Pubblichiamo questo saggio di Marco Deriu, che fa parte della nostra rete e che spesso ha cercato in questi anni, come altri di noi, di creare intersezioni e di scoprire interconnessioni tra le diverse forme di “crisi” che viviamo
Articolo ripreso da Comune-info
Marco Deriu, sociologo, ricercatore e docente presso l’Università di Parma. Fa parte dell’Associazione per la Decrescita e dell’Associazione Maschile Plurale. Questo saggio, tratto da Verso una civiltà della decrescita. Prospettive sulla transizione, curato da Marco Deriu e pubblicato nel 2016 da Marotta e Cafiero.
Le diverse crisi in corso costringono ad abbandonare certezze, immaginari, linguaggi e schemi cognitivi, a ripensare l’insieme delle relazioni sociali. Il punto di partenza restano tutte quelle forme di autorganizzazione, di autoproduzione, di scambio e condivisione diffuse ovunque con cui riduciamo la nostra dipendenza dal mercato e dalla Stato. “La decrescita non è una soluzione o una facile ricetta, ma è piuttosto un orientamento di fondo e un orizzonte di ricerca e sperimentazione… – scrive Marco Deriu – Da un punto di vista sociale ed educativo dovremmo concentrare i nostri sforzi su due aspetti, il disapprendimento, cioè il lavoro riflessivo di decostruzione e destrutturazione, e il pensiero creativo capace non solo di scarti e invenzioni ma anche di nuove sintesi…”
di Marco Deriu
«L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita e il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che la crescita della produzione sociale possa ancora condurre a un miglioramento del benessere, che essa sia materialmente possibile»[1]. Queste parole di André Gorz, scritte nel lontano 1977, oggi suonano ancora più attuali e azzeccate di allora. Per diverso tempo gli scienziati e gli studiosi che hanno evidenziato e discusso attorno ai danni e ai limiti della crescita sono stati bollati assieme di catastrofismo e di mancanza di realismo. Dopo anni di crisi economica, di aumento delle diseguaglianze, di precarizzazione del lavoro, di indebitamento, di indebolimento delle forme di garanzia sociale, con l’aggravarsi delle problematiche dell’inquinamento, del cambiamento climatico, dei conflitti per le risorse, con la forsennata ricerca di nuovi territori di profitto attraverso la capitalizzazione della natura, dei corpi e della vita stessa, il paesaggio è almeno in parte cambiato. Il sospetto che i paradigmi interpretativi e gli orizzonti valoriali emersi con la rivoluzione industriale e che si sono cristallizzati nel secondo dopo guerra nell’ideale della crescita economica siano ormai utensili inutilizzabili è un pensiero che inizia a diffondersi anche negli ambienti più convenzionali. Ma l’invenzione e la ricostruzione di paradigmi interpretativi differenti, richiede di accettare di abbandonare certezze e sicurezze che si appoggiano non solo a canoni disciplinari codificati ma anche a immaginari, linguaggi e schemi cognitividepositati nell’esperienza comune.
Ciò di cui discutiamo non è semplicemente una revisione dei modelli o delle politiche economiche ma piuttosto un ripensamento radicale del nostro modo di concepire la modernità, l’insieme delle relazioni sociali, l’idea di benessere e di benvivere, le logiche di fondo alla base dell’evoluzione tecnica e organizzativa e della costruzione di una democrazia politica.
La decrescita non è una soluzione o una facile ricetta, ma è piuttosto un orientamento di fondo e un orizzonte di ricerca e sperimentazione pratico e teorico[2]. Nel dibattito sulla decrescita convergono in effetti riflessioni maturate attorno a diversi ambiti e a relative crisi che si delineano nel nostro tempo: una crisi economica, una crisi ecologica, una crisi energetica, una crisi politica, una crisi sociale e culturale.
Interconnessioni
Le diverse crisi e problematiche sia di tipo ambientale che economico e sociale, sono fra loro interconnesse e si influenzano a vicenda ponendo tutta una serie di questioni e sfide alla politica. Quella che chiamiamo crisi ecologica ha profonde implicazioni politiche ed economiche perché altera e spesso compromette gli ambienti ecologici e sociali sui quali si fonda la vita e il benessere delle comunità.
Vediamo tre scene diverse, che riguardano l’estrattivismo, la crisi alimentare e il cambiamento climatico.
