Nov 2011 “La doppia trappola del maschile”
di Luigi Miscioscia*
Relazione svolta durante il seminario su
“La crisi del maschile” Bari 11 Nov 2011
Spesso mio padre amava scherzare quando eravamo a tavola. “Vedi Luigi, le donne non sono come noi, hanno un cervello piccolo piccolo e un sedere grosso grosso”. Si rideva, eravamo tre figli maschi e a queste battute sorrideva anche mia madre, una donna laureata che insegnava francese e si affannava nelle faccende di casa. Già d’allora provavo un forte disagio, un senso acuto di ingiustizia e oppressione che offuscava le pur tante qualità di mio padre. Ero un ragazzo adolescente e desideravo ardentemente essere uomo, non condividendo il modello di virilità che, insieme a mio padre, l’ambiente mi proponeva, iniziai sin da allora una ricerca che ancora oggi non considero compiuta né ancora soddisfacente.
Pur essendo passati vari decenni, sulla questione maschile poco è cambiato, tutto resta ancora da fare, a cominciare dal riconoscimento di un svantaggio illusoriamente mascherato da privilegio.
Alcuni esempi
Primo esempio
Qualche settimana fa, chiacchierando con un amico a proposito del seminario che stavo preparando, ebbi modo di raccogliere da lui il seguente parere: “vedi, mi diceva, l’aggressività del maschio è buona perché è biologica, deriva dal testosterone, è un’aggressività reattiva alla provocazione delle donne, sai, quando ti rompono i … e non ne puoi più. L’aggressività femminile invece è infida e velenosa, è basata sulla volontà distruttiva, sul desiderio di far male, è quindi un’aggressività contro natura, perché la donna è per sua natura remissiva”.
Potrebbe apparire il discorso di una persona di scarso livello culturale. In realtà si tratta di un medico che si dedica alla ricerca, che ha avuto vari riconoscimenti e ricopre un ruolo apicale in una grande azienda.
Secondo esempio.
“Dottore (mi diceva una signora, una bella donna di circa 40 anni, alcuni giorni fa) io sto male perché mi sto separando, mi sta crollando tutto addosso. Mio marito era sempre assente per lavoro ed io ho sempre gestito tutto in casa, prendendomi tutte le responsabilità. Ho sbagliato perché ho preso tutto il potere, non l’ho fatto sentire uomo e questo lui me lo rimprovera. Ora lui ha un’altra donna. Anche lei mi rimprovera di aver sbagliato per le stesse ragioni. Mi dice: “con tutta quella tua intelligenza non sei stata capace di tenerti il marito”. Quella donna è molto più giovane di me, molto bella e con un seno prosperoso; io ho fatto l’intervento al seno e vado in palestra ma sento di non essere una vera donna come lei”.
Terzo esempio
Ancora un’altra signora: “Dottore non so più che cosa fare, mio marito è una bravissima persona e mi vuole bene. L’unico problema è che si arrabbia e alza le mani. Guardi, ho degli ematomi su tutto il collo. Ho paura perché l’altro giorno ha preso alla gola mia figlia e rischiava di strangolarla. Temo per i miei figli anche perché assistono continuamente a queste scenate. Mio figlio dice che siamo noi che lo facciamo arrabbiare. In effetti io ho la lingua lunga e parlo sempre…”
Ormai son tanti anni che ci conosciamo.
Più volte e con molta energia Cecilia Giovine ha denunciato questo problema, suscitando a volte negli interlocutori qualche ironia. Oggi, alla luce di quell’apprendere dall’esperienza che ci caratterizza come gruppo del Centro Didattico, mi sento di ringraziare Cecilia per non essersi scoraggiata, per aver proseguito in quella sua pur scomoda funzione di stimolo e denuncia. Se oggi siamo qui a parlare di questo tema, lo dobbiamo soprattutto a lei.
