta. A questo proposito, va riutilizzato un concetto famoso di Erik Erikson: il concetto di pseudo-speciazione. L’essere umano è l’unico animale che commette l’assassinio interspecifico in modo regolare. Solo alcuni tipi di scimmie e di felini lo fanno, ma in casi estremamente eccezionali. L’essere umano, invece, tranquillamente uccide suoi simili perché l’altro non viene più percepito, come negli animali, appartenente alla stessa specie. L’uomo riconosce i propri simili attraverso lingua, cultura, vestiti e non, per esempio, attraverso l’olfatto, come fanno in genere gli animali. Quando si parlano lingue troppo diverse, ci si veste in modo troppo diverso, si può percepire l’altro come non appartenente alla specie. E questo fa cadere l’inibizione ad uccidere. Questa è la pseudo speciazione, un fenomeno culturale che rompe l’istinto e che quindi ci fa molto più distruttivi. Quando si decostruisce l’aspetto maschile civile, quello del padre, si costruisce una pseudo-speciazione che separa maschile da femminile. Nella gang-rape l’uso indifferente di violenza estrema accompagnato da atti di sadismo e talora perfino dalla morte della vittima descrive una modalità di relazione dove il femminile viene percepito come qualcosa di talmente diverso da permettere la caduta dell’inibizione ad uccidere. Allo stesso modo di come cade l’inibizione ad uccidere un popolo diverso.
Esistono, secondo lei, episodi storici che possono essere interpretati come prime anticipazioni di questa riattivazione inquietante del mito dei Centauri?
Il più grosso episodio storico di stupri di massa è quello dell’Armata Rossa, in Germania, nel 1945. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu dato il via libera ai militari sovietici di violentare le donne tedesche. Purtroppo, ha ragione Jung quando sostiene che combattere troppo un nemico può far diventare simili al nemico stesso, perché la brutalità con cui i militari sovietici hanno terrorizzato e stuprato le donne tedesche non ha nulla da invidiare alla pratiche naziste. Se si pensa inoltre che l’Armata Rossa non dava licenze di alcun tipo, questo significa che la stragrande maggioranza dei militari era costituita da ragazzi che combattevano ininterrottamente da quattro anni di fila, visto che la guerra era cominciata nel giugno ’41. Non è difficile capire come questi giovani fossero ormai abituati ad una tale distanza dal femminile da percepire le donne come qualcosa di assolutamente altro, anche perché appartenenti ad un popolo diverso e nemico. Di nuovo, un caso di pseudo speciazione. Ed è qualcosa che si è rivisto, per esempio, negli stupri etnici in Ex-Jugoslavia ed è ora diffusissimo soprattutto in Africa, nelle zone uscite da devastanti guerre civili, come la Liberia, la Sierra Leone o le zone ad est del Congo. Battaglioni costituiti da ragazzi giovanissimi, a cui viene dato un kalashnikov in mano e che si abituano a combattere ed uccidere fin da piccoli, una volta cresciuti, e magari ormai disarmati, danno vita a bande di maschi atte allo stupro di massa. Sono ragazzi che hanno conosciuto la violenza come unica modalità di relazione con l’altro; in questo caso, il femminile. Eppure tutto questo accade anche nel nostro ricco Occidente, dalle periferie alle scuole ricche del centro. Si pensi ad un caso di qualche mese fa: una banda di adolescenti ricchi ha isolato una ragazza che è stata poi stuprata a turno da tutti, per ore. La cosa impressionante è che, una volta interrogati, questi giovani non provano alcun senso di colpa per quanto commesso. E questo è davvero sconcertante, vista la facilità con cui oggi, in un Occidente laico e consumista, è possibile avere relazioni e rapporti sessuali con chiunque e di qualunque tipo. Il problema è dunque culturale: e può essere visto come la riattivazione, nell’inconscio sociale, del mito dei Centauri. Chiamiamolo, per comodità, centaurismo. Si tratta dunque di un maschile violento che mette in atto possessioni di gruppo simili a quelle che i trattati di psichiatria – penso per esempio a quello scritto da Jasper – chiamano “epidemie psichiche”.
Esiste, secondo lei, un rapporto fra crisi della funzione paterna e ritorno dei Centauri?
Credo proprio di sì. Quello che impressiona è la fragilità individuale nascosta sotto queste pratiche di gruppo violente. Fragilità che negli ultimi anni è aumentata soprattutto a causa della disattivazione della funzione paterna. Non intendo, naturalmente, la funzione paterna in senso letterale, la presenza fisica di un maschio adulto. Ma di quello che chiamerei qualità paterna nell’educazione, qualunque sia la forma di famiglia vissuta. Penso alla capacità di dire no, di porre dei limiti, di creare un’economia mentale volta al risparmio delle energie psichiche nell’immediato in virtù di un progetto, di una preparazione di futuro, di una gratificazione differita, ma più intensa e proficua. La qualità psicologica del paterno non coincide soltanto con una visione derivante da una diffusa banalizzazione del freudismo, per cui il padre è l’elemento castrante, il famoso complesso di Edipo. Ricordiamoci che non è l’unico modo possibile di interpretare il paterno. È un mito sicuramente interessante quello di Edipo, insieme però a moltissimi altri miti che descrivono altre qualità e altre prerogative della funzione del padre: in particolare la figura di Ettore. Se i Greci ne hanno usati tanti, lo possiamo fare anche noi. Non pretendiamo dunque da quel racconto l’unico modo possibile dell’essere paterno. Si può, per esempio, essere padri spiegando le ragioni del no, motivando la necessità della rinuncia in vista di un progetto e di una gratificazione maggiore. Non per forza l’interdizione deve essere implicita, sadica, castrante. Può essere spiegata e diventare ragionevole.
Luigi Zoja, già presidente della IAAP, l’associazione che raggruppa gli analisti junghiani nel mondo, ha lavorato a Zurigo, New York e Milano. I suoi lavori descrivono ed interpretano, attraverso lo studio del mito, i pericoli regressivi, le aberrazioni culturali e le patologie sociali del nostro tempo. I suoi libri sono tradotti in quattordici lingue.
Fra le sue ultime pubblicazioni: Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza (Cortina, Milano 1985 e 2003); Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (Bollati Boringhieri, Torino 2000); Giustizia e Bellezza (Bollati Boringhieri, Torino 2007); Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza (Bollati Boringhieri, Torino 2008); La scomparsa del prossimo (Einaudi, Torino 2008).
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