Libertà dalla violenza
di Alessio Miceli,
pubblicato in Via Dogana n° 87, dicembre 2008
C’è spazio per una nuova politica di collaborazione tra donne e uomini, nel contrasto alla violenza maschile sulle donne? Qualcosa si muove in questo senso, ci sono novità: come la proposta avanzata da alcuni uomini della Associazione Maschile Plurale alla rete dei Centri Antiviolenza dell’Emilia Romagna ed alla Casa delle donne maltrattate di Milano.
L’idea è di promuovere in diverse città italiane una serie di iniziative di dialogo a cura di uomini e donne, sul tema della violenza maschile contro le donne.
E allora, si potrebbe obiettare, cosa c’è di nuovo? Le donne organizzano già da tanti anni questo tipo di incontri: come Centri Antiviolenza, come Associazioni di donne e ultimamente come uffici di Istituzioni tenuti da donne (per esempio gli uffici delle pari opportunità in Comune o in Provincia).
Ecco, provo a spiegare il passaggio che intravedo in questa proposta.
Da una parte i movimenti delle donne ed in particolare i Centri Antiviolenza per quanto riguarda le donne maltrattate, hanno praticato la relazione tra di loro, importantissima, scardinante il dominio maschile al loro interno.
Ma la novità è che oggi alcuni uomini potrebbero coinvolgerne molti altri a parlare di violenza maschile sulle donne, ad assumere questa realtà in vista di una trasformazione. Perché c’è una esperienza maschile minoritaria ma comunque esistente, che mi sembra aprire la strada a questa nuova possibilità. E’ l’esperienza di pochi uomini, che ricercano una relazione viva con le donne, tale da potersi rigiocare la propria sessualità ed il corpo, i ruoli familiari e lavorativi, la parola, la politica ed il potere. Uomini che possono chiamarne altri ad una nuova civiltà delle relazioni tra i sessi.
A questo punto del discorso sulla violenza, mi si presentano alcune domande. Su cosa confliggono oggi donne e uomini? E per quali aspetti scatta la violenza sulle donne? Con quale linguaggio parlarne? E con quali uomini?
Queste sono tracce di lavoro e “traccianti” che illuminano la mia anima di uomo, su cui non sto qui a dilungarmi, faccio solo qualche annotazione di realtà.
Quanto ai contenuti della violenza sulle donne oggi, mi sembra irreale parlare soltanto della violenza agita, della sua esplosione. Sotto questa punta dell’iceberg c’è tutto un mondo di “ordinaria follia relazionale”, fatta fin qui a misura di tanti uomini attaccati al potere. Potere nello scambio affettivo, economico, sessuale e generativo. Ce lo indicano i dati spaventosi sui maltrattamenti ed omicidi proprio nell’intimità della coppia. Ce lo dice la strutturazione del mercato del lavoro, così difficile da tenere insieme con il resto della vita a partire dalla maternità. Ce lo mostrano tutti i dispositivi di controllo del corpo femminile: dai nove milioni di clienti italiani delle prostitute, alla mortificante rappresentazione mediatica delle donne, alle travagliate leggi sulla procreazione (come la 194 e la 40).
Riguardo al come parlare, vi sono narrazioni recenti della violenza sulle donne, che usano diversi linguaggi.
Per esempio dal 2005 in avanti si è molto diffuso il linguaggio dei numeri, forniti da diversi Enti (Consiglio d’Europa, Istat, Ministero dell’Interno). I dati quantitativi sono importanti, sono serviti a sollevare la denuncia, ma non mi sembrano ancora il cuore pulsante, la radice di questo fenomeno. Di seguito si sono moltiplicate le cronache e (più raramente) le analisi giornalistiche, anche con l’invenzione di richiedere dei contributi maschili. Questi uomini, però, hanno spesso mancato l’occasione di mettersi in discussione nei loro scritti, trattando della violenza come di un oggetto esterno a sé stessi. Poi nel 2006 e 2007 sono arrivati i due Appelli Uomini contro la violenza maschile sulle donne, promossi dalla Associazione Maschile Plurale su scala nazionale italiana. Si è introdotto così un altro registro, un linguaggio di uomini che si ritengono “parte in causa” e chiamati ad una responsabilità. Anche se, naturalmente, la modalità dell’appello rimane ancora generica rispetto ad un fare successivo.