Scrive Stefano Ciccone:
“Non basta dunque denunciare la violenza, non basta stigmatizzarla, ridurre in una prospettiva di civilizzazione dei costumi quella che è invece, per me, una domanda di senso sulle relazioni tra le persone e degli uomini con se stessi. Riuscire a leggere la miseria che ne emerge e proporre a noi e agli altri uomini un’altra vita, un’altra qualità possibile delle relazioni e della sessualità, è occasione anche per costruire una diversa lettura di fenomeni che segnano la quotidianità delle nostre città e che invisibilmente pervadono le relazioni, i modelli e i linguaggi condivisi. Per uscire dalla violenza, ma anche per noi”. p. 55 – Essere maschu– tra potere e libertà
Se la rivoluzione culturale del ’68, quella femminile in particolare, ha avuto una specifica funzione di rottura col passato, di denuncia, di messa in evidenza delle ingiustizie e contraddizioni sui domini consolidati e ritenuti giusti e naturali. Oggi più che mai permane il rischio di una restaurazione o, come talvolta accade, anche se più raramente, di una inversione della polarità tra persecutore e perseguitato, lasciando inalterato il rapporto di dominio.
I cambiamenti più solidi si attuano nei decenni successivi all’impatto rivoluzionario, grazie alle elaborazioni e ri-significazioni del linguaggio. Occorre ri-conoscere, cioè conoscere di nuovo, ciò che già conosciamo, attivando un pensiero al posto dei pre-concetti, ovvero dei pensieri che sono stati già confezionati. Scrive James Hillman, psicoanalista recentemente scomparso, tra i più autorevoli ed ascoltati: “…da secoli …la gente ricorre alla violenza fisica perché le parole hanno fallito. Forse per guarire la violenza occorre cominciare a guarire le parole, una cura che inizia col prestare attenzione alla potenza delle parole” p.25 – Il potere – Rizzoli – 2002 (ed orig. 1995)
Questo compito ci restituisce la speranza.
Delle questioni del maschile desidero sottolineare, in modo particolare, quelle che sfuggono all’evidenza, recuperando, in sintonia con vari autori; (per es. Pierre Bourdieu; Lea Melandri; Marco Deriu (che abbiamo avuto il piacere di ascoltare al seminario di Noci); lo stesso Stefano Ciccone) elementi non pensati, condensati nel corpo e negli automatismi relazionali.
Il Corpo
A proposito di “potenza delle parole”. Scrive P. Boudieu: “La forza simbolica è una forma di potere che si esercita sui corpi, direttamente e come per magia, in assenza di ogni costrizione fisica; ma questa magia opera solo poggiandosi su disposizioni depositate, vere e proprie molle, nel più profondo dei corpi”. (Il dominio maschile – p. 48). Boudieu mette in evidenza la collusione, l’azione inconsapevole che rende i dominati complici dei dominanti. E più avanti: “… i dominati contribuiscono, spesso a loro insaputa, a volte contro la loro volontà, al loro stesso dominio accettando tacitamente i limiti imposti, assumono spesso la forma di emozioni corporee, vergogna, umiliazione, timidezza, ansia, senso di colpa, o di passioni e sentimenti, amore, ammirazione, rispetto; emozioni tanto più dolorose, a volte, in quanto si esprimono in manifestazioni visibili, come il rossore, il balbettio, la goffaggine, il tremito, la collera o la rabbia impotente, tutti modi di sottomettersi, sia pure di malavoglia…” (ivi p.49)
Le origini
Il dominio del patriarcato, attraverso modalità trasgenerazionali, ha inciso profondamente nella psiche e nel corpo dei singoli individui. La ricchezza e pluralità delle risorse umane dei maschi si è depauperata a vantaggio di poche altre qualità che sono state gonfiate e stravolte. Ne è derivato uno svantaggio, così come molte autrici hanno evidenziato, una miseria, come scrive Stefano Ciccone, che si evidenzia in maniera spesso drammatica. E’ vero che il patriarcato ha riservato un analogo e speculare trattamento anche alle donne, ma il ’68 ha consentito loro di recuperare. Questo, invece, non è accaduto agli uomini che non riescono ancora ad avere una vaga idea del danno subito.
Questa ignoranza li rende fragili, una fragilità spesso mascherata dalla prepotenza, li predispone al crollo piuttosto che alla cura, così come abbondantemente abbiamo modo di constatare nell’attività clinica. In particolare, l’ingrediente che spesso manca agli uomini è l’autonomia emotiva e la dimestichezza nella cura, una preziosa risorsa che devono massicciamente importare dalla psiche femminile.
