Lug 2011 “Parliamo di forme di lotta”
di Stefano Ciccone, dell’Associazione Maschile Plurale
pubblicato su il manifesto del 15.07.201
Nel decennale del G8, riflettiamo sui linguaggi dei movimenti, sulle pratiche politiche e sulla loro efficacia. Per liberarci da una cultura militarista, e dal virilismo e dalla logica che rimuove libertà e differenze
Dopo le manifestazioni in Val di Susa la rete si è popolata di videoracconti di chi ha manifestato pacificamente contro la Tav, carichi di frustrazione e di rabbia per l’arbitrio della polizia e poi per la falsificazione dei media. Chi partecipò alle manifestazioni di Genova contro il G8 del 2001 conosce bene questo stato d’animo. Quelle giornate furono per molti un passaggio traumatico dopo il quale per molto tempo è stato impossibile uscire dalla visione ipnotica della violenza, dal claustrofobico senso di impotenza. Ma la politica è trasformare la rabbia e l’indignazione nella costruzione collettiva di un’idea alternativa di cultura, di vita, di società. Tra poco a Genova molte iniziative torneranno a quelle giornate: è possibile farne occasione di riflessione sul nesso tra politica, conflitto violenza e radicalità attualizzando la riflessione su quello che le nuove mobilitazioni ci raccontano senza restare prigionieri della commemorazione?
Sarebbe un errore ridurre una storia ricca e plurale al ricordo della repressione e della sospensione delle garanzie democratiche. La grande sperimentazione dei social forum di Genova 2001 non può essere schiacciata sugli scontri. Non solo: in questi dieci anni di mobilitazioni, crescita e crisi del movimento no global, sono nate esperienze che ne hanno raccolto alcune intuizioni e superato i limiti della deriva leaderistica, della semplificazione degli schieramenti, della tendenza a stigmatizzare le differenze interne come “tradimenti”. E soprattutto si è messo a fuoco che questi vizi non sono neutri, ma frutto di culture patriarcali dominanti.
Negli ultimi anni le lotte degli studenti, dell’università, dei precari, le mobilitazioni delle donne e del movimento glbt, i flash mob, le pratiche partecipative diffuse e radicate nei comitati per i beni comuni, hanno costruito forme di mobilitazione innovative. Sono esperienze che preferiscono l’orizzontalità alla delega e allo schieramento e non riproducono modelli viriloidi nel proprio modo di manifestare. Esperienze capaci di articolare il conflitto oltre lo scenario dell’appuntamento di piazza, nella dimensione quotidiana, territoriale, culturale, diffusa.
Queste esperienze ci dicono che la radicalità delle proprie ragioni e del proprio desiderio di trasformazione non si misura sulla disponibilità allo scontro in piazza, sulla sfida con la polizia per attraversare una linea rossa. La radicalità di un movimento si misura sulla sua capacità critica, sulla sua proposta innovativa rispetto all’ordine delle cose, sulla sua capacità di smascherare linguaggi di potere invisibili e forme di dominio diffuse e di di riconoscere le forme di complicità con tutto quello che ci sembra naturale: la gerarchia tra uomini e donne innanzitutto.
È possibile inventare forme di lotta efficaci e coerenti con le ragioni di chi vuole opporsi alla logica del potere: chi ha occupato i tetti, chi ha manifestato sui monumenti, chi ha tenuto le lezioni in piazza, chi durante il pride ha espresso la propria irriducibilità ai modelli dominanti di virilità e femminilità è meno radicale o ha meno rabbia di chi sceglie di sfondare i cordoni della polizia?
Tuttavia l’originalità di una pratica politica deve essere riconosciuta, tematizzata, resa patrimonio comune, non restare implicita. La scelta delle forme di lotta, dei linguaggi, delle forme di organizzazione e di conflitto ha a che fare pienamente con la politica.
In molte mobilitazioni le donne hanno un ruolo decisivo ma senza che questo venga riconosciuto come dato che trasforma quei percorsi. In molte lotte le dinamiche violente, il linguaggio utilizzato per denigrare l’avversario (pensiamo alla Gelmini) fanno ricorso alla volgarità misogina o omofoba che a stento viene problematizzata.
L’accettazione dello scenario dello scontro regala al governo lo spunto per criminalizzare e liquidare le mobilitazioni e accetta come essenziale la visibilità mediatica: conta chi, con gli scontri, conquista il servizio del Tg. Questa contraddizione diviene sempre più stringente di fronte a un governo che ha risposto ad ogni mobilitazione sociale con la violenza, l’arroganza e la criminalizzazione. L’applauso al blindato che brucia mentre Berlusconi umilia il Parlamento nel dicembre scorso fotografa un esito frustrato e impotente. Per fare questa critica non c’è nessun bisogno di ricorrere alla cultura del sospetto e allo spionaggio sugli infiltrati. Oggi, come dieci anni fa a Genova questo nodo viene spesso rimosso e questo conflitto anestetizzato con una sorta di “topografia indifferente”: pratiche diverse convivono una accanto all’altra senza reciproca interrogazione, quasi riconoscendo una “divisione dei ruoli”.
