Pubblichiamo questo testo come contributo alla discussione che si svolgerà durante l’incontro alla Libreria delle donne di Milano di domani 11 luglio 2014.
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Un racconto coinvolto.
A proposito della recente esperienza di Maschile Plurale
di Marco Deriu
In questo intervento vorrei provare a raccontare un percorso di impegno personale e associativo a partire da una vicenda di maltrattamenti psicologici che ha coinvolto una persona di Maschile Plurale. Questo scritto è diviso in due parti. La prima ricostruisce l’intero percorso dal mio punto di vista raccontando un impegno e un confronto dentro Maschile Plurale che è continuato per tutti questi mesi e che ha avuto un nuovo importante passaggio con l’incontro che si è tenuto nel week end del 28/29 giugno scorso. Non è solo un resoconto ma il diario di una riflessione in itinere, di un pensare in situazione. Intervengo con molta cautela perché la mia percezione dei fatti è inevitabilmente mediata dalle confidenze che i diversi protagonisti mi hanno fatto e dunque mentre provo a raccontare il mio vissuto mi sforzerò di rimanere sull’essenziale e di non dire nulla che tradisca lo spirito confidenziale di certe comunicazioni.
La seconda parte rappresenta invece il tentativo di trarne alcuni apprendimenti di carattere più generale che vorrebbero suggerire una possibilità di riflettere e discutere con una prospettiva più complessa e riflessiva. Per me, le due parti sono strettamente e intimamente collegate, ma chi non è interessato a entrare nello specifico di una vicenda e preferisce arrivare subito ad alcune questioni culturali e politiche, può saltare direttamente alla seconda parte.
Parte 1. Riflessioni in itinere
Nel dicembre scorso ho ricevuto da un’amica femminista una mail con la quale mi diceva che col consenso dell’interessata mi inoltrava una mail personale che lei aveva ricevuto. In questa comunicazione l’autrice raccontava di aver lasciato il suo ex compagno perché lo considerava un uomo violento in quanto aveva tentato con modalità continuative e crescenti – nella mail raccontava di “ritualità”, “manie”, “comportamenti prevaricatori” e “piccole angherie” – di controllarla e umiliarla. L’uomo nominato nella lettera era un amico e un membro di Maschile Plurale. Certo ero sorpreso di questi racconti, ma per la mia esperienza questo tipo di comportamenti non sono certo una rarità tra gli uomini.
L’amica femminista mi metteva a parte di quanto aveva saputo anche per il fatto che aveva suggerito alla protagonista di questo racconto di parlare con me e con un’altra persona di MP.
Nei giorni successivi ho parlato al telefono con la mia amica, dicendole che avrei certamente parlato con l’amico di MP, ma che ero disponibile a sentire e a incontrare anche la donna coinvolta per ascoltare il suo racconto. Poco dopo ho ricevuto una mail direttamente da questa persona nella quale mi diceva tra le altre cose di essersi rivolta alla Casa delle donne della sua città (l’informazione è stata già resa pubblica). Mi comunicava inoltre la speranza che qualcuno dell’Associazione avesse a cuore la situazione e potesse parlare direttamente con il suo ex compagno. Da ultimo mi confermava che, nel caso fossi stato disponibile, non avrebbe avuto problemi a confrontarsi con me.
Le rispondo il giorno stesso e le dico che sono intristito dal racconto e dalla sofferenza che ha vissuto e che avrei cercato di parlare con il diretto interessato, ma che prima avrei preferito incontrarla faccia a faccia per ascoltare un suo racconto più ampio e approfondito. Con un rapido scambio di mail riusciamo dunque ad accordarci per vederci qualche giorno dopo nella città dove risiede. Nell’incontro durato oltre due ore ho ascoltato con attenzione il suo racconto e il vissuto di sofferenza. I maltrattamenti raccontati avevano a che fare con un atteggiamento continuativo di negazione riguardante molteplici aspetti della sua personalità, del suo carattere, delle sue passioni, delle sue abitudini e inclinazioni. L’aspetto che in me è risuonato come più significativo e angosciante, più che singoli episodi, era la sensazione di un sfondo cupo di piccoli colpi al senso di sé, ricevuti in maniera martellante.
Nell’ascolto ho cercato di sentire la storia senza discutere o giudicare, accogliendo la sofferenza così come si dava e come insegna la pratica dei Centri Antiviolenza. Personalmente non ho avuto incertezze nel riconoscere una sofferenza profonda e nel recepire il suo vissuto di maltrattamenti o di violenze psicologiche. In altre parole ho dato credito al suo racconto e al suo vissuto.