L’economia legata all’estrattivismo pone problemi non solo a valle, nel consumo e nelle emissioni ma anche a monte, nel prelievo di risorse. Quando pensiamo al petrolio noi sul piano ambientale siamo concentrati soprattutto sui danni che derivano dal consumo, per esempio della benzina e quindi dalle emissioni di CO2 e dall’effetto serra. Ma questo è solo una parte del problema. Il resto riguarda l’estrazione, lo sfruttamento, nonché la distribuzione. Le stesse attività di estrazione intatti determinano una distruzione dell’ambiente circostante, esplorazioni sismiche con dinamite, deforestazione, la contaminazione del terreno, delle acque superficiali, estinzione delle sorgenti d’acqua, danni alla flora e alla fauna che spesso fugge spaventata. Anche il trasporto del petrolio che richiede la costruzione di oleodotti determina un forte impatto ambientale. Sul piano sociale poi i danni sono ancora più immediati e visibili. Lo sfruttamento petrolifero, quando avviene in territori abitati, può determinare tutta una serie di violenze sulla popolazione locale. Le popolazioni locali possono essere deportate e represse, le comunità spesso sono distrutte nella loro organizzazione sociale, ecologica ed economica. Spesso ne nascono dei conflitti violenti tra governi, multinazionali e popolazioni indigene. Va anche notato che man mano che la pressione sulle risorse aumenta ed esse iniziano a scarseggiare, comincia una sempre più disperata ricerca di risorse in condizioni e con processi sempre più difficili, costosi e inquinanti che producono conseguenze sociali e politiche ancora più gravi[3].
Il petrolio non è peraltro l’unica risorsa chiave. Lo è e lo diventerà sempre di più anche l’acqua. Persino nei conflitti che affliggono attualmente Iraq e Siria, il tema dell’acqua sta diventando sempre più centrale, e gli osservatori politici sottolineano che il controllo delle fonti idriche finirà col divenire più importante del controllo delle raffinerie di petrolio[4].
Cambiando scenario, il collasso del patrimonio biologico sta avendo fra l’altra conseguenze visibili per esempio sulla disponibilità e sul costo del cibo (frumento, granturco, riso, mais, pesce ecc.). Negli ultimi anni si sono registrate sempre più spesso delle proteste e delle rivolte per questioni alimentari. Per esempio l’aumento del costo di riso, latticini, carne, zucchero e cereali è stato alla base di una forte ondata di proteste verificatasi tra il 2007 e il 2008, in paesi come Haiti, Messico, Nicaragua, Guatemala, Thailandia, Indonesia, Filippine, India, Bangladesh, Egitto, Yemen, Pakistan, Uzbekistan, Costa d’Avorio, Etiopia e gran parte dell’Africa subsahariana. In alcuni paesi come Haiti i prezzi dei prodotti alimentari sono saliti mediamente del 40 per cento in meno di un anno. Il riso è raddoppiato di prezzo. In Bangladesh tra il 2007 e il 2008 il prezzo del riso è raddoppiato a fronte di uno stipendio medio mensile di soli 25 dollari. Nello stesso periodo in Egitto i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 40 per cento.
Ma anche la scintilla delle diverse delle rivolte nel Maghreb e in altre zone del 2011, è venuta da una rivolta contro il peggioramento delle condizioni economiche, una crescita dei costi dei beni primari, in particolare alimentari, a fronte di un reddito piuttosto basso (7.100 euro lordi all’anno è il reddito medio in Tunisia, 4.665 euro lordi è il reddito medio in Egitto). Quello che è successo in questi ultimi anni nel Maghreb, in Africa e nel Medio oriente – mi riferisco alle rivolte in Algeria, Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Siria, Libia, Marocco, Arabia Saudita, Oman, Iraq, Sudan, Mauritania, Uganda – ci racconta ancora una volta della centralità delle risorse e del legame tra beni fondamentali nel nord e nel sud del mondo.
L’aumento fortissimo dei costi dei cereali e del pane e di altri beni alimentari tra il 2007 e il 2011 è il risultato di diversi fattori tra loro intrecciati:
– la crescita della popolazione mondiale e della domanda di questi beni. In particolare occorre tener conto del mutamento dei rapporti tra la popolazione urbana e quella rurale, nonché della trasformazione delle abitudini alimentari;
– il cambiamento climatico che produce un aumento della temperatura globale ma anche una estrema variabilità del clima stagionale con la produzione di fenomeni estremi;
– fenomeni locali come picchi di siccità o l’esaurimento degli acquiferi; per esempio nel 2012 una terribile siccità ha colpito Usa, Russia e Kazakhstan, riducendo del 3% il raccolto globale dei cereali;
– la diminuzione di suoli fertili sia per il fenomeno dell’erosione e della desertificazione che per l’espandersi dell’urbanizzazione e della cementificazione unito all’impossibilità in molte aree di estendere ulteriormente l’estensione delle terre coltivate;
– la crescita dei costi di investimento dovuti alla diffusione dell’agricoltura industriale e al fenomeno dei “brevetti” dei semi.
