Set 2006 La violenza Maschile
di Marco Deriu
Pubblicato su Via Dogana n. 78 Settembre 2006, pp. 21-23.
Negli ultimi mesi le cronache quotidiane ci hanno raccontato una triste sequela di delitti di coppie. La vicenda di Jennifer, la ragazza ventenne di Olmo di Martellago picchiata e uccisa incinta da Lucio, l’ex amante trentaquattrenne, è stata quella che più di tutte ha conquistato gli onori della cronaca per la brutalità della violenza. Ma negli ultimi anni si è registrata una catena di omicidi di donne. Un’indagine del Consiglio d’Europa resa pubblica nell’ottobre 2005 (che ha dato lo spunto per un interessante dibattito sul quotidiano Liberazione) ha rivelato che la violenza subita da partner, mariti, fidanzati o padri è la prima causa di morte e invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni non solo nel mondo ma anche in Europa.
Nell’analisi di questa violenza dobbiamo evitare di rifugiarci in semplificazioni automatiche, come se si trattasse di forme già conosciute, di residui di mentalità passate, di antichi retaggi. È vero che nella cultura patriarcale le violenze verso le donne ci sono sempre state. Ma la violenza di oggi non sembra essere il risultato di uomini che ritengono le donne esseri inferiori, da sottomettere, come poteva essere in passato. Stiamo parlando di violenze commesse da persone di ogni strato sociale, in tutti i paesi europei. In Italia poi si può notare che la maggior parte degli omicidi domestici avviene nel nord e in particolare in Lombardia, ovvero nelle regioni più ricche e sviluppate.
In realtà credo che stiamo assistendo ad una trasformazione delle forme e dei significati di questa violenza e che tutto questo ci parli del cambiamento nella vita delle donne, degli uomini e delle relazioni tra uomini e donne. Per comprendere la realtà attuale dobbiamo cominciare con l’osservare che oggi ci troviamo in una situazione nuova caratterizzata da quelle che il sociologo inglese Anthony Giddens chiama “relazioni pure”. Per relazioni pure si intendono relazioni non dettate da obblighi sociali o economici. In passato le relazioni tra uomini e donne erano costruite su ruoli, obblighi sociali, valori religiosi, progetti famigliari, calcoli economici, relazioni di potere e talvolta di coercizione. Non che tutto questo si possa dire completamente scomparso, ma certamente oggi – grazie ai cambiamenti culturali, alle conquiste sociali delle donne, e ad una maggiore autonomia economica e sociale – i legami tra donne e uomini, compresi quelli famigliari, si fondano in misura molto più rilevante sulla capacità di comunicazione e comprensione reciproca, su rapporti di intimità, sulla fiducia e sul rispetto, sulla disponibilità al dialogo e sull’adattamento reciproco, sull’intesa emozionale. In altre parole il rapporto di coppia non è dato una volta per tutte ma è frutto di un dialogo, di una contrattazione, di un’intesa e di una fiducia che va costantemente riaffermata.
Ora, tornando alla questione della violenza, la novità è che, a fianco di una violenza più di tipo “tradizionale” che colpisce soprattutto donne in situazione di marginalità sociale, oggi registriamo anche una violenza che sembra nascere invece dall’incapacità da parte degli uomini di accettare e accogliere un’autonomia e una libertà già entrate nella vita di molte donne. La violenza maschile oggi comincia a colpire la donna che non accetta più di costituire sempre e comunque il supporto dei bisogni dell’uomo. Colpisce la donna che – a torto o a ragione – apre conflitti e pone in questione l’uomo; la donna che decide di lasciare il proprio compagno; la donna che cerca di rifarsi una vita da sola o con qualcun altro; la donna che decide di portare avanti autonomamente la sua gravidanza. In qualche caso – ma su tale questione varrebbe la pena aprire un ragionamento a parte – anche l’affidamento dei figli alle madri nella separazione diventa un ulteriore elemento di conflitto e di risentimento verso le donne.
Stando ai dati offerti dalla ricerca “L’omicidio volontario in Italia. Rapporto 2005” curata dall’EURES in collaborazione con l’ANSA i casi in cui il fattore scatenante del delitto sarebbe dovuto alla decisione di separazione da parte della vittima coprirebbero nel 2004 circa il 31,6% degli omicidi in ambiente domestico. Questo problema riguarda soprattutto gli uomini e suggerisce così abbastanza chiaramente la realtà di una maggiore fragilità e dipendenza psicologica e di una minore autonomia da parte maschile.
