Nov 2001
La cura, non consolazione ma leva del mutamento
di Alberto Leiss
Domenica 30 ottobre c’è stata alla Casa delle donne di Roma la discussione sul testo delle “femministe del mercoledì” sulla “cura del vivere” e sul dossier sullo stesso tema allegato alla rivista Leggendaria.
In questi giorni ci ho pensato molto, volendone scrivere, come sto facendo, non senza difficoltà: in testa molte idee e sensazioni, sia per la richezza di stimoli anche contrastanti ricevuti, sia perché le notizie delle alluvioni a Genova – mia città di origine – hanno prodotto per motivi affettivi e di lavoro un concomitante e intrecciato sovrappiù di pensieri.
Da qui l’effetto imbuto: le troppe cose non passano più per il fragile condotto della scrittura, che dal cervello attraverso la penna – o le dita e i tasti del computer – deve organizzarle in un sintetico discorso. Eccolo comunque, per appunti e tentativi.
Una battaglia simbolica
Aprendo la discussione Letizia Paolozzi ha parlato di una “porta aperta” da una operazione provocatoria e consapevolmente “ambigua”. Un discorso sulla cura è stato “tirato fuori dalla naftalina”, giacchè il femminismo lo ha già affrontato nel passato, ma con l’intenzione ora di un nuovo rovesciamento di senso. Se ho capito: non è solo, per le donne, una prigione da cui liberarsi, ma anche un mondo di affetti, desideri, conflitti, capacità di fare e tenere mondo, da riconoscere e da usare come una leva simbolica per rinominare oggi ciò che appare così scandalosamente abbandonato all’opposto della cura, all’incuria: lavoro, economia, politica, cultura, ambiente, relazioni tra persone, sessi e generazioni.
C’è stato confronto, anche vivace, prima e dopo il convegno. Lia Cigarini ha detto, più o meno: la parola “cura”, con il suo carico di oblatività femminile, non deve oscurare il valore della parola “relazione”. E dire che si deve aver cura della politica, significa promuovere un agire politico diverso: quello inventato dal femminismo è una pratica adatta alla realtà che cambia. Mentre la democrazia rappresentativa sembra “alla frutta”, da qui si opera un taglio con l’immaginario tradizionale. E il punto di vista dalla cura è una ”forma simbolica che fa ordine”.
Io ho visto nel testo proposto dal “gruppo del mercoledì” e nella discussione seguita – gli articoli del dossier e gli interventi di domenica a Roma – proprio l’apertura e gli strumenti per una battaglia linguistica e simbolica, quindi politica, sul terreno della rottura – ormai sempre più evidente – del confine tra pubblico e privato, tra produzione e riproduzione, tra “oikos” e “polis”. Non è un caso – per fare un solo esempio – che il “lavoro di cura” generalmente garantito dalle donne ora venga sempre più nominato dai media, dagli economisti e da alcuni politici come quel “welfare familiare” che tanto efficacemente e silenziosamente attutisce i colpi della recessione. E magari rassicura sui ruoli sessuali tradizionali. Ma, ha detto Letizia, le donne non ci stanno ora al richiamo di essere le salvatrici nella crisi e le benefattrici del Pil.
La cura declinata al maschile
E gli uomini? Pensieri profondi, ma una brutalità ignara della capacità femminile di “massimamente sentire”? (secondo Leopardi). Claudio Vedovati ha detto cose che mi sono rimaste impresse. Più cura nel conflitto tra generazioni: gli intellettuali TQ sono troppo “rivendicativi” e si autorappresentano con eccesso di impoverimento e svalorizzazione. Così anche nella politica: “si parla di rottamazione. E’ un mondo finito, ma non voglio produrre altri rifiuti”. E del resto la base della cittadinanza e della politica, il lavoro produttivo codificato secondo ideologismi colonizzati dal maschile, ha perso completamente il suo ruolo di “grande ordinatore simbolico”. Ecco un campo vastissimo aperto al punto di vista che, ripartendo dalla cura, sappia vedere un nuovo modo di vivere il cambiamento, la trasformazione, la “rivoluzione”.