– fenomeni economici come l’aumento del prezzo del petrolio. In effetti la meccanizzazione dell’agricoltura (l’uso di macchinari agricoli a motore), l’uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti (derivati dal petrolio) e il costo della distribuzione dei cereali verso i mercati ha determinato una situazione in cui un qualsiasi aumento dei costi del petrolio fa scattare un aumento dei beni alimentari di base.
Si creano dunque dei circoli viziosi, con degli anelli di feedback negativo. Come ha scritto Michael Klare, «il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei generi alimentari».[5]
– Il tentativo di alcuni governi di diminuire la dipendenza dal petrolio e le emissioni di CO2 che contribuiscono al riscaldamento globale indirizzandosi verso le coltivazioni di biocarburante piuttosto che di cibo. Questo a sua volta, diminuendo le disponibilità, ha contribuito ad alzare i prezzi dei beni alimentari.
– Infine un ulteriore elemento da tenere in considerazione è stata la speculazione finanziaria alimentare. Negli ultimi anni con la liberalizzazione del mercato le banche, le finanziarie e i fondi di investimento, quindi gli investitori internazionali hanno fatto grandi speculazioni sui beni alimentari attraverso la compravendita di titoli (futures). Si stima che oramai oltre un 70 per cento degli scambi in questo mercato sia di tipo speculativo, ovvero fatto da persone che sono di fatto totalmente estranee alla produzione agricola.
Questo aumento dei costi dei beni alimentari primari come i cereali provoca a sua volta alcuni effetti a catena. In primo luogo accade che i paesi esportatori comincino a limitare le esportazioni per tenere più bassi i prezzi dei beni alimentari al proprio interno e questo produce una diminuzione della disponibilità di cibo e un problema di improvvisa scarsità nei paesi importatori con un più basso reddito.
Di fatto i rincari dei generi alimentari hanno spinto sull’orlo della denutrizione oltre 75 milioni di persone. Attualmente si calcola che circa 799 milioni di persone al mondo (il 18 per cento della popolazione mondiale) soffrano la fame. Cina a parte, la percentuale di persone in condizioni di insicurezza alimentare sulla popolazione è aumentata in diverse zone del mondo, dal Sud America dove nell’ultimo decennio è cresciuta del 19 per cento all’Asia dove è cresciuta del 9 per cento. Nella sola Africa il problema della fame investe fino al 35 per cento della popolazione.
L’aumento dei costi, la diminuzione delle esportazioni, la scarsità di cibo, l’aumento della fame, il sorgere delle proteste fa si che alcune nazioni cerchino di tutelarsi appropriandosi di terre in altri paesi, dando luogo così al fenomeno noto comeland grabbing. Questo naturalmente può creare nuovi conflitti e nuovi problemi di giustizia ambientale e sociale.
Secondo uno studio accurato di tre ricercatori[6] è possibile notare che quando il Food Price Index[7] della FAO raggiunge o supera l’indice di 210 è probabile lo scoppio di rivolte per il cibo. Non è un caso che un attento commentatore di questioni politiche e di conflitti Nafeez Mosaddeq Ahmed ha sottolineato che nel prossimo futuro le rivolte per il cibo potrebbero diventare la normalità della nostra vita.[8]
Tutto questo ci ricorda comunque la centralità del problema del cibo nei decenni a venire. Nei paesi occidentali gli effetti di questi cambiamenti generalmente si vedono in ritardo perché in una prima fase quello che viene intaccato sono le scorte, gli stock di riserva, ovvero il surplus della produzione per esempio cerealitica. Negli ultimi due decenni negli Usa come in Europa sono stati via via erosi i margini di sicurezza in questo campo. Come ha scritto Lester R. Brown, «Il mondo sta passando da un’epoca caratterizzata da una grande abbondanza di cibo a una di scarsità. Nel corso degli ultimi dieci anni, le riserve globali di cereali sono diminuite di un terzo. A livello mondiale i prezzi degli alimenti sono più che raddoppiati, stimolando una corsa planetaria ai terreni agricoli e ridisegnando la geopolitica del cibo. In questo nuovo periodo storico, il cibo è importante come il petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l’oro».[9]
Ora torniamo al tema del cambiamento climatico per sottolineare questa volta, che esso avrà numerose conseguenze sociopolitiche legate a questioni quali la carenze di scorte alimentari, l’acidificazione degli oceani, la diminuzione di disponibilità di acqua potabile, l’aumento della desertificazione e della salinità dei terreni, inondazioni causate da eventi climatici estremi, migrazioni di massa e profughi climatici, aumento dei conflitti per le risorse e infine moltiplicazione di occasioni di violenza in direzione di quelle che sono già state ribattezzate “guerre climatiche”. In sostanza i mutamenti climatici si tradurranno in un vistoso aumento delle catastrofi sociali che colpiranno fra l’altro in modo disuguale i paesi più ricchi e responsabili di questo stato di fatto e i paesi meno responsabili ma anche meno attrezzati a fare fronte ai disastri climatici. Noi non siamo abituati a pensare che queste emergenze possano colpire anche noi, ma uno studioso come Harald Welzer ci mette sull’avviso: «una fase di prosperità che ormai dura nei paesi occidentali da due generazioni fa si che si ritenga la stabilità ciò che è lecito attendersi e l’instabilità ciò che è da escludere. Se si è cresciuti in un mondo in cui non ha mai avuto luogo una guerra, non sono mai state distrutte delle infrastrutture a causa di terremoti, non c’è mai stata fame, si ritengono la violenza di massa, il caos e la povertà problemi che riguardano gli altri»[10].
