Ciccone
La pubblicazione di un appello di uomini contro la violenza sessuale suscita interesse e curiosità. Mi trovo così invitato alla trasmissione di Maurizio Costanzo su Canale 5.
La prima storia è quella di Gianna che, di spalle racconta di essere stata picchiata per dieci anni da un uomo:
“dopo un anno di fidanzamento durante il quale mi aveva fatto credere di essere l’uomo della mia vita divenne immediatamente violento tre giorni dopo essere diventato mio marito”. Quella nuova condizione, quel nuovo ruolo lo faceva sentire in diritto di imporre alla donna di non avere rapporti con altre persone, di tenere gli occhi bassi al ristorante, di non leggere riviste a lui sgradite. Costanzo e il suo ospite comprensibilmente inorridiscono all’ascolto di dieci anni di violenze e sevizie: si tratta di una gelosia patologica, è un malato o come dice la psicologa, un immaturo incapace di stare in una relazione percependo il proprio limite e riconoscendo l’altra.
Eppure non è una storia estrema, isolata. In studio ricordiamo che la violenza dei partner è la prima causa di morte e invalidità delle donne tra i 25 e i 44 anni, ricordiamo che più del 90% delle violenze avviene nelle nostre famiglie e non ad opera di maniaci per strada. E proprio l’immagine di famiglia come luogo in cui la legge e la società non mettono bocca perché posta sotto la tutela di un uomo ha fatto pensare al marito di Gianna di essere divenuto il padrone.
La storia apre una pagina di violenze, arrivano telefonate di donne costrette a vivere nelle case di accoglienza organizzati dai centri antiviolenza: Federica, però, ha fatto l’errore di accompagnare il bambino a scuola e il marito la seguita per picchiarla nel cortile del centro segreto dove era accolta.
Giunge la telefonata di una ragazza rumena: è stata portata in Italia con l’inganno da un amico di famiglia (di nuovo la famiglia come terribile luogo di violenza a cui ci si affida) che giunti in Italia, l’ha violentata, costretta a prostituirsi per poi venderla ad un albanese. Rimane in ombra il fatto che se i “gestori” sono stranieri i “consumatori” sono italiani. E italiani di tutte le classi, di tutte le età che pagano per poter fare sesso senza la “fatica” di una relazione, per sentirsi forti, per chiedere e ottenere quello che vogliono, per complicità col gruppo di amici con cui si passa insieme la serata, per un’idea di sesso che è bisognosi uno sfogo frettoloso in una strada di periferia.
Anche qui la reazione del conduttore, che prende sinceramente a cuore le vicende raccontate, è particolarmente significativa: bisogna far capire agli uomini che non c’è nulla di virile nel picchiare e segregare una donna. Anzi questi uomini che si sentono tanto forti sono dei quaquaraqua, la virilità è precisamente l’opposto.
Ogni storia ha una svolta quando quella donna smette di essere e di percepirsi vittima, Gianna chiede il divorzio, Federica si rivolge al centro delle donne, la ragazza rumena denuncia il suo “protettore”. Eppure la legge, l’immagine televisiva, il senso comune continuano a vederle vittime: donne e bambini bisognosi di tutela più che portatrici di diritti.
La pausa pubblicitaria lascia spazio alla commozione e all’indignazione in studio che si esprime nelle illuminanti parole della giornalista presente “mio fratello e mio padre un uomo che mi avesse fatto questo lo avrebbero ammazzato”.
La seconda parte della trasmissione si apre con una nuova storia, quella di un uomo ucciso per un banale litigio tra automobilisti. In studio la moglie racconta che i due assassini che avevano avuto l’alterco con il cognato e il marito, all’ingresso di una pizzeria, sono andati via minacciando vendetta e, tornati in cinque con spranghe e pistole, hanno ucciso il marito.
Anche qui la prima reazione di orrore porta a dire: certamente era gente che aveva bevuto o era drogata (si trattava di italiani e dunque per fortuna non c’è spazio per una lettura xenofoba). Ma la donna replica: se si torna in cinque dopo due ore armati non si può attribuire all’alcool una reazione di questo tipo. A nessuno viene in mente che si tratta anche in questo caso di una violenza fatta da uomini strettamente legata al loro essere uomini. Accanto a me il fratello della donna, esprime il suo dolore senza accorgersi della contraddittoria impotenza della sua reazione: “si può uccidere un uomo cosi? io non ammazzerei loro, ammazzerei il giudice che gli ha dato solo 18 anni, ammazzerei tutti quelli che stanno in Parlamento” per poi confidarmi che il figlio piccolo dell’ucciso ha cercato di comprarsi una pistola su internet e l’altro ha guardato agli scontri tra italiani nello stesso quartiere, il trullo, come l’occasione per imparare a essere un duro e vendicarsi. Inutile e impossibile giudicare parole dettate da un dolore simile ma è significativo quanto siano contigue culturalmente con la reazione di chi sentendosi offeso è tornato a farsi giustizia. Un uomo che subisca un’offesa, perde l’onore su cui si fonda la sua virilità. Non può sopportarlo, come non può sopportare una donna ch’egli dica di no o che lo lasci.
E l’alternativa è una virilità intesa come capacità dell’autocontrollo, del dominio delle emozioni (quelle emozioni che rendono le donne minori), dei propri istinti.
E che contiguità c’è tra una visione delle donne come soggetti deboli da porre sotto tutela, da proteggere dagli altri uomini e l’arbitrio che un uomo pensa di poter esercitare come “capofamiglia”? Si guarda a queste storie con l’occhio sulle vittime o sugli autori visti come ubriachi, malati. Resta invisibile il sottile filo che lega tutti alla comune appartenenza a un universo maschile, comune nella ua variabilità.
Che immagine del maschile emerge da queste storie? Uomini incapaci come bambini di stare in una relazione con una donna riconoscendone l’autonomia e la libertà e portati a esprimere la propria frustrazione in una violenza che paradossalmente diviene misura della propria passione o del proprio dolore. O della propria abnegazione a difesa delle proprie donne.
Uomini che consumano sesso nelle strade di periferia con donne schiave deportate da paesi più poveri di sera e che di giorno urlano contro l’immigrazione clandestina.
Non basta denunciare la violenza, non basta stigmatizzarla. Spesso le nostre stesse reazioni di indignazione, le nostre domande di punizione condividono lo stesso universo simbolico, lo stesso immaginario che ha generato quella violenza, quell’oppressione, quella miseria delle relazioni e delle emozioni.
Non possiamo combattere la violenza con il richiamo a una virilità che ne è stretta complice, ne’ a una civiltà dei costumi che sottintende una “natura” predatoria e violenza del maschile da cui non ci si può affrancare ma che può essere solo “governata” e dominata dall’altra capacità maschile che è quella dell’autocontrollo.
Dobbiamo riuscire a leggere questa miseria e proporre a noi e agli altri uomini un’altra vita, un’altra qualità delle relazioni e della sessualità possibile. Per uscire dalla violenza ma anche per noi.
Commenti recenti