Giu 2007 “Differenti voci maschili per costruire relazioni di libertà”
Resoconto dell’incontro nazionale uomini del 9 giugno a Bologna
Alla fine della mattina si contano una sessantina di persone, molte delle quali in rappresentanza di gruppi o micro-gruppi. Se in questo incontro politico le donne sono le dita di una mano – ma ovviamente graditissime – stavolta non è per antiche discriminazioni ma perché questo appunto è un “incontro uomini”. Come emergerà dal dibattito una delle idee portanti è che i maschi debbano parlare fra loro di sessualità e amore, di genere ed erotismo, di patriarcato e «pensiero della differenza», di poteri e di saperi che al dominio maschile sono collegati o contrapposti: senza rimozioni ma anche senza il paravento del femminismo o quello, che tanto eccita i massmedia, del maschio in crisi depressiva.
Insomma qualche forma di “auto-coscienza” è comunque necessaria, per pensare un nuovo “modello maschile” occorre rompere anche quel modo di comunicare fra uomini che è fatto di clamorose omissioni e/o bugie sul personale.
Sandro Bellassai è velocissimo nel presentare la giornata. «Credo ci serva una discussione circolare non autorevoli relazioni… La violenza contro le donne è il punto di partenza per un discorso che entri all’interno delle questioni di genere e dei poteri».
L’Assessora alle Pari Opportunità Simona Lembi porta il saluto della Provincia (si è ospiti in una sua sala). «Lo dico come assessora e come donna: c’è una forte attesa per questi temi. Nell’anno delle pari opportunità giriamo lo sguardo al passato e vediamo che le elette in Italia nel 1946 erano il 7%, che negli anni ’80-’90 si completa il sorpasso della scolarità femminile su quella maschile. Eppure, secondo l’Istat, sul 77% delle donne ricade ancora il peso delle intere faccende domestiche perché molti uomini considerano poco virile l’occuparsene. Noi abbiamo lanciato una campagna intitolata “Papà coraggiosi” per quegli uomini che non rinunciano a occuparsi dei figli». Come in una sceneggiatura di ferro – invece è l’ironia della vita – il figlio di Simona si mette a piangere e lei deve cullarlo.
Jones Mannino è del gruppo Maschile Plurale di Roma. Racconta come si è arrivati a quest’incontro e perché. «È insopportabile che i media raccontino le violenze sessuali sulle donne come una devianza maschile, magari dei non-occidentalizzati (e cita Francesco Merlo su «La repubblica») quando purtroppo il fenomeno è invece diffuso in ogni Paese, cultura, classe. A Roma il nostro percorso comincia l’8 marzo 1985 con un volantino del movimento studentesco romano, poi l’impegno crebbe nel movimento nonviolento e pacifista. Il tema della violenza non deve però esaurire il discorso sull’identità maschile e sulla sessualità, sul desiderio, sulla qualità delle relazioni (anche fra uomini), sul rapporto con i figli, sulla cultura patriarcale e sulla economia di guerra. Leggere le riflessioni su questi temi di donne e uomini ci ha aiutato, ma importante è anche il lavoro di auto-coscienza nei piccoli gruppi. E’ comunque importante questo incontro fra generazioni e culture differenti su questioni che riguardano così intimamente le nostre vite e relazioni».
Sandro Bellassai chiede a Beppe Pavan di Pinerolo (dove da anni esce il foglio «Uomini in cammino») di raccontare insieme questa “galassia” di piccoli pianetini e la sua esperienza. «Ero un sindacalista molto impegnato negli anni ’70, ma mia moglie mi fece capire che oltre a sovvertire il mondo dovevo cambiare anch’io perché il nostro rapporto era in difficoltà. Intuii che aveva ragione. Presi a studiare il femminismo, il pensiero della differenza. Eppure ci ho messo 18 anni a parlarne con altri uomini, a Pinerolo c’è oggi un piccolo nucleo fisso – una dozzina di persone – ma intorno al gruppo circola in qualche modo un centinaio di persone, inizia a uscire il nostro foglietto mensile, poi anche in versione on-line. Scopriamo che esistono altri uomini e micro-gruppi in Italia e nel ’99 organizziamo a Pinerolo un incontro nazionale… in realtà arrivano persone solo da 7 città, tutte del Nord salvo Cagliari.
