Set 2007 “Tra qualcosa che mi manca e qualcosa che mi assomiglia [1]
La riflessione maschile in Italia tra men’s studies genere e storia”
di Claudio Vedovati
pubblicato in Dell’Agnesa Elena e Ruspini Elisabetta
Mascolinità all’Italiana. Costruzioni, narrazioni, mutamenti, Utet, 2007
1. Il silenzio degli uomini e la storia di genere
Attende ancora oggi una risposta la questione sollevata, ormai molti anni fa, dall’americanista Arnaldo Testi: “Si è affermata, con il femminismo, la storia delle donne e con essa l’importanza del genere nella storiografia. Ma perché gli storici uomini (italiani) non fanno storia degli uomini?” (Testi, 1990). In questo contributo vogliamo interrogarci sul perché di questo vuoto accogliendo il modo in cui un altro americanista, Maurizio Vaudagna, l’ha voluto definire: un “silenzio degli uomini” (Palazzi, Vaudagna 1988).
Ma che cosa vuol dire che “gli storici uomini (italiani) non fanno storia degli uomini”? Chi, dove e come fa questa storia? E poi, “perché abbiamo bisogno della storia degli uomini? Non la conosciamo già questa storia?” (Stearns, 1979, p. 2). Cosa significa farla? Qual è la sua importanza?
Gli “studi di genere” o “storia di genere” sono lo scenario all’interno del quale dovremmo collocare, anche in Italia, la storia degli uomini[2]. Ma i gender’s studies – è l’espressione anglosassone – sono il risultato della critica femminista ai saperi, cioè di una pratica e di una teoria politica che ha messo in discussione l’universalità con cui si è presentato il discorso degli uomini. E gli uomini? Da dove nasce la storia di genere fatta dagli uomini?
Negli anni Settanta una femminista statunitense aveva osservato che bisognava non solo restituire “le donne alla storia” – le donne escluse dal racconto storico – quanto e soprattutto “la storia alle donne”, per farne il soggetto del proprio discorso[3]. A partire da ciò, è stato possibile mostrare che la “storia” – insieme ad altri discorsi pubblici – è il racconto di uomini che si sono rivolti prevalentemente ad altri uomini, parlando quasi sempre solo di uomini; che i generi – il maschile e il femminile – sono costruzioni sociali e culturali; che l’immaginario maschile ha cercato di controllare l’universo femminile rappresentandolo fuori della storia e dal mutamento. La storia di genere chiama quindi gli uomini alla propria parzialità e gli storici uomini ad una sfida epistemologica con il proprio sapere.
2. Interrogare il silenzio, interrogare la storia
I men’s studies si occupano degli uomini e della loro storia. Cosa li differenzia, allora, dalla “storia” ufficiale, che si è occupata prevalentemente di uomini?
I men’s studies hanno portato alla ribalta argomenti rimasti per molto tempo ai margini del lavoro degli storici, come quelli riconducibili alla storia del corpo: la sessualità, la paternità, la violenza maschile. In questo senso si tratta di studi specialistici che arricchiscono una disciplina già definita nelle sue linee generali e che ha già analizzato i fatti salienti del proprio oggetto, la storia dell’intero “genere umano”. Ma in un altro senso, invece, i men’s studies non sono gli studi in cui gli uomini parlano di sé – che non è certo una novità – ma quelli in cui lo fanno a “partire da sé”.
Anche questa espressione – partire da sé – nasce nella pratica politica femminista. Si riferisce al portare alla luce, con i vissuti e i desideri, quello che ciascuno soggetto si gioca nelle relazioni. Comporta dismettere antiche contrapposizioni, come quella tra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivo. Significa riconoscere, insieme alla propria singolarità, la parzialità dei soggetti, che sono sessuati, incarnati in corpi di uomini e di donne. La storia di genere chiede quindi agli storici uomini di riconoscere la parzialità del proprio genere e della propria parola, di interrogare e modificare il proprio sapere, il proprio sguardo su di sé e sul mondo.