In realtà quanto più governi e popolazioni dei paesi più inquinanti rimanderanno interventi e azioni volte all’autocorrezione e autolimitazione, tanto più le condizioni peggioreranno e la pressione per soluzioni rapide e drastiche si farà più intensa. Questo potrebbe stimolare l’uso della violenza. Uno studioso di diversa impostazione come Gwynne Dyer[11] ricorda come gli scenari legati al cambiamento climatico giocano un ruolo sempre più importante nella pianificazione militare delle grandi potenze. In altre parole sono le agenzie militari e di sicurezza le prime a basarsi su scenari realistici di tensioni o conflitti dovuti a mutamenti climatici.
Dunque su questo sfondo emergono i conflitti ambientali e i rifugiati ambientali, le guerre per le risorse, le guerre del cibo e dell’acqua, nonché le prime guerre climatiche. Insomma c’è un evidente correlazione tra questioni ecologiche, questioni energetiche, questioni economiche, questioni sociali e questioni politiche.
La crisi della politica non è solamente legata ad una semplice mala gestione delle risorse ma mette in evidenza quanto il tradizionale nazionalismo politico si scontri con un contesto ambientale che il più delle volte non corrisponde ai confini statali e che rappresenta un possibile ostacolo nell’affrontare problematiche ecologiche ampie e complesse. La crisi politica è anche una crisi che riguarda i rapporti tra generi e generazioni. I regimi democratici si rivelano incapaci nel loro funzionamento ordinario, costituito da scadenze elettorali, dalla competizione nello spazio pubblico, e dalla costruzione del consenso nel brevissimo periodo di incorporare una responsabilità intergenerazionale di più ampio respiro. Idee e prospettive di azione e rinnovamento relative e a risorse, clima, inquinamento si misurano anche con i limiti culturali dei nostri sistemi e delle nostre istituzioni politiche. È chiaro che oggi non possiamo più permetterci il lusso di affrontare un problema in maniera isolata non tenendo conto del contesto più ampio.
Oggi siamo chiamati a leggere e interpretare le interdipendenze tra fenomeni diversi e complessi quali le dinamiche del commercio internazionale, la disponibilità e il costo economico e sociale delle risorse, l’organizzazione del sistema agroalimentare globale, il consumo energetico, il problema delle emissioni di CO2, il riscaldamento climatico, l’erosione della biodiversità, i conflitti ambientali e le lotte per i beni comuni. Tutto questo chiama in causa il nostro stile di vita, le nostre abitudini quotidiane, il nostro rapporto con altri paesi e culture, e un sempre più inevitabile ripensamento delle relazioni sociali fondamentali tra uomini e donne di differenti generazioni.
In questo stesso potremmo dire che l’idea stessa di “crisi”, pur rimanendo imprescindibile, si rivela per molti aspetti inadeguata. In primo luogo perché come abbiamo visto queste crisi non si sommano semplicemente l’una all’altra ma si intrecciano e si rafforzano vicendevolmente fino a gettare le basi di una riconfigurazione complessiva. In secondo luogo perché non stiamo parlando di qualcosa di reversibile ma di qualcosa che segna un profondo momento critico, e probabilmente un punto di non ritorno. Certo possono essere possibili parziali rilanci, magari favoriti dalla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio, da nuove tecnologie, da nuove forme di sfruttamento o da speculazioni sempre più sofisticate. Questo potrà dilazionare i tempi ma non modificherà il senso della parabola che stiamo vivendo. Non sarà l’uscita dalla crisi che molti ancora sognano. In questa prospettiva il discorso sulla decrescita rappresenta un richiamo a rileggere quello che stiamo vivendo in termini più complessivi di Passaggio di civiltà. «La convinzione secondo cui tutte le società prima o poi seguiranno i modelli di sviluppo dei paesi della OECD si è rivelata nient’altro che un’illusione, e per giunta antistorica – ha notato Harald Welzer – : l’esperimento occidentale è in corso da duecentocinquanta anni e la fine di questo esperimento non segnerà certo la fine della storia»[12].