Dal 2001 ci siamo sempre visti, salvo un anno, in un campo estivo di riflessione ad Agape». Beppe evidenzia che uno degli aspetti è come allargare la rete. Racconta un episodio divertente, poi richiama l’impegno verso i “cuccioli”, cioè come si allevano i figli.
Ricorda l’esperienza di Stella Bertuglia a Palermo con studenti anche giovanissimi che si appassionano a questi temi. Ancora sottolinea Beppe che per chi, come lui, viene da un’esperienza di fede c’è il retaggio pesantissimo di una religione maschilista. Infine «io sono molto felice di questa esperienza, a volte mi è difficile far capire quanto mi ha arricchito, ma è così ed è importante dirlo».
Prende la parola Orazio Leggiero e racconta di aver fatto 700 chilometri (viene da Monopoli) pur di essere qui. «Quando lessi l’appello non credevo ai miei occhi… Finalmente. Ora ne sto discutendo con uomini della mia zona disposti a entrare in relazione anche con la rete di donne “Aspettare stanca”… Grazie di questo regalo».
Mette alcuni nodi sotto il riflettore Stefano Ciccone. Il primo è come sottrarsi alla rozza immagine giornalistica di maschi depressi e/o masochisti-penitenziali per ribadire che «la libertà femminile non è una minaccia per gli uomini, anzi è una opportunità storica». Allo stesso tempo nota Ciccone bisogna prendere le distanze dalle posizioni revansciste. Cita per esempio la legge sull’Affido condiviso che è passata in gran parte sotto silenzio e si chiede come fare ad ascoltare quel bisogno di relazione con i figli senza dar spazio ad un revanscismo maschile contro i diritti delle donne. Bisogna poi entrare nel merito della percezione maschile del proprio corpo e del proprio desiderio perché nella scissione con il proprio corpo, nella rappresentazione della corporeità come luogo basso c’è una delle radici della violenza. Il corpo diventa un qualcosa da imporre perché non desiderabile. Allo stesso modo bisogna «ragionare di desideri che non siano solo violatori e violenti… Mi pare sbagliato trincerarsi dietro l’idea che gli uomini siano violenti per natura e debbano solo disciplinarsi, civilizzarsi. Lo slogan del “fiocco bianco” (il 25 novembre per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne”) diceva: “I veri uomini non picchiano le donne” e a me sembrò ambiguo e contraddittorio perché richiamava ad un disciplinamento virile del proprio corpo». E insiste Ciccone sulla necessità di un rapporto politico fra donne e uomini nella reciproca autonomia, anche sui punti di conflitto. Infine paventa il rischio che la nostra presa di posizione pubblica sulla violenza diventi come per le stelle di Natale contro il cancro, ovvero un tema pacificato, perché siamo tutti contro la violenza. A persone famose e soprattutto a politici non dovremmo dare la scappatoia di firmare una dichiarazione di principi, ma dobbiamo chiedere un’adesione a impegni precisi. «La questione è quella di aprire conflitti anche tra noi uomini con le persone che incontriamo quotidianamente. Non è facile, nell’università dove lavoro questo mio impegno viene considerato come una stranezza che toglie autorevolezza al mio ruolo».
