di Paola Cavallari
- Adriana Sbrogiò insieme ad altre donne – tra cui Marisa Trevisan – diede vita negli anni novanta ad un’epica aggregazione politica, che recitava, già nel nome, un programma ambizioso e insieme una profezia: Identità e differenza; un’associazione di femministe coscienti della fecondità di un dialogo con uomini, con quelli che avevano recepito che il femminismo non era un movimento contro di loro, ma piuttosto una risorsa anche per loro, una promessa di incremento di soggettività e umanità.
- Come matura la coscienza di tale risorsa in Italia? Stanno crescendo le parole per dire il nuovo che sta fiorendo nei rapporti tra uomini e donne? Con quali linguaggi si rappresentano gli orizzonti trasformativi di questa rivoluzione? Quali volti possibili a un vivere/sentire/sperimentare a volte poco comunicabile? Quali segni per un lessico che superi la barriera del piccolo gruppo e si legittimi nello spazio pubblico? Quali paradossi emergono da pratiche coraggiose, che sperimentano e che si interrogano, che decostruiscono un mondo millenario? Come non schiacciare il desiderio sotto il peso della presa in carico delle contraddizioni storiche, delle responsabilità individuali e collettive della coscienza maschile? Come coniugare radicalità e complessità, due cifre imprescindibili della sfida storica e antropologica a cui si è chiamati? Infine, quali parole nuove possono restituire e mettere in circolo tali pratiche e guadagni? Domande al cuore della giornata di studio organizzata dalla associazione Maschile Plurale a Roma il 6 aprile 2024, “La violenza maschile parla di noi. Parliamone”, scandita in due fasi: una mattinata dedicata a una presa di parola maschile sulla violenza; un pomeriggio dedicato a una riflessione critica sulla comunicazione pubblica e sulle rappresentazioni proposte dai media.
- Si è in una fase di transizione, in un guado, dice Marco Deriu: dobbiamo essere capaci di vedere gli aspetti di persistenza e quelli di mutamento. Ma non possiamo essere ciechi di fronte alla “normopatia” che ci pervade, alla afasia maschile in relazione ai vissuti interiori, ad una resistenza all’apprendimento del linguaggio del proprio corpo.
Grazia Zuffa osservava che, anche da un punto di vista femminista, occorre far lievitare queste parole nuove. L’enfatizzazione della violenza può generare discorsi d’odio, così come le semplificazioni che non sanno vedere e rappresentare la complessità dei rapporti affettivi, scindendo in maniera manichea “amore” e “possesso”. Molti uomini, in questa fase di transizione, in una posizione di perdita e caduta verticale dell’eredità loro trasmessa, senza queste parole nuove annaspano, si sentono traditi non solo da una compagna che desidera interrompere il rapporto, e che li abbandona, ma anche da una tradizione che non li supporta più; la risposta più immediata, dettata dell’ eredità millenaria ricevuta, è quella del vendicatore e del carnefice, che a volte assume il volto del darsi la morte. Elementi su cui riflettere, senza con ciò voler neanche lontanamente alludere, e questo è il mio commento, ad una loro discolpa. Senza dimenticare, cioè, che, anticipatamente e/o parallelamente alla fase di transizione per gli uomini, ce n’è una molto complicata per le donne. È stata percorsa, ma non trionfalmente: i guadagni indubbi che ci riconosciamo sono l’altra faccia di strappi, ferite, cicatrici dell’anima e del corpo. E senza dimenticare soprattutto la storia di una colonizzazione culturale, di depotenziamento femminile, pregiudizi, abusi – visibili e invisibili- e crimini che si è compiuta e si compie ai danni delle donne.