Nel primo seminario di Corato ebbi modo di ipotizzare l’insorgenza di questo fenomeno a partire da due raggruppamenti di eventi che hanno disciolto gli assetti precedenti: 1) l’autonomia femminile, economica, sessuale, legislativa; 2) la decostruzione delle collusioni incentrate sulla fascinazione della parata (G.Lemoine). La principessa, diventata donna consapevole dei propri diritti e del potere che ora sa di avere, ha ritirato il suo magico bacio e il principe è tornato ranocchio. Egli si è scoperto nudo e sgradevole a causa del ritiro dell’investimento femminile. Non potendo ancora accettare di non essere più un nobile, si è incazzato nero e reagisce con violenza. La forza che ostenta, sotto la parvenza dell’acciaio, nasconde la struttura dell’argilla. Basta un addio non desiderato e il guerriero di terracotta si sbriciola come un biscotto. Tristemente i fatti di cronaca lo dimostrano abbondantemente.
Ho trovato molto utile l’analisi di quegli autori che, nello svantaggio e nella miseria del maschile intravedono una deformazione, un riduzionismo in favore di una crescita ipertrofica di altre limitate risorse (prestazione, violenza, insensibilità, ecc.). Il maschio è stato manipolato, dal patriarcato, amputato della propria sensibilità come un dente devitalizzato che può masticare tutto. Pensiamo all’inibizione della commozione (“un uomo non deve piangere”), al taglio della parola (“sono chiacchiere da femminucce”), al soffocamento dei bisogni affettivi (“un uomo non deve chiedere mai”), ecc…
Una macchina da guerra e da lavoro duro, preparata per eliminare i problemi e non per prendersene cura.
La mia potrebbe apparire un’esagerazione e infatti non siamo tutti guerrieri, tuttavia possiamo facilmente constatare l’azione incisiva di tale modello. Lo ritroviamo nel linguaggio e nell’agire collettivo: “far fuori l’avversario”; “la guerra tra i sessi”; “quel tale leader è stato silurato”, ecc…. Lo ritroviamo nei discorsi degli uomini che ascoltano poco e competono per l’esibizione del fallo-sapere; lo ritroviamo nell’ordine gerarchico, attivato, automaticamente anche quando non ce n’è bisogno, a in altro ancora.
La conseguenza è che l’uomo, preparato per la guerra, si ritrova sprovvisto delle qualità sufficienti per gestire la pace.
Quando le guerre finiscono resta la tristezza e la solitudine del maschio nell’esibizione di una parata che non incanta più nessuno. E allora la guerra si sposta da un’altra parte, nello sfruttamento delle risorse, nella competizione per il controllo del mercato, nella finanza rapace e predatoria dei profitti illimitati. Questa macchina da guerra, per confermare la propria esistenza ed autostima, è in cerca di guerre e crede di trovarle anche in famiglia, oltre che nella strada. Nelle questioni di cuore, come tristemente i fatti di cronaca riportano, la parola passa alle armi per la soluzione definitiva del problema. Indubbiamente una grande efficienza. Poche chiacchiere. Il problema è risolto, eliminato.
Constatiamo tristemente l’efficacia distruttiva del modello maschilista. Si dice che le mafie possono sostituire i capi in 24 ore.
Si potrebbe pensare che questo stato di cose abbia annichilito le risorse del femminile. In realtà questo non è avvenuto. Il potere del femminile non si è ridotto ma si è avvelenato.
Per esempio l’obesità, che angustia tanta parte della popolazione giovanile, la si può leggere come un ritorno, letteralmente nel corpo, di un potere e di un eccesso del femminile, quello di nutrire, che parassitariamente sembra vendicarsi dell’oscuramento subito. Questo ed altri fenomeni ci permettono di evidenziare quello che oggi appare come un paradosso: al dominio maschile nelle organizzazioni e nella politica e non solo, corrisponde un incremento della dissolvenza paterna quale argine, sempre più fragile, ad un godimento prigioniero dell’istinto di morte. Così come avviene nelle famiglie disturbate, all’apparente sottomissione al dominio paterno, si contrappone l’ombra oscura di un materno vendicativo che corrode il fallo maschile, trasformandolo in un guscio vuoto, ridicolo e senza valore. Tutto ciò smaschera l’ impotenza del modello maschilista.