Fa il giornalista «e se ne rattrista 200 giorni l’anno per le schifezze dei miei colleghi e per quello che non riesco a fare». Così esordisce Daniele Barbieri che si presenta e poi tocca rapidamente due punti. «Esiste un coraggio che non sia esibizione di muscoli e violenza: dobbiamo ragionarne quando e come metterle in campo per esempio contro i produttori di sessismo, in testa i vari Truce & Gabbana della pubblicità. Nelle nostre discussioni si avverte l’assenza di interlocutori migranti e/o di altre culture e invece dobbiamo sforzarci di costruire luoghi d’incontro per due ragioni: perché è importante confrontarsi con altre idee di erotismo e seduzione, con paure e forme di maschilismo ora simili e ora diverse dalle nostre, ma c’è anche l’uso politico e razzista delle differenze, il tentativo di fare degli stranieri l’orco, rigettando su loro ogni colpa e purificando noi occidentali».
Roberto Poggi del gruppo “Il cerchio degli uomini” spiega che a Torino esistono due micro-gruppi attivi dal ’98: ognuno con 8-10 persone fisse, ma attorno a questi sono passati 120 forse 150 uomini. «Il nostro gruppo non nasce da un percorso politico ma da un percorso tra noi. Il cambiamento ci è piombato addosso prima ancora d’accorgercene. Per noi la questione era rompere con l’ordine patriarcale, con l’autorità dei Padri. Ci siamo confrontati con donne in questo senso. C’è stata una rottura che ha significato per tutti noi – in modi diversi – la possibilità di scoprire modi e modalità di vita diversi. I percorsi che ci hanno portato a riflettere tra uomini sono stati percorsi diversi, mistica, psicoanalisi, lavori di gruppo, sul corpo ecc… Le persone che arrivano al nostro gruppo sono assai diversamente motivate e consapevoli. Ci pare che i temi urgenti siano tre. La violenza contro le donne e il rimosso maschile che l’accompagna. La necessità di ritornare a discutere sul ruolo del padre e sul ruolo di cura più in generale. Infine come riallacciare i legami fra generazioni. In una scuola di Torino dove siamo stati presenti, dopo un fattaccio di cronaca, abbiamo incontrato un clima di prevaricazione diffusa».«Non vedo slegato il discorso sull’identità da quello contro la violenza».
Sandro Casanova partecipa da un anno al gruppo Maschile plurale bolognese. «Questo è un percorso può aiutarmi nella qualità di vita, che può aiutare anche me stesso». Tuttavia aggiunge, «credo che, al di là delle buone intenzioni, anche fra molti di noi, anche nel nostro gruppo, l’omosessualità resta un problema. La violenza non è solo quella fisica è legata anche al gesto o alla parola quotidiana. Non si tratta di un’isola protetta e voglio che questo confronto continui anche dopo, quando usciamo insieme. Insomma dobbiamo fare i conti seriamente con l’omosessualità. Poi non credo che un chiaro no pubblico alla violenza sulle donne sia così scontato e facile come alcuni hanno detto. Lavoro con la scuola di pace di Montesole e credo molto nell’attività pedagogica. Negli adolescenti vengono fuori delle cose…. Delle castronerie riguardo alle relazioni tra i generi, che non avete idee. Non è un tema assolutamente pacificato». «Francamente all’inizio il vostro appello mi lasciò molto indifferente. Non sentivo il tema della violenza alle donne in particolare. Sentivo la necessità di un discorso più generale sulla violenza del potere».
Giuliano Compagno da Roma, esperienze in Amnesty e negli Alcolisti Anonimi; è scrittore di professione. Racconta degli choc nella sua formazione adolescenziale: il delitto del Circeo nell’ottobre del 1975, l’omicidio del dodicenne Ermanno Lavorini nel 1969, l’omicidio-suicidio del conte Casati. Si riallaccia quindi all’intervento di Ciccone. «Mi interessa il discorso sulla crisi del maschile come crisi dell’identità maschile e del corpo. Si tratta della difficoltà di trovare una differenza maschile fondata sul corpo. La cosa che ammiro del femminismo è questo processo di appropriazione e di identificazione con il proprio corpo. Noi maschi facciamo i conti con un corpo povero. La possibilità di diventare più ricco, si porta con sé la rinuncia alla storia viriloide. E quando qualcuno, anche uno psicanalista di grido (Claudio Risè) torna a dirci: “Abbiamo perso tante battaglie, dunque torniamo al fallo”, mi sembra assurdo. Dobbiamo arricchire invece il nostro corpo. Vedo però con preoccupazione che moltissime giovani donne rivalutano l’archetipo del macho».