- Le ore dell’incontro di Maschile plurale mi hanno fatto percepire il conforto di una maschilità critica, attenta, capace di mettersi in questione, un luogo heimlich, dove scorrono le acque di una ricerca condivisa, un luogo in cui il nome di Giulia Cecchettin ( e della sorella Elena e del padre Gino) è risuonato spesso come evento da cui la maschilità non può più prescindere. Ogni femminicidio mi riguarda come un lutto e una frustrazione – è stato detto: sono già 30 anni che ci impegniamo, eppure…
Della ricchezza dell’evento, la cui fecondità sta più nell’aver tematizzato questioni irrisolte e sollevato domande, non posso che restituire alcuni frammenti. La lettrice o il lettore potrà consultare il sito https://maschileplurale.it/raccolta-video-incontro-6-aprile-violenza-maschile/
- Occorrono parole nuove, è stato il leit motiv della giornata. Anche gli incontri nelle scuole ce le domandano, osserva Stefano Ciccone. «Come affrontare l’illusione della libertà che c’è nei ragazzi e ragazze? I ragazzi nelle scuole ci dicono: “Ma io non sono condizionato! Io non sono un violento! Perché mi caricate di colpe?” e le ragazze “io non sono una vittima! ” Avvertono nei nostri interventi un pregiudizio sul maschile senza sbocco; e questo è un problema». Occorrono parole si confrontino con questi meccanismi di difesa e che raccontino quali sentieri sono percorribili. Altri fenomeni di resistenza al nuovo che le pratiche di consapevolezza possono ingenerare debbono essere indagati. Per cui è bene conoscere i paradossi che esse hanno provocato:
- una enfatizzazione della violenza che viene percepita come allarme sociale, qualcosa da cui difendersi; può generare un sentimento di estraneità e di rimozione: se ne occupi qualcun altro;
- una vittimizzazione maschile;
- l’accusa di un moralismo oscurantista: la cultura di genere e chi la incarna vengono vissuti come espressioni di moralismo, per cui si reagisce con il marameo misogino e insolente alla Sgarbi.
Gli auspicabili mutamenti, per il genere maschile, non possono passare attraverso codici prescrittivi, ma piuttosto far fiorire un desiderio nuovo di essere uomo, come per esempio quello che si manifesta nell’area della paternità.
- Altre piste sono state quelle suggerite, con un video registrato, Edoardo Albinati, scrittore. Ha argomentato con lucidità e incisività l’interconnessione tra il tema della pace/guerra e il tema della identità maschile; lo ha fatto a partire dalla realtà dello stupro bellico. «Lo stupro bellico … potrebbe essere visto come un accidente….un effetto collaterale dell’azione militare vera e propria. Ma non è così: è esso stesso parte integrante dell’azione militare, ne è per così dire la forma primaria, arcaica, appunto quintessenziale». Essendo la sfera militare coessenziale alla virilità, la messa a tema del paradigma dell’identità maschile tradizionale nei confronti della prassi degli stupri bellici è essenziale. Ma tale parentela non è quasi mai messa in questione, se non dalle voci di donne femministe. Albinati ha “osato” prendere come exemplum proprio l’evento del 7 ottobre 2023, giorno degli stupri e massacri compiuti da Hamas in territorio israeliano, ma si è raccomandato di tenere distinte categorie che appartengono a ordini differenti. Due sono infatti gli ordini semantici: quello relativo all’evento stupro/massacri e quello relativo al conflitto israelo-palestinese. Se vengono mischiati, si banalizzerà inevitabilmente lo stupro e si produrrà un’ eclisse del crimine sessuale: «Far questo vorrebbe dire ancora una volta far prevalere un ordine di discorso politico su un altro, il che puntualmente è avvenuto negli ultimi mesi ». Alberto Leiss, riprendendo alcuni segmenti del discorso di Albinati, sottolineava come il pacifismo non abbia mai contemplato tra i suoi assi discorsivi questo punto qualificante: il nesso tra violenza contro le donne e violenza bellica. Non c’è attenzione ad un fenomeno evidentissimo: uomini sono quelli che decidono le guerre e uomini quelli che la agiscono. Il disarmo, dunque, sarebbe una questione successiva, la priorità essendo il prendere coscienza della parentela tra mentalità militarista e identità maschile ereditata.
