Gen 2012 “Oltre Oreste. L’oblio della madre nella costruzione dell’identità maschile”
di Lorenzo Coccoli
già pubblicato in zeroviolenzadonne
“In che città mi recherò?
Chi sarà quell’uomo pio
che in viso ormai mi guarderà?
Sono il matricida!”
(Euripide, Elettra, vv.1194-1197)
L’unica esperienza realmente universale e necessaria, al di qua e al di là di ogni contingenza storica e sociale, l’unica che forse accomuni tutti gli esseri umani senza esclusioni è quella di nascere, figlia o figlio, da una donna. Per noi uomini questo dato assume poi un senso assolutamente particolare, perché significa venire alla luce da qualcuno di un genere diverso dal nostro: “la prima situazione relazionale è dunque molto diversa per il maschio e per la femmina. E per questo costruiscono la loro relazione con l’altro in modo molto differente” (1).
La nostra differenza maschile si annuncia già alla nascita nella differenza da nostra madre. Eppure, cosa resta di questa origine materna all’interno della cultura in cui viviamo? Apparentemente, ben poco. La nostra identità civile sembra anzi costruita sulla sua negazione: prendiamo il cognome da nostro padre, memoria della genealogia maschile ma rimozione di quella femminile, mentre il calcolo dell’età anagrafica dimentica i mesi trascorsi nel grembo della madre. È significativo che questo oblio materno non risparmi neppure le analisi di quegli uomini che, almeno a livello consapevole, contestano l’egemonia maschile.
Così, ad esempio, Jonathan Rutherford lamenta che “scorrendo i libri, gli articoli e le riviste del Men Against Sexism (MAS) pubblicati dal 1973, si ritrova un grande interesse per i padri. […] Gli uomini hanno scritto a proposito delle loro relazioni con i loro padri, dei loro propri figli, degli sforzi per allevarli in modo diverso, condividendo e scambiando i ruoli parentali. Ma è rimasta una sorprendente dimenticanza. Gli uomini hanno passato sotto silenzio le loro madri” (2). È innegabile allora come questa dimenticanza costituisca per noi uomini un nodo da interrogare e, possibilmente, sciogliere.
In questa direzione, la psicoanalisi può rivelarsi d’aiuto. In effetti, grazie agli studi di alcune psicanaliste da Melanie Klein a Nancy Chodorow, fino ai cosiddetti post-freudiani di area anglosassone, l’attenzione è stata progressivamente spostata dal complesso edipico, il cui personaggio centrale è sicuramente il padre, a una fase preedipica ruotante attorno alla figura della madre. In altre parole, pur rimanendo uno snodo fondamentale nello sviluppo dell’identità maschile, il complesso edipico non ne costituisce l’unico fattore. L’idea è che il figlio maschio, il quale nei primi nove mesi forma un tutt’uno col corpo materno che lo ospita, al momento della nascita e della conseguente separazione fisica dalla madre non riesca a operare una separazione psicologica altrettanto netta e risolutiva. Solo in uno stadio successivo del suo sviluppo il bambino sarà in grado di spezzare la fusione indifferenziata con la madre, in un percorso tutt’altro che lineare.
Anche Lacan, in uno dei suoi primi scritti, inserisce questa fase primigenia all’interno del suo schema teorico. Ne Les complexes familiaux dans la formation de l’individu (3), egli considera il distacco dal corpo materno al momento della nascita: in questo periodo iniziale, il bambino, che non è ancora dotato di una propria identità, è soggetto ad un’angoscia che gli deriva dalla rottura dell’unità prenatale. Egli permane in questa situazione per i primi sei mesi di vita, sperimentando una fusione totale con la madre, progressivamente incrinata da ogni evento che riproduca il trauma originario della nascita.
