di Marco Palillo
Phd candidate alla London School of Economics, blogger, attivista per i diritti civili
Pubblicato il 7 gennaio su
http://www.huffingtonpost.it/marco-palillo/i-fatti-di-colonia-riguardano-tutti-noi-maschi-non-solo-i-migranti_b_8928918.html
Gli episodi di Colonia hanno squarciato un velo. Nell’Europa multietnica c’è un problema che riguarda il rapporto fra i generi. Un gruppo di uomini ha attaccato un gruppo di donne in un luogo pubblico e le ha sottoposte a violenze, molestie, palpeggiamenti. Sono fatti inaccettabili e non possiamo sottovalutarli. Così come non può essere sottovalutato un dato culturale, e cioè che protagonisti di queste azioni sono migranti provenienti da una specifica regione del mondo, con uno specifico background culturale-religioso.
Le donne europee sono indignate, non vogliono (e noi insieme a loro) rinunciare alle conquiste di civiltà che le nostre madri hanno faticosamente conquistato. Speriamo anzi che questa indignazione provochi una nuova ondata di attivismo. Sono d’accordo con Lucia Annunziata quando scrive che sull’inviolabilità del corpo femminile non si passa e che non è possibile fingere di non vedere il disagio e le paure che si annidano nelle nostre periferie. Ma allo stesso tempo credo che il problema non siano le migrazioni in quanto tali – possono essere anzi un’opportunità prodigiosa di cambiamento sociale verso la parità fra i sessi e la libertà sessuale – né l’Islam in sé. La questione è semmai la gestione confusa del multiculturalismo.
Da due anni studio alla London School of Economics di Londra e mi occupo di Masculinities, una branca degli studi di genere relativamente nuova. Susan Moller Okin nel suo libro “Is Multiculturalism bad for women?” ha spiegato proprio che le insidie maggiori del multiculturalismo si riverberano sulle donne, perché la tutela delle diversità culturali possono nascondere pratiche ancorate al patriarcato e alla subordinazione delle donne. I fatti di Colonia lo confermano. Il patriarcato, inteso come struttura di potere, è vivo e vegeto, ma ha mutato forma, e ha trovato nuova linfa vitale sia in certi ambienti culturali sia (e soprattutto) nel disagio economico-sociale che attanaglia le nostre periferie e i nostri ghetti. Pratiche orrende come le mutilazioni genitali sono approdate in Europa, e non sono pochi i casi di violenza domestica, misoginia e omofobia nelle comunità di migranti.
Riconoscere queste problematiche, parlarne, contrastarle non significa rinunciare all’accoglienza o alimentare il razzismo. Il multiculturalismo resta l’unica strada percorribile in un mondo globalizzato. Proprio per questo è utile alimentare il dibattito pubblico, soprattutto con le e dentro le comunità di migranti, e produrre una coscienza critica che stigmatizzi e argini questi episodi inaccettabili. Dobbiamo avere tutti – donne e uomini – la capacità di essere critici nei confronti di tutte le forme di maschilismo e di violenza contro le donne, che si annidi dentro o fuori alle comunità islamiche d’Europa. La cultura e la religione possono essere uno strumento di produzione di violenza e sessismo, ma chi studia le migrazioni ci mette in guardia sulla spiegazione culturalista. Essa è infatti assai insidiosa, perché essenzialmente funzionale all’uso politico di discorsi razzisti: la propaganda anti-migranti è tutta basata sulla mascolinità dei migranti che vengono a rubare, stuprare e uccidere, mentre a noi tocca difendere le “nostre” donne (come ha scritto Bruno Vespa ieri in un tweet).
In secondo luogo, la spiegazione culturalista nega le differenze, come se tutti i maschi migranti fossero quelli di Colonia o tutte le donne islamiche poverette recluse nei sottoscala dai mariti e dai padri. La realtà ci dice che non è così e che la violenza contro le donne riguarda i migranti tanto quanto gli occidentali (per esempio attualmente in America si discute molto degli stupri di gruppo nei college universitari). Eppure non si può negare che molti migranti provengono da società in cui l’essere maschi è connesso ad una serie di privilegi, compreso quello di disporre a piacimento del corpo delle donne. Quando arrivano in Europa il loro status viene degradato, diventano uomini marginalizzati a causa della loro posizione di migranti, non sono più in grado di esercitare il proprio potere egemonico nei confronti delle donne e degli altri uomini. Da ciò nasce un grande senso di frustrazione che può sfociare in episodi di violenza e sessismo. In questo caso è evidente che l’obiettivo principale sono le donne occidentali, la cui libertà è vista come una vera e propria minaccia. Per dirle in parole povere, in un’ottica gerarchica questi uomini non sono abituati ad avere delle donne al di sopra di loro in termini di status sociale.
Noi studiosi di Masculinities chiamiamo marginalising masculinities (Connell, 1995) quella categoria di uomini che vorrebbero essere egemonici nel sistema di potere patriarcale, ma non possono accedere a quei privilegi a causa delle caratteristiche socio-economiche, per esempio l’etnia o il colore della pelle. In sostanza, come spiega bene Helena Janezek si crea un cortocircuito tra vecchia (o arcaica) cultura patriarcale e quella predatoria sottocultura post-moderna che si nutre dalle frustrazioni e del rancore di chi è tagliato fuori dall’accesso al benessere e al riconoscimento sociale. Privati dei mezzi economici in una società ultra-capitalista, alcuni uomini ritornano a forme primordiali di virilità per affermare e verificare la propria mascolinità nei confronti sia delle donne che degli altri uomini. Le subculture locali (in questo caso della sponda sud del Mediterraneo) incontrano e si mischiano ad un immaginario maschile globale, frutto dei processi economico-politici contemporanei, creando così nuove e inaccettabili forme di patriarcato di cui le migrazioni possono essere veicolo. In alcuni casi, questi stessi uomini conservano il loro status all’interno delle mura domestiche e riproducono con mogli e figlie un sistema di potere autoritario e dispotico. In altri casi il multiculturalismo produce anche effetti positivi e rompe le catene del potere maschile sulle donne e favorisce l’emancipazione delle ragazze, specialmente quelle delle seconde generazioni.
In estrema sintesi, i fatti di Colonia ci indicano due errori da evitare: da un lato non si possono negare le insidie del multiculturalismo e il problema di certi ambienti culturali verso la libertà delle donne e delle minoranze, dall’altro la violenza maschile non può essere problematizzata come fatto essenzialmente culturale che riguarda solo gli islamici. Occorre, piuttosto, ribellarsi all’inciviltà in maniera aperta coinvolgendo tutti, a partire dalla comunità di migranti. Ma soprattutto è importante coinvolgere in questo discorso tutti i maschi: la violenza maschile è un nostro problema, una nostra colpa. E non è detto che gli uomini che hanno assalito le donne di Colonia la notte di Capodanno non abbiano agito sotto un arcaico fantasma maschile che riguarda ancora tutti, cristiani, musulmani e atei, occidentali e no, migranti e nativi.