Nel salutarci le ho detto che sia io che altri di Maschile Plurale avremmo certamente parlato con l’interessato e cercato di aprire un confronto e uno scambio con lui a partire dal suo (di lei) racconto.
Un paio di settimane dopo, in gennaio, mi sono effettivamente confrontato con lui sulla base di quello che avevo sentito. Il suo racconto era radicalmente diverso, a partire dal disaccordo su chi aveva lasciato chi. Non solo rigettava l’attribuzione di aver avuto comportamenti violenti o forme di maltrattamento nei suoi confronti, ma affermava che queste accuse erano frutto del risentimento dovuto alla conclusione della relazione e di un’operazione sistematica di discredito nei suoi confronti.
Fin da questo primo incontro il mio sforzo non è stato di stabilire le effettive circostanze di fatti e comportamenti, o di voler inquadrare gli avvenimenti in maniera definitiva, ma di richiamare il fatto che c’era un indiscutibile vissuto di sofferenza e un racconto di maltrattamenti e violenza e di sottolineare che da questo bisogna partire per rileggere il proprio modo di stare in relazione e i comportamenti che avevano causato un profondo malessere.
Il fatto che ci sia una narrazione e un vissuto radicalmente diverso, per la mia esperienza non è affatto sorprendente. È il “normale” punto di partenza con cui bisogna fare i conti nelle relazioni tra uomini e donne, tanto più quando si parla di situazioni di maltrattamenti o violenze. È il momento in cui un uomo decide di misurare il proprio sentire con l’esperienza dell’altra e della sua radicale differenza, e con l’immagine di noi che l’altra ci rimanda, oppure no.
Un errore tira l’altro: il dibattito sui social network
Per una lunga fase i diretti interessati non hanno preso parola pubblicamente. Tuttavia lo hanno fatto persone vicino a loro aprendo un intenso e insistito dibattito su facebook che ha visto numerosi interventi. Nel contempo tutta una serie di persone che conosciamo e che sono in relazione con noi sono state contattate per informarle dei comportamenti di un membro di Maschile Plurale. Siamo stati interpellati quindi sia tramite il web, sia attraverso rapporti indiretti e invitati a prendere parola pubblicamente.
Il dibattito su facebook è stato aperto nella seconda metà di gennaio da alcune persone che hanno duramente contestato l’interessato e lo hanno invitato a riflettere sul proprio comportamento nelle relazioni con le donne, affermando che una sua ex era finita in terapia alla casa delle donne, ed evocando ipotetiche denunce e forme di complicità o omertà.
In quel frangente un gruppo di persone dell’Associazione sono state stimolate a riflettere su alcuni aspetti. Da una parte una specifica vicenda di maltrattamenti psicologici veniva richiamata sul web sotto forma di accuse generiche e non circostanziate. Dall’altra alcuni commenti immaginavano un’ipotetica denuncia e forme di complicità o omertà da parte di qualcuno.
Come prima reazione alcuni di noi avevano preparato un testo che richiamava per sommi capi la vicenda, compresa l’esplicita nominazione della violenza psicologica e che affermava che eravamo informati dei fatti, impegnati nell’ascolto e confronto con i protagonisti, e che ritenevamo tuttavia che il social network non fossero il luogo adeguato per affrontare questa vicenda. Questa bozza di testo a mio parere era equilibrata perché nominava la questione, diceva cosa stavamo facendo e contemporaneamente prendeva posizione contro questo tipo di discussioni sul web. Tuttavia attorno a questo c’è stato un teso e faticosissimo dibattito tra di noi che è continuato a più riprese fino ad aprile senza riuscire a trovare un accordo. Il risultato di questa discussione senza chiare vie d’uscita condivise, è stato una mediazione al ribasso: un testo anodino pubblicato in aprile che scontentava diversi di noi e che personalmente ritenevo sbagliato. Il testo non chiariva nulla e, come era facilmente prevedibile, anziché chiudere le polemiche le ha rilanciate. Diverse persone hanno infatti accusato esplicitamente l’Associazione di esprimersi in maniera vaga e di non voler parlare di violenza per coprire in qualche modo i comportamenti di un proprio associato.
