Feb 2011 Violenza. Maschile plurale indaga la “questione maschile”
di Daniela Greco, su Delt@ Anno IX, n. 43 del 28 febbraio 2011
Lo scorso 24 febbraio al Palazzo della Provincia di Roma è stato presentato, nel corso di un dibattito, “Da uomo a uomo”, video realizzato da Michele Citoni e dall’associazione Maschile Plurale, che affronta il tema della violenza di genere non già nei termini di una “questione femminile” quanto piuttosto in quelli di una “questione maschile”, mettendo al centro dell’attenzione l’uomo: non lo straniero, non il deviante, ma molto semplicemente l’uomo.
Nonostante dati allarmanti (una donna uccisa un giorno sì e uno no) che dovrebbero comparire ai nostri occhi come il macabro biglietto da visita di un problema che non si può più evitare di affrontare alla radice, le origini culturali della violenza di genere sono il grande rimosso della nostra società.
La percezione sociale della violenza di genere, spiega Stefano Ciccone di Maschile Plurale, riguarda sempre e soltanto le sue dimensioni estreme, la violenza viene rappresentata come agita da maniaci, immigrati, devianti o come frutto di un raptus improvviso.
“Sono un uomo e vedo la violenza maschile intorno a me”, dicono gli uomini che intervengono nel video, ”tutto questo mi riguarda. Di fronte alle storie di mariti che chiudono le mogli in casa o le ammazzano di botte, di fidanzati che uccidono per gelosia le proprie ragazze, di uomini che aggrediscono o stuprano donne in un parco o in un garage, non penso: “Sono matti, ubriachi o magari i soliti immigrati!”, non mi viene da dire: “Quella se l’è cercata!”.
Nominare la violenza al maschile vuol dire effettuare un’operazione di altro tenore, vuol dire smontare la qualificazione della violenza di genere nei termini di una marginalità, non riconoscerle caratteri di eccezionalità o di straordinarietà.
Prendere da uomini la parola sulla violenza significa sottolineare che essa ha a che fare con la costruzione sociale dei ruoli sessuali, con relazioni tra i sessi strutturate sul potere, significa affermare che la violenza di genere non è qualcosa che semplicemente accade ma qualcosa che annida le sue radici in un sistema culturale basato su rapporti asimmetrici tra i sessi.
Mentre da un lato vengono rimosse e allontanate le radici culturali della violenza di genere, dall’altro questa è, al medesimo tempo, estremamente visibile. Ma si tratta di una visibilità che, in perfetta sintonia con la rimozione sociale del problema, ne disegna i confini in maniera non rispondente alla sua essenza più profonda.
E così se è vero che la violenza di genere viene costantemente messa sotto i riflettori, è parimenti vero che le luci puntate sulla scena del delitto preferiscono illuminarne solo aspetti da cronaca nera, meglio ancora se si tratta di delitti commessi da stranieri o da sconosciuti.
Tutto questo contribuisce a declinare la violenza di genere nei termini di problema di ordine pubblico, definendo lo spazio pubblico nei termini di un pericolo per le donne e creando le premesse per interventi securitari basati sulla repressione e su una buona dose di retorica anti-immigrazione, come ha affermato Elisa Giomi dell’Università di Siena, intervenuta nel dibattito e autrice di una ricerca avente ad oggetto il modo in cui sono state hanno riportate le notizie riguardanti la violenza di genere dai principali tg italiani nel secondo semestre del 2007.
Nel 2007 ben 162 donne sono state uccise per mano maschile ed il 61,7% degli omicidi di donne è stato compiuto dal partner o dall’ex partner della donna uccisa.
Ma a questo dato reale non corrisponde una uguale risonanza nel modo in cui la notizia è stata diffusa dai principali mezzi di informazione, anzi risulta essere proprio quella meno “notiziata” (40%), al contrario la violenza agita da uno sconosciuto è la meno diffusa (4,3%) ma la più “notiziata” (70%).
