Ago 1997 “Un altro maschile, un’altra esperienza di sé.
Il bisogno degli uomini di prendere parola”
di Claudio Vedovati, Stefano Ciccone
da: “Derive del maschile. Gli uomini dopo il femminismo”, Alfazeta n. 63/64, maggio/agosto 1997
Partire da sé: sembra facile a dirsi, ma per il maschile – paradossalmente – non c’è nulla di più difficile che mostrare a se stesso i proprio bisogni. Paradossalmente, perché è il genere che ha permeato di sé i rapporti sociali, le forme istituzionalizzate del vivere insieme, il modo di pensare il mondo.
La forma maschile – questa forma storica dentro alla quale siamo ancora immersi – si è imposta al mondo e lo ha dominato attraverso una proiezione oltre il proprio corpo. Diventare “uomini” è stato sinonimo di realizzazione nella storia, nella scienza, nei saperi, nel mercato, nella politica, per realizzare un soggetto forte, prometeico, neutrale. Un soggetto che ha fatto tacere il proprio corpo e lo ha rimosso quando lo intralciava ma che poi, proprio attraverso la finzione della propria neutralità, ha imposto il proprio potere sugli altri corpi e li ha dominati.
Il costo di queste mutilazioni è alto: lo è stato e continua ad esserlo per le donne, che hanno dovuto imparare a pensare a se stesse in un mondo che gli è estraneo e che ha teso ad espropriarle della loro soggettività. Ma lo è anche per il maschile, che nella propria strategia di affermazione di potenza si è impoverito.
È da questa povertà che siamo partiti molti anni fa – era l’inizio degli anni ottanta – per iniziare un percorso di riflessione e di critica sulla storia del genere maschile che negli anni è passato attraverso discussioni tra amici, l’esperienza dei movimenti, il dibattito nelle organizzazioni politiche, l’isolamento, iniziative pubbliche promosse da noi o – più spesso – a cui siamo stati invitati dalle donne.
Il nostro percorso partiva dal disagio, un disagio che aveva molte forme. Eravamo critici della militanza tradizionale, con i suoi implacabili meccanismi da appartenenza e le dinamiche di potere, delle forme istituzionalizzate della politica moderna (dal partito allo stato pensati come soggetti separati dai bisogni), dello stato sociale come sistema di regolazione dell’economia che sottrae ai soggetti il controllo dell’organizzazione dello spazio e del tempo come anche delle priorità e delle forme del produrre. Ma si esprimeva anche nelle relazioni interpersonali, nel vedere come noi uomini eravamo incapaci di usare il nostro corpo per socializzare tra di noi al di fuori di logiche competitive e di dominio reciproco, per scambiarci reciprocità e affetto, di come tacevamo su di noi e di come invece il corpo maschile fosse segnato da un immaginario negativo, un corpo violento, invadente, pericoloso, aggressivo.
Ci colpiva la difficoltà – vissuta anche dentro noi stessi – di frequentare positivamente il desiderio maschile, di riconiugarlo fuori da un ordine simbolico segnato. Lo stupro è stato uno dei primi luoghi del comportamento maschile con cui abbiamo iniziato a confrontarci. Ci appariva come qualcosa che ci riguardava nel profondo, che chiamava in causa l’intera storia del maschile e che non potevamo rimuovere associandolo al gesto di un maniaco e dunque ad una devianza della normalità. Lo stupro, come la prostituzione, raccontavano ai nostri occhi la normalità del maschile, l’impotenza nel saper affermare il proprio desiderio senza ricorrere alla violenza o alla mercificazione, l’incapacità a dialogare con il desiderio femminile e dunque anche con la desiderabilità del corpo maschile. Di più: esso ci apparve come una vera e propria norma sociale, attraverso la quale ribadire il controllo sul corpo femminile, sancire un ordine simbolico e materiale del mondo.
La scoperta della parzialità maschile è via via diventata, attraverso un percorso accidentato, uno strumento che dava senso ad un insieme frammentato di contraddizioni, bisogni e disagi. È la strada per uscire dall’introiezione di un destino, come se queste forme del maschile fossero biologicamente date e storicamente irremovibili. Inevitabilmente è stato necessario partire da una “colpevolizzazione di genere”, ovvero fare i conti con la storia del maschile – fatta di violenza ed esercizio del potere – per potersene distanziare e dare voce a bisogni diversi, e per poi “tornare al proprio genere” riscoprendolo e dare ad esso un altro senso. Contemporaneamente era necessario fare i conti con le forme del prendere parola.