In verità il punto della discussione era stato piuttosto se e come raccontare per sommi capi la vicenda (sul web). Ma nella sostanza l’errore è nato dal fatto che in quel momento nel gruppo di persone coinvolte si è voluto a tutti i costi applicare la solita prassi consensuale, in un frangente in cui era sbagliato farlo e in cui ci dovevamo invece assumere la responsabilità di pubblicarlo nella sua forma originale anche senza il consenso di tutti. Detto in altri termini, secondo me in quel momento ciò che ha fatto difetto è stata la nostra capacità di praticare il conflitto dentro l’associazione. La capacità di assumersi responsabilità e di confliggere c’è stata da subito e non è mai venuta meno a livello di relazioni duali, mentre la capacità di gestire il conflitto a livello più allargato dentro l’associazione, a mio modo di vedere, è maturata più lentamente e faticosamente. Questo è il punto politico su cui mi sono personalmente e dolorosamente interrogato e su cui secondo me l’associazione dovrebbe riflettere e imparare qualcosa.
Cercando di essere onesto con me stesso, riconosco che in quel momento, dopo mesi di discussioni emotivamente e interiormente logoranti e dolorose, mi è mancata la forza e l’autorevolezza per tenere una posizione più forte. Credo che ammettere e riflettere su questo tipo di debolezze, in un contesto come quello della violenza maschile sulle donne, sia importante, perché altrimenti si rischia di credere che nelle relazioni ci sono quelli/e forti e quelli/e deboli, quelli/e che si impongono e si fanno rispettare e quelli/e che subiscono o non riescono ad affermare la propria differenza. Non è così. Nella quotidianità delle relazioni e soprattutto nei conflitti prolungati, siamo tutti – anche coloro che si occupano di contrasto alla violenza – esposti a vulnerabilità e debolezze e non possiamo davvero comprendere l’esperienza altrui se non riconoscendo le nostre stesse difficoltà e la natura di questa esposizione al logoramento.
Di seguito a questo errore, alla pubblicazione di quella breve dichiarazione/non dichiarazione, ne è seguita una lunga discussione su Facebook in cui a mio modo di vedere sono state fatte critiche a volte legittime e pertinenti a volte no. Nella discussione alcuni di noi sono intervenuti a titolo personale, mentre altri hanno preferito – a torto o a ragione – tenersene fuori.
Imparare dagli errori: come (non) discutere della violenza
Personalmente ho scelto di non intervenire su facebook o blog per vari motivi. In primo luogo ero e resto convinto che se una persona ci racconta di aver subito forme di maltrattamenti o violenze è bene rispettare uno spazio di anonimato, riservatezza e non giudizio. E se nella lunga esperienza dei Centri antiviolenza c’è questa pratica di non esposizione, e nessuno si è mai sognato di dire qualcosa su un social network o su un sito, è per ragioni reali e profonde che andrebbero meditate più a fondo.
In secondo luogo ho una certa esperienza di confronto con persone che hanno commesso qualche forma di violenza o maltrattamento. Dalle più gravi e ripetute alle più sottili e occasionali. L’aspetto comune è la resistenza a riconoscere le proprie responsabilità a partire dalla difficoltà di riconoscere e integrare anche un’immagine problematica e negativa di sé. Le mie remore a dibattere di simili vicende sul web non riguardano dunque solamente il desiderio di evitare processi virtuali o schieramenti mediatici, ma di considerare che per un uomo sarà più facile parlare, confrontarsi e avviare un processo di problematizzazione di specifici comportamenti o atteggiamenti violenti se non è sotto i riflettori e se non viene fatto oggetto ripetutamente di accuse generiche che evochino scenari nei quali non si riconosce e che può vivere come tentativi di discredito.
In terzo luogo devo dire che non sento consono al mio modo di confrontarmi le discussioni virtuali, on line (social network, blog, forum). Non è solo che in rete chiunque può leggere, intervenire, interpretare, lanciare commenti pro o contro, dare giudizi, emettere sentenze, insultare ecc. nella totale assenza di un incontro e di una misura. L’aspetto che trovo problematico è che nelle discussioni virtuali non siamo mai posti di fronte al volto dell’altro/a, non siamo esposti al suo corpo, alle sue espressioni non verbali, alla possibilità di percepire le sue emozioni o quei segnali che aiutano a capire come si deve percepire quello che si sta dicendo. Talvolta in rete non si sa nemmeno con chi si sta parlando, non confrontiamo così né volti né storie. Credo che proprio la mancanza della presenza viva e corporea dell’altro ci spinga a concentrarci sulle singole frasi o parole in maniera troppo rigida brandendole come bandiere o come clave. Ma il fatto è che proprio quando pensiamo di inchiodare le persone alle parole ci sfugge l’essenziale, ovvero la dimensione dinamica e relazionale del linguaggio, ovvero la possibilità di venirsi incontro, anziché scavare trincee.