- Ho sempre sostenuto, sia all’interno dell’OIVD sia all’esterno, che non potevamo limitarci a condividere le parole della galassia dei pacifismi del discorso universale maschile senza fare tesoro della lezione di Carla Lonzi. «È grave – scrivevo nella mia relazione annuale come presidente OIVD del 2022 – il misconoscimento o occultamento della genealogia sessuata di tali distruttività, non solo quelle generate dai conflitti armati. A proposito di Attentati, aggressioni e maschilità, lasciatemi ricordare che abbiamo realizzato un webinar, nel febbraio 2021, proprio con questo titolo (sono reperibili su YouTube); nella mia introduzione dicevo che certo, a maggior ragione, i conflitti armati rientravano nella prospettiva che proponevamo, incardinata nello smascheramento della radice di quei confitti distruttivi: il sistema patriarcale ». Ma devo ammettere di non essere stata molto ascoltata. Ho visto troppe donne, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina – a maggior ragione da quando è scoppiata in Medio Oriente – che si sono impegnate in appelli alla pace senza porre con voce chiara e forte una messa in questione della radice della guerra, ovvero la virilità, intrinsecamente responsabile.
“Da giovane – scrive Cristina Gramolini, esponente di Arcilesbica – se mi avessi chiesto se preferivo occuparmi dei campesinos salvadoregni o delle donne, ti avrei risposto: dei campesinos! Il fatto è che impegnarsi per migliorare la condizione delle donne vuol dire assumere la differenza come il punto da cui tu parti, e invece noi donne spesso da lì vogliamo sloggiare! Per questo… vedo un desiderio di fuga dalla differenza femminile”[1].
- Siamo chiamate noi donne e siete chiamati voi uomini a resistere alle tentazioni di bypassare le contraddizioni, imboccando le scorciatoie di un manicheismo rozzo e cieco di fronte alla complessità delle questioni cruciali che si pongono. Occorre fare la fatica di disidentificarsi, di assumere uno sguardo decentrato, dal margine, come insegna Bell Hooks. E d’altra parte, non cedere alle seduzioni mainstream della galassia della sinistra- antagonista-antisistema, che, fra le altre cose, legge il sexwork, come espressione antimoralistica e di autodeterminazione antisistema, appunto.
A proposito di tale fatica, concludo con un esempio che mi è caro e di cui ho già trattato da anni [2]: la questione della fragilità. Sono sempre più convinta che tutti/e noi, ma gli uomini in primis, dobbiamo assumere la fragilità come compito, fragilità che guarda caso è storicamente associata alla condizione subalterna della donna. “Domina la resistenza, o forse meglio dire rimozione, alla comprensione della vulnerabilità in quanto costitutiva della condizione umana, parte integrante dell’ontologia dell’umano. Si misconosce la stretta parentela che abbraccia vulnerabilità e apertura al divenire, al saper esporsi, all’avvento della grazia dell’Incontro”[3].
È purtroppo naufragato il concetto politico e filosofico del “limite” introdotto decenni fa nei movimenti della sinistra (soprattutto nell’ambito del green), un dispositivo ermeneutico che si affianca al concetto di fragilità, e che avrebbe potuto essere molto fecondo.
[1] La colpa delle lesbiche, Una Città n° 300 / 2024 marzo. Intervista a Cristina Gramolini. realizzata da Barbara Bertoncin.
[2] P. Cavallari, Del genere della vulnerabilità, in “Adista” – Segni Nuovi – n. 21 dell’ 11 giugno 2022 pubblicato col Titolo Patriarcato e clericalismo. Del genere della vulnerabilità. E inoltre, Per una coscienza della forza debole della profezia: la vulnerabilità. Relazione al convegno Fedi e femminismi, la profezia delle donne. Trascendenza ed esperienza nell’orizzonte di una fede incarnata, Bologna 2.12.2021, apparso nel libro Fedi e femminismi in Italia, la profezia delle donne, Effatà editrice, 2023.
[3] Da Del genere della vulnerabilità, cit.