Solo in un secondo momento il bambino perviene alla costituzione del proprio Io singolo attraverso la ricomposizione dell’unità perduta di sé stesso. Il complesso edipico rappresenta una via d’uscita a questa situazione: in virtù del divieto dell’incesto, il padre impone al figlio la separazione dalla madre. Il bambino è allora costretto a identificarsi con la figura paterna; solo che, quando vi riesce, questa figura non rappresenta più solo un’identità qualsiasi, ma racchiude in sé un’intera cultura: quella, appunto, che chiamiamo “patriarcale” (che è poi la cultura in cui viviamo). Il modello lacaniano può essere utile allora per interpretare le dinamiche generali di costituzione dell’identità maschile e per illuminare il primo movimento di articolazione della mascolinità: essa sarebbe il frutto mai definitivo di un processo di differenziazione (dalla madre) e di successiva identificazione (con il padre).
Quel che però Lacan non dice, è che questo percorso non avviene in uno spazio vuoto, ma in uno spazio segnato dai rapporti di forza che vengono a influire sullo sviluppo infantile. Quando cioè il bambino comincia a rappresentarsi l’avvenuta separazione dal mondo femminile materno e il conseguente ingresso in quello maschile paterno, egli si trova costretto a farlo all’interno di un contesto culturale che ha già distribuito il maschile e il femminile in una gerarchia di valori che tende a privilegiare il primo e a svilire il secondo.
In questo retaggio patriarcale, la fusione arcaica con la madre viene associata dal figlio maschio esclusivamente a un sentimento di debolezza e negatività. Di conseguenza, il distacco dall’orizzonte materno viene ad assumere i tratti violenti di un matricidio: per separarci dalla madre dobbiamo “ucciderla”, e questa uccisione si riflette nell’oblio della figura materna all’interno dell’assetto sociale e culturale maschile (di cui dicevamo all’inizio). Tuttavia, in questo modo l’originario legame con la madre non è realmente superato, ma semplicemente dimenticato.
Anche se non ne siamo consapevoli, noi uomini restiamo tentati dall’impulso nostalgico di riunirci alla madre, e insieme ci vergogniamo di questi desideri, dal momento che essi ci vengono presentati unicamente come un segno di debolezza, e cerchiamo perciò di combatterli opponendogli tendenze violente e ostili (tendenze che trovano forse una loro tragica manifestazione nella violenza quotidiana sulle donne). Questo conflitto irrisolto rischia allora di incancrenirsi in modalità patologiche, che vengono a costruire la struttura stessa dell’identità maschile.
Ma non c’è nessuna necessità che la differenziazione dal femminile-materno (pure necessaria) avvenga nella modalità del matricidio. Finché tuttavia non riconosciamo quel primo legame, quel debito originario che ci lega a nostra madre, non è possibile tagliare il cordone ombelicale senza ricorrere alla violenza. Ma allora, lungi dall’essere occasione festosa di differenza, la separazione dalla madre continuerà a perseguitarci con le sue Erinni. Il punto però è che la tradizione patriarcale non ci fornisce gli strumenti teorici e pratici adatti a vivere in modo pacifico quella separazione: per farlo ci mancano le risorse, perché quelle che abbiamo sono distorte da nostalgia, misoginia, paura.
Quelle risorse vanno cercate altrove. Risulta ancora una volta evidente la necessità per noi uomini di fare un passo indietro e aprirci al dialogo col femminismo: perché, da quando le donne hanno cominciato a pensarsi a partire da loro stesse, da quando hanno liberato l’universo materno dal segno negativo assegnatogli dalla tradizione maschile, nuove parole sono disponibili. Per un pensiero della differenza maschile, mettere a frutto quelle parole può allora significare l’elaborazione di un discorso finalmente sereno sulla nostra origine materna, capace forse di lasciarsi alle spalle la follia di Oreste.
(1) Luce Irigaray, Avvicinarsi all’altro come altro, in In tutto il mondo siamo sempre in due. Chiavi per una convivenza universale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006, pag. 67.
(2) J. Rutherford, Missing mothers, in Men & Mothers, “Achilles Heel”, n. 12, autunno 1991.
(3) Ora nella raccolta postuma di Autres écrits, Seuil, Parigi 2001.
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