«Nel mondo maschile il tema dell’omosessualità va vista come arricchimento anche nella capacità di portate fuori problemi nel rapporto con la propria identità – sottolinea nel proprio intervento Massimo Greco, romano, del gruppo Maschile plurale. La lesbica violentata o l’omosessuale del gruppo che crea conflitti, queste cose possono farci riflettere. Le difese, le resistenze, le troviamo anche tra di noi, tra persone colte che hanno riflettuto. Questo è un campo di prova importante. Poi non bisogna pensare alla donna come soggetto debole, che necessità di una tutela. Dobbiamo pensare a come la società costruisce dei paradigmi di vulnerabilità. Questi paradigmi di vulnerabilità cambiano. Per questo non dobbiamo trovare delle risposte conclusive perché le risposte che possiamo aver dato noi non vengono riconosciute dalle nuove generazioni. Dobbiamo invece tramandare un processo, un atteggiamento rivolto ai come confrontarsi con la vulnerabilità».
«Sono fra quelli che considerò importante in quel momento un appello pubblico» ricorda Alberto Leiss. «Ora non possiamo ripetere l’esperienza dell’esodo compiuto dalle femministe, ovvero la separazione delle donne dal mondo maschile. Non possiamo prescindere dal fatto che viviamo in un modo che è fatto da una cultura e da pratiche maschili. Si tratta di leggere questa crisi. Quando vedo la crisi della politica credo che abbia a che fare con gli uomini che la fanno. Quando vedo l’interventismo contraddittorio da parte della Chiesa cattolica, credo che ci sia la preoccupazione di non affrontare un mondo che è venuto meno. C’è paura. Quindi c’è il tentativo di rispondere recuperando valori della tradizioni, quando l’identità maschile era più forte. Il mio modo di rispondere è quello di tenere aperta una riflessione. Anche l’esaltazione della famiglia tradizionale è una via senza uscita che recupera acriticamente il passato. Che fare? Dovremmo cercare, in forme condivise, di portare queste riflessioni ovunque sia possibile. Se serve prendiamoci tempo, scriviamo, rafforziamo la nostra riflessione in relazione con le donne. Gesti pubblici, anche eclatanti, servono, ma soprattutto se mostrano che si possano costruire relazioni nuove».« Trovo molto interessante il vostro discutere. Tuttavia quando parliamo di donne, chiariamo di chi stiamo parlando.
Non tutte le donne amano il macho» esordisce Natalìa Parmigiani. «Inoltre secondo me bisogna fare attenzione agli strumenti: a me l’appello pare una forma vecchia che procura molte firme e poco impegno. Bisogna cercare altre pratiche che coinvolgano di più le coscienze. Ci vuole più pazienza e più tempo, non cercate strade eclatanti ma che coinvolgano di più».