Certo, in una sala piena di donne, venute anche da diverse parti d’Italia, noi uomini ci si contava sulle dita di una mano. E sin qui i maschi hanno elaborato, nel migliore dei casi – Antonia Tomassini, parlando anche a nome di Franca Chiaromonte, ha citato la Grecia e il Seneca indagati da Foucault – una “cura del sé” tutta rivolta alla funzione pubblica, e nel migliore dei casi all’educazione del proprio spirito, al rapporto con l’assoluto.
Mentre ascoltavo riflettevo sul ruolo dell’astrazione nel pensiero di noi uomini. Pensavo a una mia rimozione: scrivendo della cura delle relazioni, e della mia relazione con la politica, e con i miei genitori, non ho nominato anni di “lavoro di cura” da parte di mia moglie, madre dei nostri figli, mentre io lavoravo in un’altra città.
Forse il lavoro di “rieducazione” che ci aspetta è ancora lungo e difficile. Forse non per caso mi è venuto in mente contemporaneamente, di fronte alle immagini della Liguria ferita dalla furia del cielo e dall’incuria degli uomini, che per rimettere le cose a posto, per riparare il malfatto, ci dovremmo imporre – ora che la leva obbligatoria non c’è più – almeno un servizio civile, non solo maschile, ma esplicitamente pensato anche per aiutare a sostituire con qualcos’altro la nostra autorità smarrita. Tanti giovani volontari lo fanno, e si riscoprono nel fango, dopo la rabbia, i buoni sentimenti della solidarietà. Dovrebbero farlo tutti, almeno per un anno della vita. In Italia e nel mondo.
Consolazione e conflitto
Voglio dire che il desiderio maschile, nel disordine del tramonto del patriarcato, deve comunque imbrigliarsi in una qualche nuova disciplina? Non lo so. Penso che il riconoscimento della cura come “elementare fiolosofia dell’esistenza”, come “manutenzione della vita”, cioè saper tenere la vita – dalla nascita alla morte -nelle proprie mani (Fulvia Bandoli) non voglia solo dire preferire alla durezza e stupidità della competizione la dolcezza degli affetti. E così ottenere consolazione. Vuol dire elaborare la capacità di mediazione dei conflitti più radicali che le relazioni vitali quasi sempre comportano. E questa capacità di mediazione, con se stessi e gli altri, le altre, forse è la necessaria disciplina per la conquista – anche maschile – di una nuova libertà.
Come proseguire il discorso
E’ venuto un riconoscimento ampio al valore del discorso aperto a Roma. Con accenti diversi lo hanno detto Francesca Izzo e Gabriella Bonacchi, Marina D’Amelia e Celeste Costantino, Anna Maria Crispino e Adriana Sbrogiò e ancora Annalisa Marinelli e Katia Ricci. Mariella Gramaglia e Ida Dominijanni in articoli sulla Stampa e sul Manifesto. Tutti contributi – con tanti altri – che meriterebbero un ulteriore resoconto. Vorrei che venisse raccolta l’indicazione e l’auspicio di apertura: altri confronti, e un gruppo che si riunisca sistematicamente a Roma, come luogo di scambio e di elaborazione. Per affrontare in modo più approfondito e con altri interlocutori/interlocutrici i vari nessi problematici emersi.
In questi mesi ho partecipato alle riunioni della milanese Agorà del lavoro. Non si tratta di replicare esperienze diverse e specifiche. Ma di scommettere su una pratica che può avere un valore generale: una piazza intesa non solo come spazio per manifestare, ma soprattutto come luogo di parola e di ricerca per la costruzione di nuove relazioni. Rosetta Stella ha detto che la cura è una parola apripista, anche per affrontare lo stato assai critico della politica e in particolare della sinistra. Un altro punto destinato a suscitare discussione. Una discussione, almeno per me, interessante.
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