La questione è allora come ci poniamo di fronte a sfide di questo livello che richiedono non un diverso governo o una differente maggioranza politica, ma un ripensamento complessivo della nostra visione ecologica, sociale, economica e politica del mondo.
Tra paure e desideri di cambiamento
Come ha scritto Robert Engelman, presidente del Worldwatch Institute, «A meno che gli scienziati siano completamente fuori strada nella loro comprensione del mondo biofisico, sarebbe saggio oggi pensare a un “contenimento drastico” e rapido della domanda – che si voglia chiamare decrescita o semplicemente risposta adattativa a un pianeta ipersfruttato – per dirigersi verso un mondo davvero sostenibile che soddisfi i bisogni umani»[13]
La riflessione sulla decrescita si offre dunque come una discussione differente nella percezione della portata e della natura dei cambiamenti che dobbiamo affrontare. La proposta della decrescita è nata in opposizione a teorie ingannatrici come quelle dello sviluppo sostenibile. L’idea di sviluppo sostenibile ha avuto tanto successo perché va bene a tutti. Perché in fondo ci da l’illusione che possiamo continuare sulla stessa strada di sempre con qualche attenzione e cautela in più. Molti dei nostri discorsi, dei nostri saperi producono la stessa consolante illusione.
La parola decrescita è urtante, da fastidio. Ed è questo che la rende potente. Perché ci ricorda che non un sistema ma un’intera era è finita. Che la civilizzazione che l’ha caratterizzata è al collasso e che l’unica possibilità di immaginare un futuro vitale sta in un profondo cambiamento riflessivo. L’idea di decrescita contiene un richiamo ad elaborare questo lutto e a riconoscere la necessità di una radicale discontinuità. Qui ci scontriamo con i limiti della nostra immaginazione, ma la nostra ricerca sociale e politica dovrebbe focalizzare l’attenzione su questo.
Qualche tempo fa Ulrich Beck ha notato che «Le questioni principali delle teorie della società si riferiscono perlopiù alla stabilità e alla creazione dell’ordine e non a ciò di cui ci tocca di fare esperienza e che perciò dobbiamo comprendere: un mutamento epocale e discontinuo della società nella modernità»[14].
Mi sembra una buona intuizione che dobbiamo assolutamente sviluppare. In termini di ricerca occorre studiare e immaginare le forme di una discontinuità radicale e il possibile disordine tenendo conto insieme delle possibili o probabili dimensioni negative (conflitti per le risorse, guerre climatiche, rifugiati ambientali) ma anche creative (fantasia e reinvenzione, movimenti emergenti, economia solidale, iniziative di transizione, ecc). C’è un enorme possibilità di ricerca se solo apriamo le nostre menti alla consapevolezza riflessiva della estrema fragilità della nostra civiltà consumistica e se allarghiamo la nostra capacità di immaginazione.
Come ha notato Andrè Gorz «La decrescita è dunque un imperativo di sopravvivenza. Ma essa suppone un’altra economia, un altro stile di vita, un’altra civiltà, altri rapporti sociali. In assenza di questi, il crollo non potrebbe essere evitato se non a forza di restrizioni, razionamenti, allocazioni autoritarie di risorse, caratteristiche di un’economia di guerra. L’uscita dal capitalismo dunque avrà luogo in un modo o nell’altro, sarà civilizzata o barbara. La questione riguarda soltanto la forma che questa uscita prenderà e la cadenza secondo la quale andrà a realizzarsi»[15].
Da un punto di vista sociale ed educativo dovremmo concentrare i nostri sforzi su due aspetti, il disapprendimento (lavoro riflessivo di decostruzione e destrutturazione) e il pensiero creativo capace non solo di scarti ed invenzioni ma anche di nuove sintesi. Sono necessari entrambi.
Credo che l’aspetto più difficile di fronte a questa sfida sia come tener insieme il senso di urgenza e l’avvertito timore per le prove che ci aspettano, con il desiderio e la fiducia nella possibilità di cambiamento nonché la riscoperta di un rapporto diverso con noi stessi, con le nostre alterità, e con tutto il vivente.