L’apertura di una riflessione libera e limpida è frenata proprio dalla retorica che ricorre al feticcio dell’unità e della solidarietà del movimento. È invece possibile rifiutare la distinzione in “buoni e cattivi” proposta dai telegiornali e al tempo stesso affermare un’idea di movimento plurale in cui la critica e il confronto siano liberi dall’uso della retorica del tradimento, della fedeltà, dello schieramento. La violenza non è, infatti, solo politicamente inutile, è culturalmente subalterna. Proprio in occasione del G8 di Genova molte donne firmarono il documento «lontane dai militari e da chi li imita» che denunciava la subalternità culturale della rincorsa alla simmetria simbolica che molti inseguirono.
È necessario costruire uno sguardo critico non per perbenismo o timidezza, quindi, ma al contrario per l’esigenza di una maggiore radicalità. Non ci emoziona il gesto atletico del lancio della bottiglia contro i blindati, vogliamo sottrarci alla seduzione della sfida eroica scudi contro scudi, resistiamo a essere intruppati in plotoni ordinati, ci annoia giocare a risiko con le strategie in piazza o in montagna.
Non ci piacciono i corpi militari, i corpi collettivi in cui perdere la nostra singolarità e ci spaventa la seduzione che esercita, soprattutto su molti maschi, l’emozione di sentirsi parte di un “corpo unico” che si scontra col nemico. Rifiutiamo qualunque pratica che chieda alle persone di omologare la propria irriducibile singolarità. Vogliamo liberarci da una cultura militarista, dal virilismo, dalla logica che rimuove la libertà e la differenza di ognuno e ognuna.
A dieci anni dal G8, grazie al gruppo “lo sbarco” si terrà a Genova un’occasione di riflessione su linguaggi e forme di lotta e di partecipazione. Tra gli obiettivi citati nella convocazione quello di “Liberare i conflitti,riconoscere le differenze”. Molte esperienze diverse proveranno a riannodare il filo di questa ricerca.
Potete leggere qui, di Alberto Leiss, un resoconto e le risfessioni sull’incontro, già pubblicato sul sito Donne e Altri
I temi dell’articolo di Stefano Ciccone sono stati scelti dalla redazione per la domanda che quotidianamente il manifesto rivolge ai propri lettori, le risposte dei quali vengono pubblicate il giorno successivo. Le riportiamo, domanda e risposte, qui sotto.
Pink, disobbedienti, azione diretta. I colori della rivolta alla prova della storia
A 10 anni dal G8, riparliamo di forme di lotta. Più efficace la creatività o lo scontro? E tra le due, qual è la più radicale?
La settimana che si apre è quella del decennale del G8 di Genova. Numerose iniziative, di cui vi daremo conto puntualmente, ricorderanno quelle giornate, la repressione violenta del movimento e i suoi momenti topici: l’assassinio di Carlo Giuliani e la mattanza nella scuola Diaz. Una di queste sarà dedicata ai linguaggi e alle pratiche politiche. Già all’epoca la discussione era serrata, e il cosiddetto «movimento dei movimenti» la risolse in maniera «liberale»: nessuna distinzione tra «buoni e cattivi» e ognuno in piazza con le sue modalità, anche se le tensioni e le differenze non mancavano. Addirittura, nei controvertici che precedettero quello di Genova la rispettosa distinzione di pratiche assunse colori diversi: i «pink» erano l’ala creativa e festosa del movimento (ma non meno radicale degli altri); le «tute bianche» quelli che miravano alla dimensione simbolica del conflitto, e alla sua valenza mediatica; i «blu» (poi diventati «neri») quelli che pensavano invece all’«azione diretta contro il capitale». La repressione di Genova fece saltare tutto, mostrando in tutta la sua potenza la violenza del potere. Voi cosa ne pensate? Più efficace la creatività o l’«azione diretta»? La dimensione simbolica o quella concreta? E tra queste, qual è la più radicale?