In questa prospettiva il “silenzio maschile” di cui parlava Vaudagna – la mancanza di uomini impegnati a fare la “storia degli uomini” – non va interpretato come un disinteresse per alcuni aspetti di questa storia ma come un silenzio del maschile su di sé. Questo silenzio è l’oggetto implicito dei men’s studies.
Possiamo definire meglio questo silenzio: non è un’assenza di sapere maschile di sé ma una modalità dello suo stesso sapere. Il silenzio, infatti, consente di mascherare la parzialità del genere maschile all’interno di un modello astratto di soggettività – l’individuo moderno – che si presenta come neutro e asessuato, assoluto e metastorico, universale e astratto. In questo modo gli uomini possono affermare il proprio sguardo sul mondo: sulla scena è ammesso un solo soggetto, quello maschile, che trasforma in oggetto tutto il resto.
Il “silenzio degli uomini”, inoltre, non contraddice il radicato predominio della parola maschile in ogni campo del sapere – un eccesso di parola – ma, al contrario, lo fonda. E fonda con ciò anche l’esercizio maschile del potere. Le parole degli uomini, infatti, significano il mondo, producono immaginari, costruiscono gerarchie simboliche e materiali, definiscono gli strumenti del proprio sguardo. La prima di queste gerarchie è proprio l’asimmetria di potere tra uomini e donne costruita attraverso le rappresentazioni di genere.
Se poi riportiamo il silenzio maschile nell’ambito della storia ci accorgiamo che è proprio “l’onnipresenza del maschile nella narrazione storica” a renderne “invisibile” la sua storia (Vaudagna, 2000, p. 15). Oggetto dei men’s studies è infatti anche la forma stessa del fare storia, l’occultamento che questo fare contiene del carattere sessuato dei saperi, del nesso tra generi e sapere. Chi fa storia degli uomini ha, quindi, davanti a sé delle domande: in che modo l’appartenenza di genere di uno storico uomo ne determina il proprio lavoro? C’è un nesso tra le rappresentazioni che il maschile ha fatto di sé, il suo stare al mondo avendo un corpo di uomo – un corpo che non genera –, e i saperi che esso ha prodotto, l’uso che ne ha fatto? C’è un legame tra la rivendicazione dell’oggettività delle discipline (e dei loro metodi di ricerca) e la maschera dell’universalismo dietro cui si trincea la parola maschile? Cosa ci dice del maschile, del suo stare nelle relazioni, la sua attitudine a fare emergere significati e ad attribuire valori innalzando e tagliando, separando e scartando le cose[4])?
La risposta a queste domande – laddove qualcuno le ha fatte proprie – mette in gioco molte cose, che vanno oltre l’esercizio accademico e che hanno a che fare con il desiderio maschile.
3. Le culture politiche maschili e i men’s studies negli Stati Uniti
I men’s studies nascono negli Stati Uniti e hanno alle spalle una lunga stagione di mobilitazione politica giovanile, quella che va dalle prime occupazioni dei campus universitari (1964) alla sconfitta nel Vietnam (1975). L’emergere, in quegli anni, della critica all’autoritarismo e della consapevolezza del carattere politico dei vissuti personali e della sessualità ha permesso, infatti, la nascita di una critica maschile agli stereotipi di genere. Si è cominciato, sotto l’influenza della critica al tardo capitalismo avanzata da autori come Herbert Marcuse, a parlare di liberazione maschile[5].
Nel corso di quegli anni questo bisogno di trasformazione maschile si è variamente affermato – e spesso si è infranto – nelle relazioni, scontando anche i limiti politici di quel movimento. Al suo interno, inoltre, c’erano più differenze di quanto non fosse possibile vedere. Oggi possiamo far risalire ad alcune di quelle differenze le diverse articolazioni che segnano i men’s studies, in particolare tra coloro che, a partire dalla nozione di “crisi del maschile”, teorizzano il recupero di una qualche forma di maschilità e coloro che, avendo come obiettivo quello di mettere in crisi una società fondata sul predominio del maschile, puntano alla decostruzione della mascolinità[6].