In questi contesti di discussione, mentre non siamo esposti al volto dell’altro, ci sentiamo invece sotto gli occhi di tutti: questo ci spinge a dire cose e a posizionarci anche in ragione del gruppo e della paura di essere a nostra volta messi in discussione. Per questo emergono facilmente schieramenti, capri espiatori, duelli all’ultima parola. Dovremmo riflettere anche sui potenziali di violenza insiti in questo tipo di contesti e dinamiche.
Per tutti questi motivi ho scelto consapevolmente di non partecipare a una forma di discussione nella quale non mi riconosco e di seguire tempi e modi di parlare e agire che ritengo appropriati al mio sentire. Sentivo fra l’altro una forzatura esprimermi pubblicamente prima di aver compiuto alcuni passaggi a livello interpersonale e dentro l’associazione. Ho preferito anteporre (fino all’incontro di MP di fine giugno) una pratica di ascolto e confronto diretta e in presenza, alle pur legittime e comprensibili aspettative di espressione e posizionamento pubblico.
Aggiungo per completezza che mi sono sentito di comunicare anche a lei il motivo per cui ritenevo del tutto sbagliato intervenire in questo modo su facebook e che quella polemica avrebbe nei fatti finito con l’esporla sempre di più rendendole più faticoso il suo percorso e avrebbe reso sempre difficile il lavoro con lui che si sarebbe chiuso a riccio. Ho spiegato contestualmente che questa mia distanza non significava non farsi carico di una discussione. Al contrario ho spiegato come a mio modo di vedere Maschile Plurale doveva affrontare una situazione che metteva in gioco le nostre relazioni e le nostre amicizie, ma anche la nostra umanità; che ci sfidava nella nostra capacità di aprire confronti schietti e profondi senza far sconti a nessuno, tantomeno alle persone a cui vogliamo bene. E che soprattutto metteva in gioco la capacità di aprire un confronto anche in noi stessi e con noi stessi. Dunque ho detto che nessuno delle persone con cui mi ero confrontato in Maschile Plurale intendeva rinunciare o saltare questo confronto.
Il dibattito in rete è stato fin dall’inizio inquinato da accuse, pregiudizi e sospetti generalizzati, dall’impossibilità di esprimersi chiaramente su informazioni e racconti confidenziali, dall’errore di confondere piani diversi della discussione (la vicenda specifica e i vissuti delle persone coinvolte da una parte, le impressioni e le aspettative personali, il ruolo e la credibilità di un’associazione di uomini). E ritengo che gli errori di comunicazione di Maschile Plurale abbiano contribuito ad alimentare questa confusione.
Nonostante questi limiti strutturali, la discussione, ha offerto anche degli spunti importanti. Personalmente ho trovato interessanti e stimolanti alcuni dei contributi e delle critiche che sono state rivolte all’associazione (e quindi indirettamente anche a me). Più nello specifico alcune sollecitazioni e interrogazioni critiche ci hanno aiutato a mettere a fuoco meglio la necessità di distinguere il piano della vicenda personale dal piano dell’assunzione di responsabilità politica dell’associazione.
Personalmente ero convinto fin dall’inizio della necessità di distinguere tra le due cose, ma non mi era chiaro come si sarebbe potuto farlo.
A livello associativo abbiamo provato a un certo punto a fare un passo avanti, scrivendo un testo e assumendocene la responsabilità (come gruppo che aveva seguito la vicenda) senza cercare il consenso di tutti. In quel momento il piccolo gruppo di persone che a vario titolo aveva seguito questa prima fase della vicenda (una decina di persone circa) ha scelto di rivolgersi all’intera rete associativa. Abbiamo dunque scritto alle persone che fanno parte della nostra rete (una quarantina di persone di diverse città d’Italia), per informare e coinvolgerli nella riflessione, dopo di che il testo è stato messo sul sito i primi giorni di giugno. Il testo riprendeva anche l’idea, suggerita da amiche e amici interni ed esterni all’associazione, di organizzare degli incontri in presenza per parlare liberamente del nostro vissuto e del ruolo dell’associazione, distinguendo così una nostra riflessione personale e politica dal percorso dei protagonisti di questa vicenda. E credo che il primo incontro organizzato per l’11 luglio presso la Libreria delle donne Milano costituirà un’occasione preziosa.