«Insegnante e ho fatto molta politica, vivo a Pesaro»: così si presenta Aldo Amati. «Ho scoperto da poco l’esistenza di questi gruppi. Ho intravisto la necessità del ripensamento degli uomini su se stessi, come strumento indispensabile, perché le grandi potenzialità del movimento di liberazione delle donne non potranno compiersi se il mondo maschile resta in crisi. Dunque sento il bisogno che un movimento che c’è già, che è nato, che sta crescendo, che riesca ad incidere sulla vita pubblica. Ha ancora senso fare gruppi di uomini che parlano tra di loro e per loro? Per me ha senso. Parlare con le donne è importante ma dobbiamo prima costruire la nostra esperienza di uomini nuovi. Non abbiamo nemmeno il linguaggio. Per esempio non possiamo dire movimento maschilista simmetricamente a femminista. C’è bisogno di un lavoro, anche di un’elaborazione intellettuale»
«Io sono venuto con alcuni desideri», dice Gianni Ruocco del gruppo di uomini dell’associazione Grecam (Roma, Cagliari, Sassari), «incontrare altri uomini che fanno un percorso, che hanno una messa in discussione, che hanno l’obiettivo comune di incontrarsi. Anch’io sono rimasto molto perplesso dallo strumento della petizione. Per me è stato importante avere incontrato il gruppo uomini. Non credo che la politica possa cambiare se non cambia la relazione che vi sta alla base. Non cambia se non combatto la separazione, tra parte emotiva e razionale, la divisione tra persone, le forme maschili della gerarchia, della competizione. Io anche nel lavoro mi trovo bene nelle situazioni in cui c’è una forma orizzontale. Questo è il tipo di lavoro fondamentale che più mi interessa e che mi ha spinto qui. Mi piacerebbe che ci fosse la possibilità di conoscere meglio i gruppi e discutere sul metodo, come modo di stare al mondo».
«Per me si tratta di uscire dal problema della contrapposizione – nota Grazia Lesi – Si tratta di lavorare sul rispetto, sul vedere l’altro come persona. La conoscenza deve avvenire su un piano di conoscenza e non di contrapposizione. Vorrei portare alla vostra attenzione il problema della violenza sulle donne immigrate. Nella maggior parte dei casi si tratta di violenze di italiani. Io credo che se non usciamo dal problema del potere non usciamo neanche dalla questione della violenza».
Michele Poli fa parte del gruppo Maschile plurale di Bologna e si interroga su cosa hanno significato questi quattro anni di attività. «Uno dei punti fondamentali è quello di dire, di raccordarsi, di uscire dal silenzio e anche dalla solitudine. Questa è la questione fondamentale e anche la più immediata per fare passi futuri. Raccontarsi e permettere ad altri di raccontarsi. La parte più difficile è quella cui accennava Stefano. Permettere il conflitto nelle relazioni tra gli uomini. Io ho sempre cercato di evitare il conflitto, di trovare strategie per evitare il conflitto. Per gli uomini e per me è difficile stare in una situazione in cui le idee e corpi diversi si confrontano. Il problema è accogliere le diversità. Si tratta anche di accogliere il maschile più negativo e bisogna un po’ aprire il nostro grand’angolo e avere uno sguardo che possa anche accogliere il maschile più negativo. Perché parte di questo è anche dentro di noi, di me. Altrimenti resterebbe un discorso ideologico. Io credo molto nelle iniziative tipo appelli e cose varie, anche se credo che l’ossatura portante debbano essere le relazioni dirette».
Gianfranco Proietti del gruppo Maschile plurale di Roma interviene per riprendere la riflessione sulla corporeità. «La relazione tra corpo e spirito, tra corpo e mente è una cosa che sento molto. È centrale la riflessione maschile sulla corporeità. Trovo importante partire dal riconoscimento dei bisogni del nostro corpo. La nostra mente è incarnata nel nostro corpo e siamo corpo. Ma se siamo corpo siamo anche un’altra cosa. Siamo anche cultura. La nostra maschilità è dominata dalle rappresentazioni sociali. Dobbiamo liberarcene e inventarne delle nuove. Per esempio dobbiamo riflettere sul significato dello sperma nelle varie culture. Per il mondo islamico lo sperma è qualcosa di schifoso che va espulso. Per il mondo buddista va controllato e risparmiato. Il confronto tra cultura tocca elementi molto differenti». Poi aggiunge una considerazione sul tema della violenza maschile: «L’uomo è violento perché è solo o è solo perché è violento? Alla base di qualsiasi tipo di violenza maschile va associata con la solitudine in cui il violento è preso. Con questo non propongo uno sguardo di compiacimento e di accondiscendenza ma soltanto di riconoscere questa condizione di solitudine».