L’impossibilità di articolare un sano conflitto permanente (per me essenziale), nella dignità e nel riconoscimento reciproco dei singoli protagonisti che lo mettono in gioco, occulta e deforma proprio quelle risorse del maschile e del femminile che, se dialettizzate, operano come un motore a sostegno della vita.
Se, apparentemente nessuno vuole avere a che fare con questo maschile deteriore, constatiamo che il mondo è in mano a questo maschile. Ciò, a mio avviso, accade per due ragioni: il diniego e la deformazione del senso di alcune parole come potere (“Non ci voglio avere niente a che fare, è una cosa troppo sporca!”)
La rinuncia pudica, sublimata, ipocritamente “generosa” all’esercizio del potere, implica una discesa verso il basso, nei livelli arcaici del dominio.
Qui da noi, al sud, il pudore, la solitudine, la “falsa modestia” e l’isolamento di una classe intellettuale poco interfacciata alla pubblica opinione, lascia il campo libero al dominio della corruzione e all’avidità dei peggiori. E’ nella convinzione di essere buoni che l’orrore del dominio si fa strada incarnandosi in un membro del gruppo, in un quartiere, in una azienda, in una parte della classe politica. Il dominatore è il ritorno del rimosso in un contesto idealizzato e sublimato.
E’ invece importante l’esplorazione del mondo tribale insito in ciascuno di noi, per un possibile affrancamento, non attraverso la negazione, ma attraverso la trasformazione (Bion).
La via, a mio avviso, auspicabile e praticabile, non è quella della negazione del fallo ma quella dell’assunzione generalizzata di esso e della sua trasformazione attraverso il permanere del conflitto, una pratica sociale permanente che, con una metafora irriverente chiamerei: spezzettamento (decostruzione) e cottura (trasformazione) del fallo.
Infatti, se il dominio del maschile si caratterizza soprattutto con la forza coercitiva, l’opposizione di una forza alternativa in grado di neutralizzarla, può cambiare il ruolo del dominante nel ruolo di dominato. E’ l’asserzione: “ora comando io!”. Il dominio sopravvive passando dall’altra parte. Abbiamo numerosi esempi nella storia. Gli antagonisti restano intrappolati nel medesimo schema relazionale, il demone del dominio li rende entrambi burattini.
C’è ancora un altro trattamento storico del maschilismo, a mio avviso altrettanto inefficace. Quest’altro si poggia sulla presunta funzione salvifica della comprensione (“è fatto così”), della tolleranza, di quello che chiamo “eccesso di complementarietà”, che rivela, ad un’indagine più profonda, un vizio di onnipotenza. Una versione su questo schema è la così detta “sindrome della crocerossina”.
Ma allora, quale speranza abbiamo per un trattamento efficace del maschilismo
Vi propongo un esempio preso dall’età evolutiva. Il bambino piccolo sano, è egoista e prepotente. Si crede onnipotente, si crede un principe. Questa è la normalità del bambino. La repressione di questa vitalità primitiva, disattiva la prepotenza, lasciando inalterate le rappresentazione del mondo interno. La prepotenza resterà ibernata in qualche parte della psiche e l’insegnamento pur giusto, nelle intenzioni, da parte dei genitori, sarà recepito e interiorizzato come comando dominante e sadico, si iscrive nel registro del mondo arcaico infantile. Il bambino infatti attribuirà un significato, all’azione genitoriale, utilizzando l’alfabeto primitivo a sua disposizione: “chi mi dice no, è cattivo e mi vuole male”. Al contrario, genitori sufficientemente buoni sostengono questa illusione e, al tempo stesso promuovono le condizioni per la crescita maturativa (trasformativa) che non può avvenire senza il contributo prezioso della genitorialità attraverso la dialettica dei registri materno e paterno. In questo caso i genitori non reprimono le energie primitive del bambino, ma ne promuovono la loro trasformazione. I personaggi arcaici, quelli delle fiabe, possono così civilizzarsi.