Sui soggetti, la prima cosa da dire è tanto banale quanto ordinariamente taciuta. E’ parlare di noi stessi uomini, tutti, come provenienti da una lunga storia di violenza maschile con cui confrontarci. Sembra invece che vogliamo rimuovere da noi “brava gente” l’ombra della violenza, delegando ai “tecnici” nelle istituzioni il trattamento degli “uomini violenti” (sempre altri). Naturalmente la realtà è ben diversa.
Bastano i dati devastanti delle violenze in famiglia ad abbattere il muro divisorio tra “la brava gente” e “gli altri violenti”.
Bastano poi alcuni casi emblematici a smentire la presunta neutralità degli operatori tecnici, di una toga, di un camice, di una qualunque divisa (altra cosa è prendere coscienza della propria parzialità di essere un uomo, sotto quella divisa). Poco sembra cambiato in Italia, per esempio, da quel primo “Processo per stupro” ripreso dalla Rai a fine anni ’70 in cui “la giustizia era violenta tanto quanto gli stupratori in un’aula di tribunale” (avvocatessa Tina Lagostena Bassi), alla vicenda giudiziaria riportata da Cristiana di San Marzano nel libro Amorosi Assassini (Laterza, 2008). Qui si racconta la storia ed il processo di un “branco” di quindici/sedicenni che violentano ripetutamente una ragazzina tredicenne, la ricattano, la filmano con i cellulari, vendono i filmati ai coetanei… finché una madre non denuncia. Ragazzi rimessi quasi subito in libertà, a frequentare la stessa scuola, la stessa parrocchia, a interrompere gli arresti domiciliari “almeno il sabato e la domenica per il raduno di motocross”, come richiede l’avvocato. Ragazzina e famiglia si trasferiscono. Sotto le toghe di quei due processi, a circa trent’anni di distanza, nulla è cambiato nel pregiudizio e nel disprezzo maschile per quella donna e per quella ragazzina “che ci stavano”.
Dunque, io credo che nessun racconto funzioni, se non incontra il substrato della violenza che è “dentro” la mia storia di uomo. E’ il livello simbolico della violenza maschile sulle donne in cui sono nato, che storicamente mi precede e mi attraversa. E’ un archivio, una millenaria e documentata galleria di immagini di dominio, di primato, di controllo maschile delle donne (in particolare quelle da cui si dipende), che accomuna tutti noi uomini in quanto tali, in questo tempo ed in questa parte di mondo.
Piuttosto che discutere questa galleria di immagini maschili profonde, provo ad esemplificarla con un mio sogno. Tempo fa, appunto, ho sognato una donna che mi aveva lasciato. L’ho sognata sdraiata per terra, mentre io ero in piedi e calzavo degli stivaloni che poi ho associato agli anfibi, all’ordine militare. Poi le davo dei calci, con grande sfogo di violenza.
Ecco, è già tutto qui, in questo mio sogno c’è la storia di noi uomini qui. Naturalmente sono io che costruisco il sogno, ma i materiali che uso sono quelli comuni a tutti noi, provenienti dalla nostra storia. C’è la radice erotica, c’è il desiderio frustrato che non riconosce il desiderio dell’altra, c’è l’intolleranza dell’abbandono, c’è l’ordine militare ed il monopolio della forza, c’è l’aggressione…
La maggior parte degli omicidi “di coppia” funzionano così ed io so che muovono da immagini simili a quelle che abitano anche dentro di me, come in tutti noi uomini qui.
Infine, io riconosco una differenza maschile, una libertà che si muove in me proprio da questa lettura della mia storia di uomo e delle sue immagini più profonde.
A partire da questo riconoscimento della nostra storia, penso alla possibilità per noi uomini di non essere schiacciati su un destino di violenza. Come in quei grandi processi di pace, in cui il riconoscimento di una storia anche molto pesante apre la strada ad una riconciliazione politica tra le parti. Nuove consapevolezze aprono la prospettiva di una nuova trama di relazioni.
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