«Sono approdato a queste riflessioni attraverso un percorso di riflessione sulla mia parzialità» racconta Angelo Patone che lavora al Ministero delle Pari Opportunità a Roma. «Non faccio parte di nessuna associazione e non ne voglio fare parte. Voglio fare questo percorso scegliendomi gli interlocutori. Io sono arrivato a voi attraverso l’appello. Fuori di noi c’è un vasto insieme di persone che non abbiamo raggiunto. È ora che si costruisca con il ministero una campagna fatta da uomini e rivolta agli uomini». Poi conclude sottolineando l’importanza di un lavoro pedagogico nelle scuole per “formare alle differenze”.Il dibattito di oggi dimostra che dietro l’appello c’è un percorso che va nella direzione proposta da Natalìa – sottolinea Jones Mannino – C’è una tensione permanente tra il percorso di cambiamento personale e il desiderio di iniziative pubbliche.
Questa tensione c’è sempre. Anche quando faccio l’appello. «A scuola sono tutti d’accordo sull’affrontare il tema della violenza, ma ci sono fortissime resistenze quando si vuole ragionare sulle cause e sui contesti» – sottolinea Massimo Marzano, insegnante di Bologna. Tra i miei studenti il corpo è vissuto solo come fattore estetico; c’è una fortissima ignoranza, ad esempio, sulle malattie veneree. Credo che la sfida sia quella di costruire percorsi sui problemi dell’identità di genere».
«Il tema centrale della nostra riflessione è quello della libertà femminile» sottolinea nel suo intervento Marco Deriu che fa parte di Maschile Plurale e del Circolo della differenza di Parma. «Che cosa significa l’avvento della libertà femminile nelle nostre vite e nelle nostre relazioni? Una parte degli uomini ha accolto questo passaggio, l’avvenire della libertà femminile e la crisi dell’ordine patriarcale come momento di liberazione anche per sé. Altri però stanno vivendo questo passaggio con un senso di minaccia. Credo che questo sia un problema e che si debba trovare un linguaggio per raccontare questo cambiamento come una occasione di libertà anche per gli uomini. È importante sottolineare che il misurarsi degli uomini con la libertà femminile in realtà è contemporaneamente un confronto con se stessi. Misurarsi con l’alterità sul piano dei desideri significa smettere di avere paura di un desiderio autonomo delle donne. Significa accettare le dimensioni di negazione e sofferenza nelle relazioni come esperienza di parzialità e di maturazione. La violenza contro le donne è sempre più spesso il risultato dell’incapacità maschile di fare realmente i conti con la libertà e l’autonomia delle donne. Dunque è necessario tornare a parlare delle relazioni, del modo in cui costruiamo rapporti e affetti. Dobbiamo smettere di richiamare semplicemente i modelli patriarcali come nemico contro cui proiettarsi per provare ad analizzare più in concreto quello che sta succedendo nelle nostre relazioni. Dobbiamo confrontarci su quello che siamo nelle nostre relazioni. E questo lavoro va reso terreno di discussione e di maturazione pubblica, ovvero deve diventare terreno di riflessione e di pratica politica».
«Credo che ci sia un divario tra quello che pensiamo e quello che riusciamo poi a vivere» nota nel suo intervento Domenico Matarozzo del Cerchio degli uomini di Torino. Sono d’accordo su chi sottolinea l’importanza di parlare del corpo. Io lavoro da trent’anni sul corpo ma quasi esclusivamente con donne. Noi dobbiamo sperimentare come il nostro corpo possa essere nella relazione un’occasione e non un limite. Se non riusciamo ad avere un corretto uso del corpo a livello emozionale, allora siamo schiavi di paure. Quello di riprenderci questa capacità è importante. Quanto alla rete di uomini, andrebbe veramente vissuta. Io lancerei proposte auto formative sulle nostre capacità e specificità per arricchire i nostri linguaggi». I famosi laboratori che facevamo ad Agape erano un lavoro insieme e residenziali con diverse modalità e linguaggi.