3.1. Il recupero della maschilità e la rivendicazione dei diritti degli uomini
All’origine del primo approccio c’è senz’altro il cosiddetto movimento mitopoietico (mythopoetic men’s movement) fondato nel corso degli anni Ottanta dal poeta Robert Bly[7]. Ispirato da una forte connotazione terapeutico-militante e servendosi di un linguaggio accattivante e metaforico, Bly riconduce la crisi del maschile all’avvento della società industriale moderna e al conseguente distacco dal modello del wild man, un ipotetico uomo selvaggio interiormente libero. Propone quindi un ritorno allo “stato perduto” attraverso forme rituali e terapeutiche fortemente caricate d’ideologia in cui la mascolinità è rappresentata con modelli astorici e idealizzati che non rendono conto dei legami con le strutture e le istituzioni sociali del mondo preindustriale[8].
L’ambiguità implicita di queste posizioni – in cui accanto alla riproposizione di ruoli maschili tradizionali ci sono anche echi antimilitaristi e ambientalisti – è la chiave del loro successo in altre aree del movimento maschile statunitense, in particolare tra i fondamentalisti cristiani – come i Promise Keepers – e tra i gruppi che rivendicano i diritti degli uomini (men’s rights). Questi ultimi – affermatisi già nel corso degli anni Ottanta, in coincidenza con il taglio alle spese pubbliche dell’amministrazione repubblicana[9] – hanno radicalmente rovesciato l’approccio delle prime mobilitazioni maschili. Secondo costoro, infatti, il femminismo avrebbe divulgato un’immagine falsificata degli uomini, enfatizzandone i privilegi e i comportamenti violenti degli uomini. Piuttosto, sarebbero gli uomini le vere vittime della società moderna (in particolare gli uomini bianchi). Per questo motivo questi gruppi oppongono alle politiche di affirmative action promosse dalle donne e dalle minoranze etniche la rivendicazione compensatoria di propri diritti.
Poiché propongono un’idea risentita del conflitto tra i sessi, possiamo giudicare questo tipo di approcci come forme di vittimismo aggressivo. Essi hanno probabilmente origine nei cedimenti della struttura patriarcale della società statunitense già emersi con la sconfitta nel Vietnam[10] e in seguito ribaditi dalla trasformazione di quei meccanismi che all’interno del mercato del lavoro avevano garantito un ruolo sociale agli uomini.
3.2. La critica maschile al patriarcato e la decostruzione della mascolinità
Un esito diverso ha avuto la mobilitazione di quegli uomini che hanno accolto il moltiplicarsi delle domande di altri soggetti, ed in particolare delle donne, non come un limite al proprio potere ma come un’occasione per ripensarsi e ripensare il proprio rapporto con il potere. Quest’area, definita, più o meno propriamente, pro-feminist[11], è composta di gruppi militanti, fortemente politicizzati e di sinistra, particolarmente attenti all’esperienza storica del femminismo e in alcuni casi portatore di riferimenti teorici vicini al marxismo eterodosso[12]. È in quest’ambito che i men’s studies si sono più esplicitamente sviluppati come ricerca storica[13].
La contestazione dei ruoli sessuali e sociali costruiti dal maschile ha infatti portato questi uomini a far propria l’idea, già emersa con il femminismo, che il genere sia una costruzione sociale e non un destino biologico: una cosa, quindi, di cui si può fare la storia[14]. Secondo questa prospettiva, riferendosi ai modelli della mascolinità, “non si nasce uomini, ma lo si diventa” (Gilmore, 1993, p. 123) e diversamente da cultura a cultura[15]. Perciò, l’obiettivo di una parte dei men’s studies è quello di decostruire i modelli dominanti della mascolinità, di smontarne la “naturalità, di storicizzare la differenza di genere, per ricollocare il maschile nella propria parzialità. L’indagine storica deve inoltre investire anche la materialità del corpo maschile e le forme con cui si esprime il suo desiderio. Per questo “liberarsi” viene interpretato come un lavoro su di sé, come la ricostruzione di una genealogia con cui misurarsi[16].