La parola maschile esiste e regola il mondo, ma si nasconde anche dietro una apparente neutralità. Gli uomini parlano protetti dai ruoli che assumono nella dimensione sociale, dietro saperi che si fingono neutri: la scienza, la politica, il diritto, la medicina. C’è addirittura un eccesso di parola maschile che fonda etiche, diritti, tecniche, ma al di fuori delle relazioni di genere, e che anzi sono uno strumento di controllo dei corpi. Questa parola e questa presenza sono l’altra faccia di un silenzio profondo, di una difficoltà di stare nelle relazioni e partire da esse per dare un senso al mondo. È un silenzio su se stessi. La storia del maschile è indubbiamente fatta di potere e di silenzi attraverso i quali è stato più facile occultare il predominio sociale del genere, e di padri, fratelli, figli, mariti, che hanno portato nelle relazioni interpersonali ruoli sociali più che emozioni, bisogni, desideri.
Per questo era necessario non cadere nella trappola dell’interlocuzione “illuminata”, del maschile che prende parola per solidarietà con l’altro genere senza mettersi davvero in discussione, senza fare emergere il proprio autonomo bisogno di parola. Implicitamente questo tipo di approccio – che ha caratterizzato in larga parte gli uomini della sinistra – riduce la messa in discussione della mascolinità a una rinuncia ad una parte di sé, un “giusto” retrocedere – ad esempio – a fronte dello spostamento dei ruoli prodotti dalle conquiste del femminismo. Un rinunciare ad una parte di potere. Ma ciò vuol dire il riconoscimento della soggettività femminile ad un fatto che rimanda alla sola tutela ed al riconoscimento di diritti e non come ad una occasione per confrontarsi con la propria parzialità sessuata.
Uno dei passaggi di questo “prendere la parola” è stato segnato in modo contraddittorio dal rapporto con il femminismo ed in particolare con il pensiero della differenza. Indubbiamente ci siamo nutriti anche di esso e al suo linguaggio abbiamo fatto ricorso. Ciò ha fatto emergere una forte tensione tra il riconoscimento che dentro di noi facevamo di questa cultura ed il pericolo di una appropriazione indebita. È stato per noi – e probabilmente lo è ancora – un passaggio inevitabile: da una parte è il pensiero della differenza che ci ha fornito uno strumento per riscoprire come fatto positivo la parzialità del maschile, e dall’altra ci siamo resi conto di come un altro linguaggio del maschile sia ancora tutto da costruire. E non in astratto, ma dentro una pratica di relazione di genere proprio tra gli uomini (non è stato senza significato dunque il fatto che in questi anni il nostro percorso abbia invece incrociato molti silenzi, sopratutto nei luoghi della parola pubblica).
Il desiderio femminile, il suo riconoscimento, è stato un altro passaggio importante. Fare esperienza dell’autonomia della soggettività femminile anche attraverso l’autonomia del suo desiderio ha permesso di scoprire la parzialità maschile come una ricchezza e non come un impoverimento. E ha favorito un’altra percezione del maschile e la decostruzione della sua identità storica. Il corpo maschile sembra infatti storicamente incapace di imporre se stesso se non a partire dalla propria indesiderabilità, cercando conferme di sé oltre la relazione di genere e nel rapporto con formulazioni astratte nel diritto, soggetti di potere istituzionalizzato, il denaro: il fidanzato che chiama in causa il giudice per aver riconosciuto il proprio “diritto” alla paternità, il marito separato che rivendica l’affidamento dei figli attraverso un potere di legge, gli uomini che vanno a comprare “compagnia” o “piacere” con le prostitute come se il corpo maschile fosse destinato a dover imporre se stesso a partire dalla propria indesiderabilità.
C’è dunque un altro maschile e un’altra possibile esperienza di sé? Noi di questo sentiamo il bisogno, senza rinunciare a fare i conti con la storia che abbiamo alle spalle, ma per cogliere opportunità di liberazione. Ciò non potrà prescindere dal modo in cui noi maschi impareremo a stare tra noi, usando i nostri corpi come luogo di comunicazione. È un percorso che a nostro avviso richiede anche di sessuare quei luoghi dove invece la rimozione dei corpi e della sessualità ci viene più facile ed è stata istituzionalizzata, ovvero i luoghi del potere e della politica. Proprio in essi, infatti, è cominciato il nostro metterci in discussione, come uno dei tentativi di costruire soggettività, di dare voce a bisogni che venivano invece marginalizzati. D’altra parte però gli esiti della crisi culturale della sinistra, le forme assunte dalla politica, le nuove regole della rappresentanza, la frammentazione sociale e la crisi dei legami collettivi, hanno diminuito la possibilità di rifondare la nostra identità sessuata in un percorso collettivo, legata alla possibilità di ripensare l’agire sociale e le regole che istituiscono un ordine comune tra gli individui. Questo non deve suonare come una giustificazione, ma piuttosto come una ulteriore consapevolezza rispetto ad una necessità che sappiamo di non poter più rimuovere.
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