Gianguido Palumbo è siciliano, sta a Roma e si occupa di cooperazione internazionale. «Mi sono avvicinato a voi attraverso l’appello. Era necessario è stato positivo, ha un limite. Cerchiamo di andare avanti». Poi suggerisce che uno degli elementi caratteristici del maschile sia quello di essere rigidi. Definirsi maschi, per esempio, sarebbe a suo parere una cosa rigida. «Noi siamo essere umani a identità variabile. Dobbiamo accettare ed essere coscienti di questo processo. Invece difendersi irrigidendosi è sbagliato. Dobbiamo vivere l’ibridazione dentro di noi. Questo comporta scoprire che non si deve per forza essere duri o dolci. È possibile invece una compresenza di durezza e di dolcezza, di maschilità e femminilità tradizionali». E invita a vivere l’ibridazione, la mescolanza, o l’identità variabile». D’altra parte, aggiunge, «io vivo la necessità di avere nuove energie maschili. Le donne stanno acquistando potere e protagonismo, per la capacità delle loro concretezza. Sono operative ed efficaci. Io vorrei rilanciare la follia maschile. Cioè la dimensione irrazionale. Anche la carica utopica è un elemento da riconquistare». E conclude invitando a prendere parola sulle principali questioni sul tappeto: la legge sulla violenza, la questione dei Dico e della famiglia, le quote rosa.
«Io credo che vedersi tra uomini e discutere tra uomini sia una vera e propria rivoluzione personale – afferma Sandro Bellassai – Questa non è una fuga dal dialogo con le donne che peraltro pratichiamo. Il confronto con il padre per esempio comporta un confronto con una genealogia di tipo problematico. Pensiamo di volerci distanziare da modelli tradizionali, ma questo cosa significa? Non possiamo dimetterci da identità tradizionali. Poi vorrei dire che non so se il patriarcato è morto. Ho molti dubbi. Però certamente il “neutro” è morto. Personalmente credo che quello che stia succedendo oggi è che andiamo verso un modo diverso di rapportarci con le donne. Il confronto con le donne è imprescindibile. È dall’autorità dello sguardo femminile che gli uomini vedono la possibilità di guardare se stessi. D’altra parte è importante il lavoro che possiamo fare tra uomini intervenendo pubblicamente: quando gli uomini parlano ad altri uomini di queste cose, spesso scatta qualcosa. Quando gli uomini sentono le stesse cose da una donna possono liquidarlo in maniera più facile: “va beh ma quella è una femminista…”.
Qui si apre un grande spazio di lavoro e di decostruzione. Uno spazio che dobbiamo sfruttare fino in fondo. Come dobbiamo sfruttare fino in fondo il fatto della rete che si rende visibile proponendo un modo di leggere la violenza sulle donne che sottolinea fortemente il genere della violenza e le dinamiche dell’identità maschile. Noi come rete dovremmo soprattutto muoverci in questo senso». Poi conclude suggerendo l’idea di un convegno di studi sul maschile e la realizzazione di un piccolo libro che raccolga interventi di uomini sulla violenza da diffondere con qualche giornale.
«Sono una persona e sono un gay» racconta Renato Di Nicola che viene da Pescara e fa parte dell’Ass. “Johnatan”, un’associazione gay- lesbo-bi-trans-queer-etero. «Noi Gay ci siamo abituati a capire cosa significa cambiare corpo, cosa significa trans-gender. Cosa significa essere uccisi, come è successo a Emanuela Di Censo. Quando si è ammazzata una donna c’è stata una manifestazione, quando c’è stato l’omicidio di un gay, non si è fatto nulla, quando c’è stato l’omicidio di una trans si è detto che era una prostituta. La cosa in cui mi ritrovo di più – aggiunge – è la questione dell’ibridazione. Non come un discorso ideologico ma concreto. Poi dobbiamo lavorare sulla questione del potere. Lavoriamo non solo sui diritti ma anche sull’emotività che non è secondario sulla sessualità.