Tra cura e conflitto: un confronto non banale
La rete ha uno spazio sempre più importante nelle nostre vite. Ma a volte rischiamo di incorrere nell’errore di pensare che se qualcosa non avviene o non viene “registrato” in rete allora non è reale. Per fortuna non è così. Mentre continuava, sempre più animata, la polemica sul web, personalmente ho proseguito il mio percorso di confronto interpersonale e associativo.
Con “lei”, dopo esserci incontrati a dicembre ci siamo scambiati numerose mail tra gennaio e marzo. Pur senza entrare nel merito dei contenuti di scambi confidenziali, ho tenuto a dirle che avevo incontrato più volte il mio amico e mi ero confrontato molto schiettamente con lui e che il confronto era stato intenso e conflittuale. Eravamo rimasti in una situazione di disaccordo e divergenza di vedute, anche se la discussione era stata rispettosa.
Nello scambio di mail con lei ho chiarito e ribadito in diverse occasioni che mi assumevo l’impegno di creare, insieme ad altri di MP, occasioni di confronto e di riflessione sinceri sulla vicenda anche con il nostro amico. Per una certa fase l’ho anche informata senza entrare nei contenuti di confronti e comunicazioni private – come personalmente stavo e vivevo in questi scambi.
Dopo questa fase non ho continuato questa condivisione perché sentivo il rischio di divenire involontariamente un terreno di collegamento tra le due persone protagoniste di questa vicenda più che un aiuto in un percorso di distanziamento e superamento.
Sull’altro fronte, il confronto con il nostro amico è continuato per tutto questo tempo in diversi modi e occasioni. Lui stesso si è reso disponibile ad un nuovo incontro a fine marzo, in cui abbiamo ridiscusso a fondo tutta la vicenda, alla presenza di un’altra persona dell’associazione.
Ci sono stati inoltre un gran numero di scambi via mail e di discussioni a piccoli gruppi tra le persone dell’associazione. Infine, siamo riusciti il week end del 28-29 giugno scorso, a organizzare un’occasione di discussione nella quale gran parte dei membri dell’associazione (che vengono da molte città diverse) erano presenti, compreso l’interessato che ha avuto modo di offrire il suo racconto e il suo punto di vista per esteso. Ci siamo confrontati a fondo e in maniera molto franca e diretta per quasi otto ore.
Non credo di aver mai partecipato a uno scambio così coinvolto, così denso e così vitale. Tutta la nostra storia era lì. Erano lì le nostre difficoltà, le nostre contraddizioni, i nostri pregiudizi, le nostre aspettative, ma anche la nostra intelligenza, le nostre passioni, la nostra sensibilità, la capacità di confrontarci e confliggere. Ci siamo parlati, ci siamo confrontati, sono emerse tante differenze e allo stesso tempo abbiamo cercato di vedere e nominare in modi diversi la trama e il senso della nostra discussione. C’era una complessità che emergeva non solo dalla compresenza di vissuti, emozioni e riflessioni, ma anche dal fatto che si intrecciavano dimensioni personali e interiori, dimensioni interpersonali, dimensioni gruppali e dimensioni politiche. Lo sforzo è stato di vedere assieme e al tempo stesso di distinguere queste diverse dimensioni pur in presenza di punti di vista molto diversi.
Per fare un esempio della diversa percezione delle cose dentro e fuori l’associazione il nostro amico ci ha descritto lo scenario di una “guerra a distanza” e ci ha rimproverato più volte di essersi sentito solo perché avremmo preso in considerazione soprattutto la sofferenza di lei e non la sofferenza di lui che si sentiva oggetto di una campagna denigratoria. Sosteneva che l’accusa era sproporzionata ai fatti, mentre a suo dire le critiche e di contrasti si erano sempre mantenuti entro quello che lui considerava un livello di conflittualità “fisiologico” in una coppia. Ci ha accusato inoltre di non voler vedere gli atteggiamenti persecutori o violenti quando sono commessi dalle donne.