La consapevolezza di un pericolo non coincide infatti con la motivazione al cambiamento. Come hanno notato Miguel Beanasayag, Gérard Schmit, «Se gli adulti si esprimono in termini di minaccia o di prevenzione-predizione, è senza dubbio perché pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. E poi, si dicono, “per quel che riguarda il desiderio e la vita, si vedrà dopo, quanto tutto andrà meglio”. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro. La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. […] La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescono ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano. Educare alla cultura e alla civiltà significava – e significa ancora – creare legami sociali e legami di pensiero»[16]. I due autori richiamano quelle che Spinoza chiamava le passioni gioiose. Occorre mostrare pratiche ed esperienze di relazione e di condivisione più potenti, ricche e desiderabili di quelle offerte dal consumo privato e dalla competizione.
Il successo crescente di manifestazioni come le Conferenze internazionali sulla decrescita (Parigi, Barcellona, Venezia, Lipsia, Budapest) dove si ritrovano persone da tutto il mondo per discutere delle strade di un cambiamento epocale costituisce uno dei tanti segnali di incoraggiamento. Dimostra che dentro le società ricche e sviluppate si sta facendo largo un movimento profondamente consapevole che la civiltà dell’accumulazione, del consumismo e della crescita si rivela oggi per quel che realmente è: una parentesi nella storia umana, un vicolo cieco evolutivo. L’idea della ricerca di una qualità della vita differente fondata sulla frugalità, sul fare con meno, non è più il patrimonio di una nicchia ma sta pian piano attraversando l’intero corpo sociale e diventando un patrimonio diffuso. Nel cuore delle società opulente ci sono persone che si impegnano in una riduzione dei consumi, in una trasformazione degli stili di vita, nella riscoperta di saperi artigianali e nella sperimentazione di nuove forme di riciclo e riuso; in un contesto di crisi del lavoro c’è un crescente ritorno all’agricoltura contadina e ci sono persone che inventano modelli di scambio, di condivisione, e forme di economia solidale; in un contesto di crisi energetica e di mutamento climatico comincia un ripensamento delle forme di mobilità tanto che negli ultimi anni in Italia come in altri paesi europei le vendite delle biciclette superano quelle delle auto. Nel 2012 per la prima volta in 26 dei 28 paesi dell’Unione Europea sono state vendute più biciclette che automobili.
Forse qui c’è un insegnamento da trarre. Quando pensiamo al cambiamento pensiamo alla sostituzione di una struttura con un’altra, ma fatichiamo a vedere la propensione, la tensione, la modificazione che stira e deforma il mondo di cui facciamo parte. Fatichiamo a parlare di decrescita nel momento in cui la crescita declina in decrescita. O del lavoro nel momento in cui il lavoro salariato muta verso forme di lavoro ibride e plurali. Dobbiamo invece vedere quello che sta emergendo di nuovo dentro il deperimento del vecchio. Attraverso tutte quelle forme di autorganizzazione, di autoproduzione, di scambio e condivisione si riduce pian piano la propria dipendenza dal mercato e si va lentamente ricostituendo una forma di “sussistenza moderna”[17]. Al momento si tratta di movimenti silenziosi, ma che presto – sotto la spinta di pressioni esterne – subiranno una forte accelerazione e il miraggio della crescita perderà rapidamente tutta la sua credibilità. Insomma ciò in cui siamo imbarcati con tutte le difficoltà e le sfide del caso non è il fatto di risolvere una crisi economica ma l’affrontare un vero e proprio passaggio di civiltà.
Il futuro non è ovvio
La prospettiva che si è delineata nelle ultime Conferenze internazionali sulla Decrescita (Parigi 2008, Barcellona 2010, Venezia 2012, Lipsia 2014, Budapest 2016) è quella di un movimento non solo capace di integrare percorsi e sensibilità differenti ma di offrire un orizzonte di pensiero culturalmente ampio e complesso da diversi punti di vista.
In primo luogo si tratta di mettere in relazione culture formali e istituzionalizzate tramite la ricerca teorica e scientifica e culture informali e autoprodotte in una miriade di esperienze dal basso. In questa prospettiva studiosi e studiose del mondo universitario, degli istituti di ricerca, o di realtà indipendenti, si incontrano e si confrontano con attivisti e attiviste, persone impegnate a costruire ogni giorno progetti, esperienze e pratiche concrete di cambiamento sociale, economico e politico. Riteniamo infatti che la ricerca teorica e le pratiche concrete debbano procedere attraverso uno scambio e un confronto continuo poiché linguaggi, saperi e immaginari producono cambiamenti profondi e pratici nelle nostre vite, mentre le esperienze, le prassi e le sperimentazioni sono di per sé impregnate di assunti teorici e producono continuamente nuove forme di riflessione e di conoscenza che vanno nominate e organizzate.