Ossia, sebbene per ogni donna uccisa da uno sconosciuto ne muoiano 12 per mano di un marito o di un compagno violento, le notizie che riguardano la violenza per mano di sconosciuti hanno un tasso di copertura sui media quadruplo rispetto alle notizie relative alla violenza che avviene dentro le mura domestiche.
E’ lecito allora domandarsi a quale obiettivo possa rispondere questa strategia di occultamento: a quale ripensamento radicale delle relazioni tra i sessi porterebbe l’emersione di un dato così inquietante?
Fa sempre parte della medesima strategia di rimozione sociale del problema il definirlo in termini di violenza agita da uno straniero, da qualcuno che è “diverso”, qualcuno che preferibilmente noi donne incontriamo quando ci avventuriamo di notte da sole su strade che le “brave ragazze” non dovrebbero percorrere senza lo sguardo protettivo di un uomo al fianco. E difatti non fa eccezione nemmeno il dato relativo alla violenza di genere agita da uno straniero, che sebbene sia pari al 13,8% ha invece avuto un tasso di copertura mediatica pari al 63,6%.
E così se l’autore della violenza è bianco e italiano viene codificato nei termini di alterità sociale, se è uno straniero meglio ancora perché così l’operazione di rimozione del problema si unisce ad un contemporaneo allontanamento dello stesso, collocandolo nei pressi di un’altra cultura “più violenta” e comunque “diversa” della nostra.
Tutto questo, unito alle politiche securitarie, contribuisce a creare una stigmatizzazione della violenza di genere nei termini di alterità, mantenendo così intatto, anzi rinsaldando proprio quello stesso ordine simbolico che invece la costituisce e la sostanzia.
Si crea un cortocircuito comunicativo che contribuisce ad allontanare sempre più la percezione maschile della violenza come “qualcosa che riguarda” gli uomini: la violenza di genere viene de-genderizzata e messa su un piano non autentico, lontano e in ogni caso estraneo.
Impossibile non mettere in relazione questi dati con la difficoltà maschile di prendere in carico il problema della violenza di genere: se è difficile per gli uomini dire che è qualcosa che “li riguarda”, a far loro da sponda trovano anche un sistema culturale che rimuove il problema, nascondendolo come si fa con la polvere sotto il tappeto.
Oltre a questi dati inquietanti, anche le campagne di comunicazione riguardanti la violenza vengono costruite e basate sulla donna, veicolando in tal modo, come ha sottolineato Ciccone, un’immagine di donna debole e fragile, da mettere sotto protezione. Una donna che viene invitata a denunciare la violenza e così implicitamente colpevolizzata: ancora una volta si spostano sulla donna i termini sulla questione, mentre il grande assente è proprio l’uomo, colui che questa violenza la agisce. L’uomo non c’è, è assente, è invisibile.
Fondamentale è allora, ha sottolineato Marco Deriu di Maschile Plurale, la progettazione di campagne di comunicazione sulla violenza di genere che si rivolgano agli uomini perché, come dicono quelli intervenuti nel video, la violenza contro le donne è qualcosa che “ci riguarda” e “non ci basta dire che siamo contro la violenza maschile sulle donne. Desideriamo e crediamo in un’altra civiltà delle relazioni tra persone, una diversa qualità della vita, libera dalla paura e dal dominio. Vogliamo vivere una sessualità che sia altro dalla conferma della propria virilità e del proprio potere”.
“Sono un uomo e vedo la violenza maschile intorno a me. Vedo anche però il desiderio di cambiamento di molti uomini. Al potere preferiamo la libertà”, dicono gli uomini di Maschile Plurale.
Una libertà che si gioca anche e soprattutto uscendo dai modelli sociali del maschile, che diventano una gabbia per gli stessi uomini, agendo un conflitto che sia di rottura con questi schemi e di costruzione di una nuova qualità delle relazione tra uomini e donne, quali soggettività autonome e desideranti.
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