Alcuni di noi hanno replicato che non si potevano mettere i due racconti sullo stesso piano, che nelle vicende di maltrattamento c’è sempre un vissuto differente e che quello che è “fisiologico” per uno può non esserlo per l’altra, e che il punto è proprio questo: occorre misurarsi con questa asimmetria. In diversi hanno contestato una resistenza a fare realmente i conti con il racconto di lei, che significa abbassare le difese e mettersi davvero in discussione, riconoscere le proprie ombre e le possibili rimozioni, e confrontarsi senza tentare di delegittimare l’altra persona. Altri hanno richiamato e indicato la pratica della condivisione in piccoli gruppi di autocoscienza come passaggio fondamentale per fare i conti con la propria esperienza.
Nel gruppo la discussione attorno a questa vicenda che ci ha coinvolto da vicino, ha lasciato emergere pregiudizi e stereotipi, difficoltà con donne e con uomini, e anche semplificazioni o ingenuità rispetto alle dinamiche che si instaurano nelle relazioni di maltrattamento tra uomini e donne. Ma questo è stato a mio parere un arricchimento perché ha permesso, forse per la prima volta, di affrontare a fondo, dentro l’Associazione, tutte queste cose e di imparare qualcosa in profondità.
Credo che per l’Associazione sia stato un passaggio e un momento di apprendimento cruciale dal quale possono nascere molti rilanci. Per me ha significato la chiusura di un ciclo e la possibilità di intervenire pubblicamente in maniera più libera perché abbiamo avuto la possibilità di parlarci e di dirci quello che pensavamo fino in fondo.
Dunque dal mio punto di vista questo periodo non è stato affatto un lungo silenzio, come può essere apparso ad altri, specialmente al di fuori dall’associazione. Certamente dentro e fuori a Maschile Plurale abbiamo vissuto questa storia in modi, ruoli, tempi e consapevolezze differenti. Ma per me è stato un lungo e profondo coinvolgimento emotivo, riflessivo, relazionale e intellettuale, che mi ha dato occasione di mettere in discussione me stesso, le mie relazioni e la mia pratica politica fino in fondo.
Io ho cercato di dedicare molte energie e di mettere in campo (come abbiamo scritto nel testo pubblicato nel nostro sito) “cura, capacità di ascolto e sensibilità”. Penso tuttavia che la parola “cura” sia associata a immagini che andrebbero chiarite e discusse perché altrimenti ingenerano confusione. Le dimensioni psicologiche e terapeutiche sono un aspetto importante, che chiamano in gioco legami interpersonali o competenze specifiche, ma non possono esaurire il senso di questa parola, soprattutto nel contesto della violenza di genere. C’è, come dicono alcune amiche femministe, una “cura del vivere” che è cosa più ampia dell’assistenza alle persone.
Cosa fare quando si viene a sapere di comportamenti e di vissuti di violenza nel proprio ambiente di relazioni? Come ci si può mettere in gioco e prendersi cura di una ferita che ha riguardato alcune persone e un contesto di relazioni?
Per me (parlo in prima persona, ma naturalmente ho vissuto tutto insieme e a fianco di altre persone dell’associazione) ha avuto a che fare con il riconoscimento di una situazione segnata da comportamenti e vissuti di violenza che ha avuto sviluppi altrettanto problematici che si sono estesi a tutto un ambiente di relazioni. Ha significato l’assunzione di una responsabilità personale, l’impegno di ascolto verso diverse persone, e di confronto in particolare con la persona con cui condivido una relazione di amicizia e una relazione politica attraverso MP. Ha significato anche un enorme lavoro diretto di parola, scrittura, di organizzazione di incontri, scambi, discussioni in una ampia trama di relazioni; ha significato esporsi, condividere, confliggere, versare lacrime, ricevere accuse e rimproveri, rielaborare in più momenti la rabbia e la frustrazione. Un lavoro impegnativo, silenzioso, faticoso e doloroso e, ovviamente, non riconosciuto.
Una cosa che ho imparato in questa esperienza è che ci può essere conflitto anche nella cura. Voglio dire che le persone possono esprimere delle richieste non chiare, oppure esprimere delle richieste alle quali non si può o non si intende corrispondere. Attraversare il conflitto può essere anche un modo per prendersi cura dell’altro e della relazione perché è un modo per introdurre una differenza in un pensiero e in una narrazione che rischia altrimenti di rimanere intrappolato nelle proprie rappresentazioni. E questo è un rischio che davvero corriamo tutti/e, senza esclusioni.
