Dic 2005 “La violenza contro le donne riguarda innanzitutto gli uomini”
Aprire un conflitto interno al maschile è una questione politica centrale
da Liberazione il 9 Dic 2005
E’ anche fuorviante interpretare questa violenza come frutto di un “disordine”.
Le violenze maschili contro le donne dicono molte cose sulla nostra società e le relazioni che viviamo. Per questo è importante la scelta di “Liberazione” di continuare a proporre un dibattito che chiama in causa donne e uomini. E chiama in causa una politica che voglia ascoltare a trasformare le relazioni tra le persone, interpretare i conflitti e le domande di libertà che intrecciano le vite di ognuno e ognuna di noi.
La violenza è questione che riguarda innanzitutto gli uomini. Già perché sono uomini quelli che stuprano, picchiano, umiliano, fino a volte ad uccidere. Uomini come noi, simili a me.
Ed è necessario che nel maschile si apra una riflessione, ma anche un conflitto. La violenza contro le donne non è infatti riducibile alla devianza di maniaci o marginali contro i quali alimentare risposte emergenziali che, paradossalmente, alimentino politiche securitarie. Non c’è un nemico oscuro nascosto nelle nostre strade da espellere: il male è nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle relazioni e nell’immaginario sessuale che abbiamo costruito. La violenza contro le donne, inoltre, è solo marginalmente rinviabile ad arretratezza culturale né è retaggio di un passato premoderno: riguarda tutte le latitudini del nostro paese, la provincia come le grandi città, tutte le classi sociali e i livelli di istruzione. Interroga direttamente la nostra “normalità” e il nostro presente.
E’ anche fuorviante interpretare questa violenza come frutto di un “disordine”.
Al contrario il suo permanere, in forme socialmente e culturalmente ogni volta determinate, mostra come sia vitale un ordine simbolico, un sistema di poteri che plasma i corpi, le identità, le relazioni. Un ordine invisibile che ancora segna le nostre prospettive esistenziali, le nostre opportunità di decidere di noi stessi/e. Lo chiamo patriarcato per ricordare che il conflitto con esso non è riducibile a categorie sociologiche e, soprattutto, a riconoscere che è stato nominato politicamente e dunque reso visibile da un soggetto: il movimento delle donne nella sua pluralità di pratiche e prospettive.
Non dobbiamo misurarci tanto con una debolezza femminile a cui fornire (paternalisticamente) tutele (tutele delle donne dalla violenza, tutela della loro presenza nello spazio pubblico tramite quote di garanzia) quanto con un universo maschile generatore di questa violenza.
Ciò su cui dobbiamo riflettere, e produrre pratiche capaci di cambiare comportamenti, modi di pensare se stessi e il mondo, è la costruzione della nostra identità di uomini. Guardare dentro questo universo e dentro di noi ci porta a indagare quali siano i fili sotterranei che legano le storie, i desideri, le fantasie, i bisogni di ognuno di noi, nella nostra “normalità” con questa tensione alla violenza. La violenza estrema dell’uccisione rischia di farci dimenticare le tante facce di quell’universo che ha a che fare con lo stupro, con il consumo del corpo femminile, con la sessualità ridotta a sfogo separato dalle relazioni, con l’imposizione del corpo maschile e con le categorie misere della potenza, della prestazione e della virilità incapaci di riconoscere la soggettività femminile. Quante violenze, quanti abusi nascono dalla rimozione del desiderio e del piacere femminili schiacciati in una presunta complementarietà con le forme che il maschile ha assunto?
Cosa dice tutto questo? Non parla soltanto di una violenza insensata ma racconta di un universo più complesso, un deserto nelle relazioni, una rappresentazione del corpo e del desiderio maschile schiacciati nella categoria dei bassi istinti da imporre con la violenza o con il denaro, di una sessualità maschile ridotta alla sua rappresentazione rattrappita della virilità e scissa dalle relazioni. Svelare questa miseria non vuole proporre un vittimismo né pensarla esaustiva ma individuare una chiave di lettura della violenza e una prospettiva che faccia della reinvenzione della sessualità maschile la leva per sradicarla e al tempo stesso per aprire nuove opportunità di vita per noi uomini.
Ha avuto ragione Angela Azzaro a chiedere agli uomini una parola di verità che non fugga nell’astrazione politica o sociologica ma che parta da ognuno di noi. Questo tentativo di riflessione, pur se minoritaria, ha avuto un suo percorso e mi permette oggi di trovare parole per nominarla oltre la versione riduttiva della “confessione personale”.
La violenza contro le donne e la continua verifica di forme di complicità maschile e femminile con schemi del patriarcato rivelano la vitalità di un sistema di dominio. Ma è vero che questo è ormai disvelato ai nostri occhi. E che è sempre più difficile guardare come naturale l’ordine della gerarchia tra i sessi, la presunzione di corrispondere al metro neutro dell’umanità da parte del maschile. Almeno per me è sempre più difficile sopportare le forme di socialità tra uomini, è sempre più difficile stare a mio agio nelle aspettative a cui mi si chiede di corrispondere. E’ come se un modo di guardare il mondo, e di cogliere ciò che segna i linguaggi, la politica, le relazioni, una volta aperto non fosse più rimovibile. E’ impossibile non guardare una sala in cui i relatori sono solo uomini e pensare ancora che ciò sia casuale, guardare un corteo con gli uomini alla testa col megafono (quando non schierati militarmente a simulare mimeticamente il “nemico”) e non sentire l’estraneità con quella virilità subalterna e ostentata. Al tempo stesso ogni giorno scopro dentro di me complicità, comportamenti di cui percepisco l’internità a quell’ordine, a quel sistema di gerarchie e poteri.
