Mag 2011 Amicizia e politica tra uomini e donne,
attorno al Centro antiviolenza
di Alessio Miceli
Quello che so dei Centri antiviolenza in Italia l’ho imparato qui a Milano e dal mio punto di vista maschile, in un percorso di reciproca conoscenza e di stima, che è diventato anche di amicizia e di collaborazione con Marisa Guarneri.
E’ stato un avvicinamento anche dei nostri due mondi associativi, cioè la Casa delle donne maltrattate che Marisa ha fondato con altre a Milano già negli anni ’80, e l’associazione nazionale Maschile Plurale con i suoi percorsi sulla maschilità e sulle relazioni con le donne.
E se penso effettivamente a cosa mi ha colpito dell’esperienza di Marisa e di altre donne di quel centro antiviolenza che ho conosciuto, devo dire che mi rimane una traccia che segna il campo del contrasto alla violenza in una città. Mi rimane il senso di una storia e di una prospettiva diversa e che fa la differenza, in questo ambito.
La storia, la matrice è quella di un DNA che si è formato dal movimento delle donne, dalle varie esperienze del femminismo, che mantiene ancora una forza nella sua irriducibilità ad altre logiche. Questa storia evidentemente non è finita in Italia, se una rete credo di 54 Centri antiviolenza come quella chiamata D.I.Re (donne in rete contro la violenza) si ritrova accomunata da una matrice di questo genere, anche con tutte le sue differenze e le sue mediazioni.
E la prospettiva, quando si mantiene quel radicamento, mi sembra fondata su alcune consapevolezze di fondo.
Per prima, c’è l’idea della relazione tra donne, come principio e metodo di accoglienza e di cura, in una società così fortemente segnata dalla violenza maschile. Le donne si curano e a volte si salvano, in uscita dalla violenza, nella relazione con altre donne.
E insieme, c’è la connotazione di questa relazione, sì con una valenza terapeutica e anche con dei ruoli, ma fondamentalmente come una relazione libera e di crescita. Per cui una scheggia che ritorna nel discorso di Marisa è che “se fosse previsto l’obbligo di denuncia da parte delle donne per rivolgersi al Centro antiviolenza (idea ricorrente nelle istituzioni), allora cadrebbe il muro portante della Casa delle donne maltrattate”
Queste sensibilità di alcuni Centri antiviolenza, dicevo prima, segnano il campo spesso in modo irriducibile rispetto ad altre sensibilità e politiche.
C’è per esempio la medicalizzazione, questo nuovo approccio agli uomini maltrattanti pensati come “le mele marce, i devianti”, a specchio delle donne pensate come “vittime” di violenza: gli uni e le altre, considerati come malati da curare.
Così si delegano le cure ad esperti, a diversi protocolli clinici per “le vittime” e “i carnefici”, che sono competenze anche importanti quando la violenza è esplosa ed è difficile da trattare (per esempio in carcere, alcuni gruppi di operatori lavorano anche bene con i sex offenders)…
Rimane però un senso di sradicamento di questa sensibilità e di questa politica di cura, se scollegata da un approccio più profondo alle zone d’ombra della nostra cultura, che fa della violenza maschile un modello culturale ancora dominante. E’ invece questa norma della violenza nella cultura dominante maschile, all’opposto della sua rappresentazione comune come devianza, che bisogna fare emergere e rimettere al centro della società e della politica, e questo non si fa per via di protocolli clinici.
Penso anche a quelle realtà di mediazione familiare, che si danno ancora come obiettivo “la tutela della famiglia” anche nelle situazioni di violenza sulle donne, quando ormai tutti i dati disponibili (in particolare dopo l’indagine multiscopo dell’Istat pubblicata nel 2007) dicono che in situazioni di violenza la famiglia diventa un contesto molto pericoloso, lo scenario di una sorta di “guerra a bassa intensità” contro le donne e la loro libertà…
E ricordo come anche il preambolo del disegno di legge della Pollastrini contro la violenza sulle donne, nel precedente governo di centrosinistra, contenesse l’obiettivo della “tutela della famiglia”, frutto della mediazione con i cattolici al governo.
E invece, anche qui c’è una scelta da assumere: ovvero che la violenza sulle donne non si media, non è negoziabile, neanche con “il sacro principio” della famiglia.
Allora, quali sono state le risposte a questi orientamenti così diversi, introdotti dai Centri antiviolenza di matrice femminista, rispetto alla cultura più comune?
Qualcuno ha risposto qualcosa, alle questioni sollevate da impostazioni così diverse del contrasto alla violenza maschile sulle donne, come quelle che riportavo sopra?
E in particolare, dove sono le istituzioni rispetto a queste scelte politiche, e dove siamo noi uomini?
Riguardo alle istituzioni, un segno preciso viene per esempio qui in Lombardia, dai tagli o dalla non-assegnazione di risorse pubbliche ai Centri antiviolenza.
Non c’è ancora una legge regionale in questo senso, anche se da anni è stata richiesta, ma solo una proposta di legge avanzata dalle stesse donne dei Centri antiviolenza (a fronte, per esempio a Milano, di oltre 25.000 donne assistite dalla Casa delle donne maltrattate).
Ma per quanto riguarda noi uomini, anche se sono ben consapevole della deriva delle rappresentazioni maschili dominanti oggi in Italia, ho da raccontare una novità, una esperienza che riguarda me stesso e alcuni altri uomini e donne. E ho un forte senso di quell’amicizia e di una nuova possibilità politica, che dicevo all’inizio.
Per spiegarlo, rimando alla lettura del documento introduttivo di un incontro pubblico, a Milano, il 23 maggio 2011, alla Camera del lavoro, ore 17, in cui racconteremo questa esperienza.
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