Il nuovo giochino del mio giornale di sempre mi sembra un po’ semplicistico, al limite del banale, ma stavolta non voglio sottrarmi. Ero a Genova, e sono convinto che se in piazza vi fossero stati servizi d’ordine adeguati al livello dello scontro, non alla sua rappresentazione simbolica, centinaia di persone sarebbero rimaste illese e io non avrei avuto la testa rotta (ero senza casco, a volto scoperto e totalmente disarmato). Forse Carlo sarebbe ancora vivo. Mi dispiace per Ciccone, che nel suo articolo (il manifesto 15/7) tenta di orientare un’altra risposta al quesito da voi posto, ma le cose stanno così, per moltissime persone. Eppure di Genova ho amato tutto: i pink, le suore, gli scudi e i (pochi) sassi, perché Genova era tutto questo, come ogni movimento reale, e soprattutto era la capacità di tenerlo tutto insieme. Sarà scandaloso dirlo, ma a me l’ultrapacifismo e il black block sembrano speculari: entrambi vogliono che si lotti solo come pensano loro, entrambi assolutizzano le pratiche possibili del conflitto sovradeterminando i movimenti reali. Credo che invece le forme di lotta debbano rispondere non all’ideologia di questo o quel ceto politico, ma ad alcuni criteri molto semplici: i risultati politici, la crescita della partecipazione,l’incolumità personale e la libertà di chi lotta, il consenso che si ha attorno ad esse, il mutamento dei rapporti di forza. Per cui alla domanda “creatività o scontro”, non posso che rispondere “entrambi”.
Marco Schettini Roma
In piazza e senza chiasso, senza caschi, sassi, roncole e in silenzio, per chiarire qual è il rapporto con l’anniversario. Ma al di là di tutto, e oltre le piazze, meglio ancora sarebbe cercare nuove avanguardie nella pubblicistica, nelle iniziative di arte e letteratura, nelle strade, tra flash mob inquietanti come un quadro di De Chirico ma trasparenti nei messaggi, per dire no alla cultura degli ultimi trent’anni, per creare come suggerisce Chomsky, termini di riferimento, codici di una nuova politica.
Marco Conti
Come si sta in piazza? Come la narrazione collettiva richiede, io son per lo scontro creativo, alla Luttazzi: «Tutti vestiti da sacerdoti, ora avremmo ore di immagini in cui gli sbirri picchiano preti».
Luther Blisset
Cari amici e compagni, il volontarismo, il vitalismo, l’agonismo del corpo militarista e bellicista messi insieme hanno un solo nome: fascismo. Povera sinistra condannata all’estetismo della protesta e non alla faticosa costruzione di progetti politici riconoscibili da più soggetti sociali.
Antonio Capone
Creatività o scontro? Tutte e due. Serve ricordare che sono il governo e la polizia gli organizzatori della violenza voluta e scientificamente preparata a tavolino e quindi dobbiamo attrezzarci e rispondere alla domanda di Paolo Bonazzi nelle lettere di ieri: «Loro sono disposti a farci la guerra pur di salvare il loro mondo. Noi cosa siamo disposti a fare per cambiarlo?». La speranza è che la creatività dilaghi nella resistenza come è stato in Val di Susa.
Teresa Gennari
I dieci anni trascorsi da Genova 2001 ci dovrebbero aver insegnato che tutti, ma proprio tutti, quelli che partecipano alla ripresa di parola, che sono le manifestazioni, devono stare in piazza con prudenza e determinazione e se possibile attrezzati, se è il caso – No Tav docet – con gli strumenti di autoprotezione adeguati. Radicalità di contenuti e di comportamenti, sono due cose diverse: la prima la scegli e la pratichi nell’attività quotidiana; la seconda te la impone il comportamento degli sgherri in blu nelle piazze e nei luoghi pubblici di cui “lorsignori” pretendono l’esclusivo controllo, come il capitalismo finanziario – dominus del pensiero unico, insegna e dispone da una trentina di anni ormai.
Aldo Rotolo
Sono d’accordo con l’analisi di Stefano Ciccone sulle varie forme di “lotta”. Succubi come siamo del maschio potere della forza (violenza) potenti e “poliziotti” di turno trovano sempre qualcuno di noi pronto (a cedere) alla logica dello scontro muscolare. Ricordate le polemiche di Casarini contro i sostenitori della nonviolenza? Ma proprio parole come “assedio” o “sfondamento” di cordoni e/o zone più o meno rosse non sono prima di tutto derive militariste del nostro pensiero e del nostro linguaggio? Lo scudo, il caschetto, il sasso, la bomba carta dovrebbero essere banditi dalle nostre proteste perché contrari ai nostri valori, potenziali fonti di eterogenesi dei nostri fini ma anche solo in quanto pretesti e quindi cause indirette di repressione dei manifestanti pacifici da parte delle forze di polizia, con ricadute pesanti sui resoconti dei media ma soprattutto sulla partecipazione dei soggetti “deboli” (principalmente donne e bambini) alla “lotta”.
Roberto Cerchio
Commenti recenti