Ogni giorno, nel riconoscimento di autorevolezza tra uomini nella politica o nel lavoro, nel percorrere di notte con agio le strade delle nostre città, nel progettare la mia vita politica e professionale, misuro il peso dei “dividendi” del patriarcato di cui beneficio. Ma ogni giorno, dentro di me, guardando alla perdita di senso e autorevolezza di modelli maschili consolidati e dal suono stonato delle ostentazioni di autorità di molti miei simili, misuro quanto questi dividendi siano pagati con moneta falsa, che non ha più corso nella mia contemporaneità per dare senso alla mia vita e ai miei desideri.
Questo continuo movimento tra estraneità e continuità con la storia del genere a cui appartengo è parte della riflessione che come uomo, insieme ad altri ho tentato di sviluppare.
Questa scelta è condizione perché la rottura con la violenza avvenga senza quelle ambiguità che hanno spesso segnato la presa di posizione maschile. Innanzitutto quella del volontarismo: essere contro lo stupro per necessità etica condannando qualcosa che nulla avrebbe a che fare con noi.
La reazione di sconcerto per la violenza è una risorsa da non mettere da parte ma nasconde dentro di sé un doppio rischio di ambiguità: quello di considerarla una questione che non ci riguarda e verso la quale ci chiniamo per solidarietà e il ricorso, di nuovo, alla qualità virile dell’autocontrollo capace di disciplinare un maschile portatore di una componente naturalmente violatrice e ferina. Un’operazione che dunque non rompe con una rappresentazione storica del maschile come soggetto portatore di istinti irrefrenabili e al tempo stesso detentore della ragione e della capacità di dominio sul corpo proprio e della donna.
I gruppi di uomini che hanno avviato una critica politica ed esistenziale della maschilità scelgono questa rottura con il patriarcato non solo o non tanto per un obbligo etico, quanto come opportunità di liberazione.
Se infatti la tensione del maschile ad affermare il proprio controllo fisico, tecnologico, normativo, sul corpo della donna deriva anche da un conflitto ingaggiato per contrastare il primato femminile nella procreazione, e dalla necessità di costruire un nesso visibile del maschile con la genealogia (fino a fondarla sul nome del padre) il riconoscimento di questo limite può essere l’occasione per fare un’esperienza dell’essere uomini nuova, che fondi nella relazione la costruzione del proprio posto nel mondo.
Il rapporto apparentemente necessario col potere nell’essere uomini non è solo all’origine della violenza contro le donne ma anche della desertificazione delle relazioni tra uomini, della loro fondazione sul silenzio, sulla tacita condivisione di un obiettivo esterno (o di un nemico esterno) che supplisca a quell’impossibile intimità tra corpi potenzialmente invasivi e anestetizzati nella loro capacità di sentire e tra soggetti costretti a misurare nella competizione per il potere la propria identità.
La ricerca delle radici della violenza ci ha portati a indagare la costruzione della maschilità, le domande che hanno attraversato la nostra storia, le costrizioni che hanno limitato le nostre vite.
E abbiamo scoperto la libertà femminile e questa ha trasformato il mondo e noi stessi. Le relazioni tra i sessi e il conflitto che segna questa irriducibile differenza sono oggi un terreno su cui si misura la capacità della politica di essere luogo di trasformazione e liberazione e non complice di nuove forme di dominio e gerarchia.
Al contrario linguaggi e priorità programmatiche della politica rischiano di segnare le nostre complicità e rivelare l’inadeguatezza di una politica neutra contro la necessità di costruire soggettività che dalla propria parzialità leggano e reinventino conflitti inediti e non riducibili.
La troppo frettolosamente archiviata sconfitta nel referendum ci ricorda come sulle norme e le tecnologie di controllo dei corpi, esista un conflitto che riguarda la libertà femminile: un terreno su cui la destra costruisce consenso e su cui cresce un’offensiva che non si può contrastare in nome di categorie astratte come la laicità e la libertà di ricerca senza guardare alla materialità dei soggetti.
Così la crescita di politiche di appartenenza identitaria che propongono il sangue, la genealogia maschile come luogo di ricostruzione di identità frammentate dalla globalizzazione e dall’incrinatura di grandi prospettive progressive, esercitano una grande seduzione sugli uomini ad ogni latitudine e aiutano a capire la torsione integralista di movimenti, il continuo rischio di complicità che segna pratiche politiche che si vogliono antagoniste. E’ possibile dunque costruire una politica di trasformazione che non si misuri con una critica dei modelli di mascolinità?
La necessità di aprire una riflessione critica sul maschile e di agire un conflitto esplicito nel maschile sono insomma questione centrale per la politica e la cultura. Pena l’avvizzimento di ogni tensione di trasformazione in forme subalterne e emendative.
Chiedere che questo conflitto che cerchiamo di agire con il maschile diventi politica non è fuga dalla fatica individuale di scavare nelle nostre contraddizioni individuali ma rifiuto di relegarla a questione privata. E’ anche desiderio che, divenendo pubblica e socialmente visibile possa rompere la solitudine con cui molti uomini vivono la propria difficoltà a condividere con altri il proprio singolare differire rispetto a un modello di mascolinità oppressivo.
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