In secondo luogo l’orizzonte della decrescita si caratterizza per una pronunciata transdisciplinarietà. Quella della decrescita non è infatti una proposta semplicemente o principalmente economica. Anzi riteniamo che rinunciare al pensiero unico, o alle forme di riduzionismo significa anzitutto rinunciare a pensare per ambiti separati. Il mondo, la natura, le nostre vite non sono fatti di pezzi separati o di conoscenze separate e sconnesse. Abbiamo bisogno di un sapere plurale e polivalente che tagli, attraversi e intrecci discipline della vita e della terra, con discipline umane, culturali e sociali; discipline politiche ed economiche, con discipline del corpo, dell’arte e della comunicazione per realizzare quella che Gregory Bateson chiamava ecologia della mente o ecologia dei saperi[18] o che Roger Callois chiamava scienze diagonali[19]. Per affrontare le sfide che ci attendono abbiamo cioè bisogno di un sapere delle relazioni e delle interconnessioni.
La stessa parola “decrescita” non è una categoria che si può utilizzare ovunque ed essere spacciata come nuovo paradigma universalista. Questa parola nasce dalla storia dell’Occidente e parla in primo luogo del passaggio di civiltà che occorre fare in questa parte del mondo per ritrovare le forme di una vita buona, conviviale e soddisfacente. Ma la ricerca della buona vita si nutre di percorsi plurali. Ha bisogno di parole e visioni diverse a seconda dei territori, delle culture, delle condizioni di vita: a seconda dei luoghi si può chiamare decrescita, buen vivir, rigenerazione, sussistenza, ecc. Come ha scritto Serge Latouche: «Si potrà chiamare umran (realizzazione) come in Ibn Khaldun, swadeshi-sarvodaya(miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, botaare (star bene insieme) come tra i toucouleur, o fidnaa/gabbina (dispiegamento di una persona ben nutrita e libera da ogni preoccupazione) come tra i borana d’Etiopia, o semplicemente sumak kausai (vivere bene) come tra i quechua dell’Equador»[20].
Per questo motivo dobbiamo pensare al percorso da compiere nei termini di un incontro di soggetti, reti, movimenti e filoni di pensiero differenti e plurali che propongono un’idea di transizione, di trasformazione, di giustizia, solidarietà e sostenibilità che a nostro avviso si possono incontrare e confrontare anche criticamente con le idee della decrescita: le prospettive della sussistenza e del dopo sviluppo, i movimenti per la transizione, i movimenti ambientalisti, il femminismo e l’ecofemminismo, l’associazionismo culturale e sociale, i centri sociali, l’economia ecologica, il pensiero della complessità, le reti dell’Economia solidale, i movimenti per il consumo critico e il cambiamento di stili di vita, le esperienze dei Forum Sociali, i movimenti per l’Acqua pubblica, per i beni comuni, i movimenti contro il consumo di suolo, i movimenti per la riduzione dei rifiuti e per la salute ambientale, i movimenti per la sovranità alimentare, Slow Food, I movimenti per la giustizia ambientale, la Teologia della Liberazione e movimenti di impegno religioso, i movimenti per la democrazia partecipativa, i movimenti per il ripensamento del lavoro ecc.
Ci auguriamo che tutte queste esperienze possano contaminare e arricchire la riflessione sulla decrescita e che la proposta della decrescita possa contaminare e arricchire queste esperienze. Se vogliamo riuscire a dar vita a un movimento capace di cambiare davvero il mondo in cui viviamo, di realizzare una grande transizione verso una società più equa, solidale e sostenibile, abbiamo assolutamente bisogno di confrontarci con questa pluralità e più in generale con le differenze che abitano tra noi: differenze sessuali e di genere, di generazioni, di culture, di storie. Lo spirito che ci deve muovere non è quello di chi cerca di incontrare l’identico ma di chi vuole ascoltare e dialogare ricercando relazioni, connessioni e convergenze a partire da una comune tensione per un mondo migliore. Il futuro non è ovvio. In verità stiamo partecipando ad un movimento di trasformazione più grande e più profondo, che ora possiamo solamente intuire e che infine ci cambierà tutti.
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NOTE
[1]André Gorz, Ecologia e libertà, Éditions Galilée, Paris, 1977; trad. it., Ecologia e libertà, a cura di Emanuele Leonardi, Orthotes, Napoli, 2015, p. 40.