E così, man mano che divenivo capace di ascoltare e riconoscere delle differenze, ma anche di affermare delle differenze, senza per questo ricadere in uno spazio di accuse e di polemiche, mi sono sentito più capace di cura.
Parte 2. La violenza e noi. Provando ad ampliare le domande.
Lungo questo percorso mi sono portato dentro una serie di domande. Ho imparato qualcosa non su qualcuno ma sugli esseri umani, qualcosa con cui ho interrogato anche me stesso.
Per esempio, che tipo di vuoto si crea in chi è oggetto di negazioni ripetute o di maltrattamento psicologico? Che tipo di rabbia si prova quando ci si sente sottrarre continuamente il terreno da sotto i propri piedi? Che tipo di risarcimento si potrà mai ricercare? Le più intime aspettative di giustizia potranno mai trovare soddisfazione?
Come uomini, che ruolo possiamo avere quando incontriamo situazioni di questo genere nei nostri ambienti di vita? E che tipo di rappresentazioni e aspettative ci sono nelle persone e nella società verso un’associazione di uomini come Maschile Plurale? Quali sono sensate e quali invece rappresentano delle trappole che dobbiamo rifiutare?
Mi sono anche chiesto su quale base mi sono lasciato coinvolgere. Non credo solo perché facevo parte di MP o perché ero amico del protagonista maschile. È chiaro che ho messo in gioco qualcosa di me e che (a torto o a ragione) mi è sembrato di capire qualcosa del vissuto di lei e del vissuto di lui. E su questa base ho cercato di ascoltare e interloquire. Ma devo dire che sono stato attraversato da moltissimi dubbi e interrogativi.
Mi ha fatto molto pensare anche notare il modo in cui le persone dimenticano, selezionano, rileggono la realtà, le cose dette o fatte, per renderle coerenti con la propria idea e la propria immagine. Un’immagine trasparente e priva di ombre,in cui tutto il negativo viene proiettato fuori di sé. Non c’è posto per parole o fatti che riguardano gli altri se non collimano con il mondo esterno e la nostra rappresentazione. Ci piace pensare che questa forma di diniego, di rimozione riguardi solo alcuni, in particolare coloro che chiamiamo maltrattanti. Nemmeno questo è vero. Questa cosa riguarda tutti. La mettiamo in atto tutti, vittime comprese.
Mi sono chiesto d’altra parte, in più momenti di questa vicenda, se le persone che intervenivano, scrivevano, si schieravano, prendevano parte fossero consapevoli di quale parte di sé le stava muovendo.
Prendiamo per esempio il numero estremamente elevato di persone che sono state coinvolte e che si sono attivate attorno a questa vicenda. Per certi versi potrebbe essere ritenuto un segnale di reattività, ma per altri versi non sono sicuro che sia stato del tutto positivo.
Anche nella discussione on line, è successo che l’urgenza di accusare o difendersi, di schierarsi o incantonare qualcuno, di associare le parole alle persone e le persone a un giudizio univoco piuttosto che far spazio al pezzo di verità che l’altro portava per provare a metterlo assieme al nostro, ha attraversato tutti e tutte. Nessuno escluso/a.
Da tanti anni sono impegnato sul tema della violenza, in particolare sulla questione della violenza maschile sulle donne. Per alcune persone, il fatto che degli uomini lavorino su questo è perfino terreno di sospetto. Si sospettano gli uomini di possibile collusività o giustificazionismo. È stato questo sospetto – che lo si voglia riconoscere o meno – il sottotesto di tutta questa discussione pubblica, e anche di molti commenti privati talvolta più espliciti. Rispetto al pericolo di collusività o giustificazionismo (ovvero di identificazione proiettiva col maltrattante), mi sento di dire che naturalmente questo rischio c’è. Ma in verità non è il rischio più forte. Quello più diffuso – e più difficile da riconoscere – è quello della proiezione (ovvero dell’identificazione proiettiva con la “vittima” da una parte o con il possibile “salvatore” dall’altra).
«Quanto più una persona pensa di essere virtuosa e non vive la propria Ombra – ha scritto Marie-Louise von Franz -, tanto più la proietta e vede gli altri come malfattori. La persona convinta di essere virtuosa vive in un costante stato di indignazione e dà la caccia alla propria Ombra nella persona di un altro».
E questo rischio, potremmo dire questa tentazione, come ho scritto altrove, deve essere sempre tenuta presente da chi ha la pretesa di lavorare nel campo della violenza maschile sulle donne, per evitare di agire un ruolo e una dinamica inconsapevole.
