Gen 2008 “Elogio dell’ironia. In quanto uomini”
di Andrea Bagni
In autunno mi è capitato di parlare con altri uomini in quanto uomini. Ci si confrontava con la manifestazione contro la violenza sulle donne, su una possibile “presa di parola” maschile sulla questione – visto che la violenza sulle donne è di sicuro un problema degli uomini, anche se lascia segni nei corpi vicini, quasi sempre nella tanto naturale famiglia. Segno di un non saper esistere nel confronto con la libertà delle donne, come soggetti parziali, cioè interi e umani.
Le parole scambiate in quanto uomini, però, hanno spesso qualcosa di buffo, forse perché non siamo abituati e ci manca il tono o il lessico, se non la grammatica. Potrebbe anche essere un bene a condizione che si riesca ad inventare qualcosa di nuovo. Ma a partire da cosa decente di noi stessi? Perché mica basta farsi carico della storia maschile, di potere sopraffazione gerarchia, e sprofondare in un senso di colpa di genere così generale da significare poco per i singoli; neppure imparare dalla “differenza delle donne” per ripetere pari pari il loro discorso, in modo che quasi scompare quella differenza, nell’imitazione. Invece riconoscere il percorso e l’autorità femminile sarebbe bello che conducesse a una riflessione su quello che siamo, che parta da noi per inaugurare (per quanto possibile) un’altra storia, alternativa alla genealogia del potere. E nostra.
Io vedo tutti i giorni a scuola ragazzi decisamente immersi in una crisi scolastica, specificamente maschile. Sono in crisi con la propria identità e non esclusivamente con i voti, ma non è facile parlargli solo di colpe maschili: non credo si muova qualcosa di buono a partire solo dal negativo di sé. Il punto di partenza potrebbe essere quello che si ha dentro di autentico: paura rabbia debolezze, e però anche desideri e possibilità. Desideri di libertà soprattutto. Libertà anche dagli stereotipi di potenza dei veri uomini. Forse la violenza maschile è figlia del terrore del perdere potere – o della rabbia dell’averlo perduto – come anche della paura dell’inventarsi fuori dalla gabbia dell’immaginario dominante e del dominio. Una gabbia, per quanto di lusso per chi si pensa carceriere, comunque inchiodato a un ruolo miserabile. Finisce che molti ragazzi appaiono schiacciati dall’incubo del non essere all’altezza. E forse dal non ambire per niente dentro di sé a quell’altezza. Magari vorrebbero essere come sono e basta. Però ci vuole coraggio. Hai un mare di paure e non le puoi dire, sei fragile e devi apparire forte, soffri per amore e non sta bene. E se decidi di parlare scopri che ti mancano le parole. Una lingua davvero comune. Come si fa a inventarsi, tentando di essere liberi, in questo deserto di relazioni altre, maschili.
Però c’è qualcosa che mi piace nei gruppi di ragazzi a scuola. Intanto sono gruppi (mi sembra) più protettivi di quelli femminili. Le ragazze, più serie ed impegnate, sono anche spesso molto competitive e sofferenti della competizione. E poi sono spesso buffi i ragazzi. Per loro sarei tentato di fare l’elogio dell’ironia. Le ragazze vivono crisi profonde, straordinariamente belle e straordinariamente drammatiche. Aspirano all’assoluto. E se non possono essere le prime, perfette, perfettamente adeguate alle richieste, spesso – nella società dell’abbondanza e dell’offerta – scelgono l’astinenza del rifiuto. L’assoluto del nulla. Desiderano non desiderare. Si danno malate alla vita e si sentono forti del controllo sulla propria assenza. Che finisce per essere il modo paradossale e drammatico per esserci. Per i ragazzi lo stile è completamente diverso. Sarà magari il nichilismo di cui scrive Galimberti o le passioni tristi di Benasayag, però il loro vuoto mi sembra molto più leggero: qualcosa con cui si può convivere. Non una cosa bella, ovviamente, però a me piace di alcuni l’ironia. Non sono belli, hanno corpi disarmonici e voci pure, non sono bravi e non sono “ganzi”. Il peso del corrispondere a certi modelli lo sentono e lo soffrono. Però non mi pare si prendano tanto sul serio e si difendono dal mondo della competizione spietata con il loro supremo obiettivo del sei meno meno – massimo sei e mezzo. Di più sarebbe da gente che ci tiene, che dà alla scuola qualcosa di profondo, di sé. Guai. Invece che il tutto o niente dell’anoressia-bulimia, del consumare totalmente il nulla, scelgono di galleggiare in gruppo sulle mezze misure, su quello che viene viene. È la scuola mica la vita. E anche la vita, che sarà mai. Dai belli della scuola si difendono con le battute, per essere intimi fra loro sembrano avere bisogno di oggetti esterni e si conoscono parlando sempre di altro da sé. Certo non è l’ideale. Tuttavia, forse, non possedere la lingua giusta per i sentimenti può lasciare le parole rare e preziose – può preservarle. Se volete provare l’orrore del linguaggio maschile “profondo” leggete gli striscioni allo stadio quando c’è da rendere onore a qualcuno: per sempre nei nostri cuori, guarda in alto verso il cielo, una stella eccetera. Dev’essere il “poetico” che apprendono a scuola. Allora l’ironia mi pare per i ragazzi una strategia di autodifesa decente. Non ti manda in pezzi. Non ti fa fare a pezzi gli altri. Le altre. Nell’attesa del trovare le parole, nuove e nostre.
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