[2]La letteratura internazionale sulla decrescita è molto vasta e impossibile da riassumere. In lingua italiana si possono vedere fra l’altro: Jean-Louis Aillon, La decrescita, i giovani e l’utopia. Comprendere le origini del disagio per riappropiarci del nostro futuro, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2013; Denis Bayon, Fabrice Flipo, Francois Schneider, La decrescita. 10 domande per capire e dibattere, Asterios, Trieste, 2012; Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Marx e la decrescita. Perché la decrescita ha bisogno di Marx, Asterios, Trieste, 2010; Emiliano Bazzanella, Oltre la decrescita. Il tapis roulant e la società dei consumi, Asterios, Trieste, 2011; Jean-Claude Besson-Girard, Decrescendo cantabile. Piccolo manuale per una decrescita armonica, Jaca Book, Milano, 2007; Bruna Bianchi, Paolo Cacciari, Adriano Fragrano, Paolo Scroccaro, Immaginare la società della decrescita, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2012; Mauro Bonaiuti (a cura di), Obiettivo decrescita, Emi, Bologna, 2006; Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2013; Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Carta/Edizioni IntraMoenia, Napoli, 2005; Paolo Cacciari, Decrescita o barbarie, Edizioni Carta, Roma, 2008; Alain De Benoist, Comunità e Decrescita. Critica della ragion mercantile, Arianna Editrice, Bologna, 2006; Paolo Ermani, Valerio Pignatta, Pensare come le montagne. Manuale teorico pratico di decrescita per salvare il Pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2012; Giuseppe Giaccio, La decrescita. Un mito post-capitalista, Diana, Frattamaggiore, 2013; Angela Giustino Vitolo e Nicola Russo, Pensare la crisi. Crescita e decrescita per l’avvenire della società planetaria, Carocci, Roma, 2013; Anselme Jappe, Serge Latouche, Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione, Mimesis, 2014; Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007; Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008; Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita, Dedalo, Bari, 2009; Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, Torino, 2011; Giovanni Mazzetti, Critica della decrescita, Edizioni Il Punto Rosso, Milano, 2014; Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2005; Maurizio Pallante (a cura di), Un programma politico per la decrescita, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2008; Maurizio Pallante, Meno è meglio. Decrescere per progredire, Bruno Mondadori, Milano, 2011; Valerio Pignatta, L’insostenibile leggerezza dell’avere. Dalla decrescita alla pratica: la decrescita nella vita quotidiana, Emi, Bologna, 2009; Nicolas Ridoux, La Decrescita per tutti, Jaca Book, Milano, 2008; Filippo Schillaci, 2013, Un pianeta a tavola. Decrescita e transizione alimentare, Edizioni per la decrescita felice, Roma; Fabrizio M. Sirignano, Pedagogia della decrescita. L’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano, 2012; Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragrano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel, Decrescita. Idee per una civiltà post-sviluppista, Sismondi Editore, 2009.
[3]Fra le altre cose si pensi anche al tema emergente dei terremoti stimolati dalle nuove tecniche di estrazione degli idrocarburi, come il fracking.
[4]Cfr. John Vidal, “La guerra per l’acqua”, (The Guardian)Internazionale, n. 1059, 11 luglio 2014, p. 18-19.
[5]Michael Klare “Il circolo vizioso”, Internazionale n. 891, 1 aprile 2011, p. 39.
[6]Marco Lagi, Karla Z. Bertrand, Yaneer Bar-Yam, “The Food Crises and Political Instability in North Africa and the Middel Est”, New England Complex Systems Institute, http://necsi.edu/research/social/food_crises.pdf
[7]L’indice FAO è una media dei prezzi globali di cereali, olii, carne, latticini e zucchero,
[8]Nafeez Mosaddeq Ahmed, “Why food riots are likely to become the new normal“, The Guardian, march 6, 2013, http://www.theguardian.com/environment/blog/2013/mar/06/food-riots-new-normal
[9]Lester R. Brown, 9 miliardi di posti a tavola. La nuova geopolitica della scarsità di cibo, Edizioni Ambiente, Milano, 2012, p. 35.
[10]Harald Welzer, Guerre climatiche, Asterios, Trieste, 2011, p. 207.
[11]Gwynne Dyer, Le guerre del clima, Tropea, Milano, 2012.
[12]Welzer, op. cit, p. 239.
[13]Robert Engelman, “Oltre la sosteniblablablà”, in Worldwatch Institute, State of the World 2013. È ancora possibile la sostenibilità?, Edizioni Ambiente, Milano, 2013, p. 49.
[14]Ulrich Beck, Disuguaglianze senza confini, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 31-32.
[15]André Gorz, “L’uscita dal capitalismo è già cominciata” in Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009, p. 33.
[16]Miguel Beanasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 63.
[17]Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli Editore, 2005, p. 78.
[18]Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000.
[19]Roger Caillois, L’occhio di Medusa. L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello Cortina, Milano, 1988.
[20]Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, 2011, p. 122.