Vanni Bertolini del Gruppo Uomini Verona propone una questione: «Come facciamo quando usciamo da questo fortino ad agire politicamente. Dobbiamo parlare anche a persone che non ci stanno. Frequentando i bar, senti delle cose di tutti i tipi. Qui nel fortino siamo rassicurati. Però dobbiamo fare questo sforzo e questa fatica. È indispensabile la mediazione maschile: agli uomini devono parlare altri uomini. Questo significa che ciascuno deve decidere di farlo».
Giuliano Compagno interviene nuovamente per ricordare che non esiste solamente la violenza maschile. «A me interessa anche la violenza femminile. Dobbiamo parlare anche delle violenze matriarcali, delle madri, violenze che noi uomini paghiamo».
«Io sono una di quelle che ha aspettato con pazienza – afferma intervenendo Giuditta Creazio della Casa delle donne di Bologna. Questo vostro lavoro è un passaggio importante di cui sono molto grata. Ma vorrei suggerire alcune cose. Mettere in discussione la mascolinità ha un ruolo importante però penso che non porti automaticamente a mettere in discussione la violenza sulle donne che richiede un lavoro ed un’esperienza specifica. Quanto alle donne nei centri vengono persone che non portano un segno particolare di autonomia femminile. Da ultimo vorrei ricordarvi che i femminismi sono tanti. Io ho scelto la pratica della relazione. Se c’è una pratica di violenza è la cancellazione della differenza. Questo io lo sento moltissimo».
Nella parte finale dell’incontro si avanzano alcune proposte operative. Orazio Leggiero propone di mutuare alcune esperienze e alcune pratiche dall’esperienza dell’associazione Servas di ospitalità internazionale. In particolare suggerisce la possibilità di incontrarsi periodicamente in località diverse per dibattere dei nostri temi e di utilizzare la nostra ospitalità per ammortizzare le spese. Massimo Greco propone di avviare un gruppo di studio di ricognizione di buone pratiche in termini pedagogici.
Marco Deriu presenta il senso di una “Rete di uomini contro la violenza”, e propone agli uomini che vogliono intervenire di dichiararsi disponibili ad apparire in una rete di contatti per attivarsi ciascuno nel proprio territorio contro la violenza e per la promozione di nuovi rapporti tra uomini e donne. Quindi ricorda l’appuntamento del 25 novembre prossimo che può essere l’occasione anche di promuovere un’incontro come rete di uomini. Roberto Poggi presenta la Campagna del Fiocco Bianco contro la violenza, nata da un’idea del canadese Michael Kaufman e che è oramai avviata anche in Italia.
Stefano Ciccone ricapitola poi alcune delle idee emerse dallo scambio: 1) Mettere in comunicazione la rete dei firmatari dell’appello con i gruppi maschili che esistono nelle diverse città; 2) Raccogliere i racconti dei gruppi o dei singoli, o delle storie di esperienze come una specie di auto narrazione; organizzare una raccolta degli strumenti che esistono: video, materiali, testi, documenti di iniziative e progetti svolti; 3) lavorare sulla questione dei diversi orientamenti sessuali partecipando anche al Gay Pride; poi pensare 4) ad un altro appuntamento tra uomini di tipo residenziale in cui mettere in gioco i temi che abbiamo detto: corpi, linguaggi, desideri; 5) promuovere una riflessione critica sul rapporto tra il maschile e la norma, ovvero la legge come nodo su cui gli uomini hanno costruito il loro potere; 6) riprendere il tema del rapporto tra generi e culture diverse; e infine lavorare ad un 7) convegno, ad un momento di riflessione teorica anche per promuovere una maggiore autonomia di pensiero, un proprio ragionamento critico rispetto all’elaborazione delle donne.
Alberto Leiss propone quindi che l’associazione Maschile plurale si faccia carico di organizzare e realizzare almeno alcune di queste proposte.
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