Il maschilismo è il cattivo risultato di un patriarcato repressivo. La prepotenza è l’edizione adulta dell’immaturità, quella che nella clinica ritroviamo nella violenza e nell’agire psicopatico.
Il trattamento repressivo riproduce il sistema confermando la regola del più forte.
Ma allora cosa si può fare, essere sempre indulgenti col rischio di essere inefficaci?
Come ho già detto l’affermazione “io lo cambierò”, è un ulteriore versione dell’onnipotenza. Credo invece che non è la rinuncia alla forza, la rinuncia al potere che può metterci su un percorso virtuoso, ma la piena assunzione di una forza e di un potere trasformati. Lo spiegherò con un esempio preso dall’attività clinica.
Una giovane donna giunge al servizio presso cui lavoro. Mi dice con voce molto serena: “Dottore ho denunciato mio marito per la violenza nei miei confronti e nei confronti dei miei figli. Il giudice gli ha prescritto una terapia di coppia per affrontare questo problema, vorremmo farla qui da lei”. Bastarono poche sedute e potei constatare la sincera collaborazione di quest’uomo. Gli episodi di violenza non si ripetettero più ed ebbi modo di constatarlo anche a distanza di anni. La coppia ritrovò la sua serenità. Questo breve esempio mi permette di evidenziare come, da parte di questa donna, non c’è stata la rinuncia sacrificale dell’elemento della forza, del potere, ma al contrario, una sua assunzione. La forza e il potere repressivi, arcaici, sono stati trasformati con una forma più progredita di forza: la fermezza. Ciò ha permesso a quest’uomo di affrancarsi da una propria dipendenza da una parte di sé parassitaria anche per se stesso. In quest’uomo ho visto anche la gratitudine e la stima nei confronti della moglie. Questa donna non ha confuso il marito con il mostro, né si è fatta sedurre dall’onnipotenza del “io ti salverò”, ha semplicemente opposto alla prepotenza la fermezza (argine) con l’aiuto di un magistrato intelligente. In questo modo il demone che possedeva quest’uomo è diventato il nemico comune da abbattere. (differenza dalla contro identificazione proiettiva)
Un altro esempio riguarda le organizzazioni e anche qui la trasformazione del potere coercitivo (“devi fare ciò che ti dico io!”) in un potere a promozione e sostegno delle potenzialità di ciascuno: “riflettiamo sul problema ed esprimi le tue idee e potenzialità per affrontarlo”. Il potere di promuovere la crescita dell’altro, un tipo differente di leadership più collegata alla capacità negativa, quella femminile di stare sullo sfondo e promuovere le potenzialità altrui.
Solo apparentemente potrebbe sembrare buonismo, o soltanto una questione di etica o di democrazia. In realtà è una gestione di efficacia, creatività, passione.
Permettetemi ora di terminare con la storiella della rana (prima ho parlato del principe ranocchio). Anche questa mi è stata raccontata da un amico, ma non lo stesso dell’esempio iniziale.
Una giovane rana aveva trovato ospitalità presso un signore. Questo signore le aveva preparato un recipiente bello confortevole colmo d’acqua. Ella felice godeva del calore proveniente da questo luogo ospitale dove amava tuffarsi e nuotare. Il tempo passava e quel calore piano piano aumentava. La giovane rana si abituava a quella ulteriore intensità. Poi il calore aumentò ancora, poco alla volta, ma sempre di più. Quando la giovane rana si accorse che quel signore ospitale la stava cucinando in un pentolone, fu troppo tardi.
Ho raccontato questa storiella per mettere in guardia quelle donne che dicono: “E’ geloso perché mi vuole bene e ci tiene a me; controlla i messaggi sul mio cellulare ma solo per tranquillizzarsi; gli è sfuggito uno schiaffo ma non è cattivo” ecc…
All’inizio questo calore affettivo può essere gradevole, ma, attenzione, prima che sia troppo tardi, saltate via dalla pentola!
*Luigi Miscioscia è Psicologo, Psicoterapeuta e Membro didatta SIPsA
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