Dunque credo che il tipo di violenza che abbiamo di fronte agli occhi non sia una semplice riproposizione della cultura e del potere patriarcali. Questa violenza non implica alcun rifiuto dell’uguaglianza tra i sessi e tanto meno un pregiudizio di inferiorità verso la donna. Al contrario, si può ipotizzare, segnala l’involontaria l’ammissione della compiuta autonomia femminile con un senso di inadeguatezza e difficoltà da parte degli uomini. Questa violenza ci racconta di un affanno e di una mancata rielaborazione maschile di fronte ad una libertà e un’autonomia femminile piuttosto che un potere maschile e una sottomissione femminile. Il delitto segnala semmai l’impossibilità, l’impraticabilità della sottomissione femminile. Da questo punto di vista i termini della violenza sulle donne sono dunque cambiati, stanno cambiando.
Riportando questo ragionamento alla sfera delle relazioni credo che oggi come oggi gli uomini commettano violenza soprattutto perché non accettano la differenza, ovvero non accettano l’alterità della propria compagna. Non accettano che la donna che hanno di fronte non sia semplicemente una continuazione, un riflesso del proprio desiderio o dei propri bisogni. Non accettano che essa possa scegliere in base al proprio desiderio e che questo non coincida con il loro o con la loro idea di relazione. In questo scacco – e nel conseguente senso di “impotenza” verso l’autonomia e la libertà femminile – emerge tutta la dipendenza, la fragilità e l’insicurezza nascosta degli uomini. Poiché tutti questi aspetti sono ancora intollerabili per molti uomini, li si nega ancora una volta tramite la violenza. Si potrebbe dire che molti uomini preferiscono cancellare l’alterità piuttosto che riconoscerla e accettare così la propria parzialità, la propria vulnerabilità, la propria impotenza. In questo senso questa nuova forma di violenza maschile sulle donne rappresenta un tentativo di cancellare la differenza e non l’uguaglianza.
Ciò che è difficile per gli uomini oggi non è riconoscere che le donne hanno pari dignità o valore degli uomini. Ciò che è difficile è stare di fronte ad una donna ed accettare che essa è altro da noi. Ebbene io credo che la relazione vera e propria può nascere solo nel momento in cui ogni uomo riconosce che la donna che ha di fronte non è una sua proiezione o un suo oggetto e che essa può differire da lui in tante cose, nel bene e nel male. Solo a quel punto può cominciare una relazione ed uno scambio reale e nonviolento. Dunque accettare la libertà di differire della donna, accettare la propria parzialità e limitatezza e accettare una relazione reale sono tre aspetti intimamente connessi. Da questo punto di vista, questa violenza, in un modo o nell’altro, ci interroga tutti. Non si tratta di prendere le distanze da una violenza che sta fuori di noi, che appartiene “agli altri”, agli “uomini violenti”, ma piuttosto di fare realmente i conti con una possibilità che è inscritta nella cultura comune. La violenza, il delitto sono soltanto una delle possibili conclusioni. Il dato comune a tutti, non è l’episodio conclusivo della violenza, ma ciò che la precede: la concezione della coppia, dell’amore, della relazione. Ciò che ci sembra normale perché non si manifesta nella forma della violenza esplicita e del crimine, ma che probabilmente è invece all’origine del problema.
Quello che noi uomini possiamo fare è cominciare a parlare delle nostre modalità relazionali, di come siamo nelle relazioni, di come costruiamo le relazioni, di come le neghiamo, di come ne abbiamo paura. Dobbiamo chiederci in che misura siamo riusciti ad accogliere la libertà e il libero desiderio delle donne nelle nostre relazioni e nel nostro modo di amare.
Credo che occorra dunque divenire tutti più maturi nell’interrogare le nostre relazioni affettive, uomini e donne assieme. Credo il problema nasca infatti dal fatto che le persone tendono a vivere le relazioni d’amore come “relazioni simbiotiche” in cui c’è implicitamente una coincidenza dell’altro con sé e di sé con sé. Non è ammesso il “differire” né fuori di sé né in sé. La situazione di simbiosi si ha quando due esseri vivono in una relazione talmente stretta e totalizzante da abolire il sentimento e l’esperienza della differenza. L’effetto che se ne trae è una situazione protettiva e difensiva, spesso anche un senso di sicurezza maggiore verso la vita e il mondo. Il costo tuttavia è la rinuncia alla conoscenza dell’altra persona e di sé, la menomazione di parti importanti di entrambi. Credo sia a questo genere di situazione che si riferisce Lea Melandri quando parla di un “sogno di comunione”. Credo anch’io che questo tipo di relazioni simbiotiche o fusionali possano essere viste come la riproposizione o la continuazione della relazione prenatale e infantile del figlio con la madre. L’altro soggetto è vissuto come necessario per la propria nutrizione e sopravvivenza.