Del resto tutti gli uomini autori di violenze che ho incontrato o intervistato avevano giudizi netti e assoluti di condanna della violenza maschile sulle donne e di condanna degli uomini violenti. Il giudizio era netto perché proiettava il problema fuori di sé. E paradossalmente più la condanna era assoluta, più era assoluta l’indisponibilità a vederla come tratto del proprio mondo personale e relazionale. L’insegnamento che ne dovremmo trarre è che la condanna della violenza, pur necessaria, non coincide automaticamente con la sua eliminazione. Occorre qualcos’altro.
A questo proposito penso che la mia esperienza personale e quella dell’associazione di cui faccio parte mi abbia offerto degli spunti. Da tanto tempo mi esercito a frequentare l’ombra, a riflettermi in specchi oscuri. In particolare, mi sono confrontato con l’immagine e il mondo interiore degli uomini che hanno agito violenza e non solo con quello delle vittime. Quello che credo di avere imparato è che la violenza non è solo più diffusa di quanto pensiamo, ma è anche più vicina e familiare di quanto siamo disposti ad ammettere. Può presentarsi nella nostra quotidianità, nei nostri atteggiamenti e nelle nostre relazioni e spesso non ne ce ne accorgiamo nemmeno. Quello che fa la differenza è come reagiamo alla prima occasione in cui l’altra ci dice la sofferenza e l’ingiustizia che sente di aver patito proprio dalla persona con cui aveva condiviso la sua intimità. È la disponibilità a tornare sulle cose e a ripensarle con una disposizione diversa. A tornare nei luoghi della sofferenza nudi, avendo deposto le nostre armature. Se c’è questa disposizione facilmente scopriremo che quelli sono luoghi contemporaneamente della nostra sofferenza e della sofferenza che abbiamo causato agli altri e alle altre. In effetti si nasconde la propria sofferenza proiettandola e creandola in un’altra persona. Ascoltare quella voce rappresenterebbe un ‘opportunità di riaprire qualcosa anche in noi stessi. Ma la paura del cambiamento per alcuni è più forte addirittura della sofferenza che finisce dunque con l’investire le proprie relazioni e la propria vita.
La conclusione, apparentemente paradossale è che occorre rinunciare a credersi totalmente trasparenti a noi stessi, o a ritenersi unicamente buoni, immuni dalla violenza, per poter sviluppare delle risorse interiori e relazionali che ci aiutino a prevenire o a superare i possibili atteggiamenti violenti.
Recentemente mi è capitato di rileggere un libro di Luigi Zoja sulla Paranoia. Ad un certo punto l’autore cita una storia che mi ha colpito profondamente:
«Una fiaba cherokee parla di due lupi. Un anziano dice a un bambino:
-“Dentro di te due lupi combattono una lotta mortale. Uno è buono, generoso, sereno, umile e sincero. L’altro è pieno di rancori, di aggressività, di orgoglio, di sensi di superiorità e di egoismo”.
-“Chi vincerà?”, chiede il bimbo spaventato.
“Quello che tu nutri”, risponde l’adulto.
Se prendiamo la fiaba come schema della nostra distinzione, lo psicopatico è colui che nutre il lupo malvagio. Il paranoico, invece, è incapace di sentire il conflitto interiore tra i due: per lui esistono solo lupi esterni».
C’è un possibile apprendimento qui che non è solo personale o psicologico, ma anche culturale e politico. È vero che negli ultimi anni si parla sempre di più di violenza maschile sulle donne, ma spesso il modo in cui se ne parla e la reazione più istintiva delle persone mi desta degli interrogativi. Sento sempre di più che siamo immersi in un modo di trattare la violenza che si fonda soprattutto sulle dimensioni interrelate di proiezione e vittimizzazione che non aiuta affatto a fare un reale passo avanti. Il moralismo, e un uso quasi religioso di alcune parole chiave, si sostituiscono alla reale comprensione delle dinamiche e mentre cresce l’indignazione s’indebolisce la capacità di intervenire nei processi ed accompagnare reali trasformazioni.
Dobbiamo dunque imparare a parlare di queste cose in un modo più riflessivo e coinvolto e al tempo stesso più laico e meno schematico. Questo non significa non affermare delle differenze o non aprire dei conflitti, al contrario significa imparare a farlo contemporaneamente fuori e dentro di sé.
(Luglio 2014)
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