Così l’altra persona non è percepita nella sua autonomia, nella sua alterità ma come appendice di sé. Il desiderio altrui non esiste se non come obbligato prolungamento del proprio. In questi termini il rapporto può essere complementare, quando uno dei due soggetti – in genere la donna – rinuncia a sé per soddisfare l’altro, o simmetrico, quando è all’opera una dinamica di conformismo reciproco. In entrambi i casi si registra almeno fino ad un certo punto una situazione di complicità tra i partner. Ciascuno è gratificato della propria posizione e del ruolo che ha nei confronti dell’altro. La percezione interiore e emotiva è quella del tutto pieno. Non c’è né ci può essere una percezione forte del negativo, della frattura, della ferita, dell’assenza, della mancanza, del vuoto. In questa illusione di trasparenza e di pienezza, si attua la rimozione del mistero dell’altro/a. Non si è consapevoli dell’esistenza del mondo interiore della persona che amiamo, di possibili desideri, aspirazioni, bisogni autonomi e non sospettati. Allo stesso tempo questa mancanza di riconoscimento dell’altra persona coincide con la perdita anche di una reale percezione di se stessi.
In questa condizione, l’esperienza dell’abbandono, della fine della relazione, può diventare qualcosa di sconvolgente e intollerabile. Perché con la fine della relazione simbiotica può andare in frantumi anche il senso di sé e il senso della realtà. A questo punto piuttosto che riconoscere la propria dipendenza, e ridiscutere il proprio senso di sé e la propria idea di relazione, si preferisce rifugiarsi nella violenza.
Il carattere non solo di impotenza ma anche di intollerabilità di queste situazioni emerge anche dai numerosi casi di omicidio-suicidio diffusi soprattutto tra gli uomini. Essi mostrano che non c’è solo rabbia verso le proprie ex partner ma anche il crollo di un rapporto con se stessi e contemporaneamente l’ammissione dell’incapacità di uscire da una certa cornice di senso.
L’anno scorso la Comunità di Diotima ha proposto il tema del lavoro del negativo, della forza del negativo. Varrebbe la pena declinare questo tema anche nelle esperienze delle relazioni affettive tra uomini e donne. Se c’è un apprendimento in amore, esso passa anche attraverso l’accettazione e l’integrazione del negativo. Si impara a conoscere e a conoscersi attraversando esperienze d’ogni genere. Alcune volte sono incontri, slanci, gioie, doni, condivisioni e appagamenti. Altre volte sono invece delusioni, abbandoni, tradimenti, ferite, incomprensioni e misteri insondabili. Nella mia esperienza anche questi ultimi vissuti dolorosi e negativi sono stati passaggi fondamentali e costitutivi perché mi hanno messo di fronte all’esperienza del limite, della mia parzialità, del riconoscimento di altre persone. Tali esperienze ci incrinano l’illusione di controllo sulla nostra vita, sulle relazioni, sulle persone. Ci smontano la pretesa di poter disporre di ogni cosa a piacimento. Ci permettono di dissolvere l’immagine di una relazione senza vuoti e senza distanze che ci eravamo costruiti. Ci obbligano infine ad ammettere una soglia di non comprensione, oltre la quale si deve accettare l’altra persona per come si presenta o per come si nega a noi, senza cercare ulteriori spiegazioni. Tutti questi vissuti non sono esperienze perse, ma tappe di una maturazione, necessarie per imparare ad amare, per divenire capaci di intrecciare il proprio desiderio a quello di un’altra persona, senza soffocare nessuno dei due.
Costruire una civiltà delle relazioni tra uomini e donne significa allora apprendere reciprocamente ad incontrarsi e a lasciarsi, ad acconsentire alla vicinanza e alla distanza perché entrambe le cose – sempre e in ciascun momento – sono insieme condizioni dell’amore.
Commenti recenti