Possiamo dunque dire che nei men’s studies fare storia è una esperienza della soggettività sessuata che sta dentro la stessa storia, Questo comporta la messa in discussione del modello epistemologico costruito sulla distanza totale tra soggetto e oggetto. Diventa fondamentale chiarire chi parla, a partire da quali bisogni e desideri lo fa, come esso è in relazione con la storia di cui si occupa[17]. Infatti, solo il formarsi di una soggettività maschile capace di decostruire se stessa consente al discorso storico di non essere, ancora una volta, lo strumento di una rimozione: il rischio – lo ha evidenziato esplicitamente Barbara Ehrenreich – è quello di dar vita ad una “modernizzazione del patriarcato, non già ad una sua denuncia”[18].
Il lavoro sulla genealogia ha portato gli storici anglosassoni ad esplorare la costruzione della mascolinità moderna per come essa si è data nella società vittoriana. In quel periodo, infatti, il carattere eterosessuale della maschilità sarebbe stato proposto come un modello normativo di moralità caratterizzato da forza di volontà e capacità di autocontrollo (“i veri uomini non piangono”, “comportarsi da uomo”), onore e integrità, dedizione ad una causa e complicità tra uomini (“parlarsi da uomo a uomo”)[19]. L’analisi di questo modello di mascolinità è stato anche messo in relazione all’affermarsi dell’imperialismo e all’emergere di determinismo biologico e razzismo: ciò ha mostrato come esso sia stato naturalizzato e trasformato in un metro di paragone per classificare uomini giudicati non all’altezza di un’ideale di “vera” mascolinità (“ebrei”, “negri”, “omosessuali”, “primitivi”)[20]. L’allargamento al Novecento della ricerca ha portato alla luce il divario tra l’ideale diventato stereotipo, soprattutto nei regimi autoritari, e la misera realtà vissuta dagli uomini comuni, ad esempio nel corso delle grandi guerre[21]. Altri studiosi hanno invece mostrato come i modelli della virilità vittoriana siano stati nella società dei consumi di massa superati attraverso la rappresentazione pubblica del corpo maschile, in favore di un uomo individualista, dedito al consumo e al successo, che cura il proprio corpo e la propria immagine[22].
4. La storia degli uomini in Italia
La resistenza – o meglio l’indifferenza personale della maggior parte degli studiosi – alla rivoluzione epistemologica di cui possono essere portatori i men’s studies è una delle ragioni della difficoltà ad orientare, anche in Italia, il discorso storiografico attraverso la bussola del genere.
C’è un nesso tra questa resistenza e l’esercizio del potere maschile, il potere materiale (occupare lo spazio, pubblico e privato) e quello simbolico (significare il mondo universalizzando lo sguardo maschile). Infatti, portare la propria soggettività (nella forma che le è più propria, la soggettività sessuata) nella relazione che si ha con il proprio sapere ne incrinerebbe – agli occhi di un modo tutto maschile di rappresentarne il valore sociale – i criteri d’assolutezza, oggettività e universalità. Insieme ai valori sarebbe messo in crisi anche lo status di chi si presenta attraverso questi saperi.
Un altro modo di declinare il nesso resistenza/esercizio del potere è visibile nello stretto rapporto che lega, in Italia, la ricerca storica alle culture politiche. In questo caso la legittimazione della ricerca non è data in sé dall’oggettività del metodo con cui è fatta ma dal valore dato ai fini per cui è fatta: la distinzione tra soggetto e oggetto permette infatti di collocare l’oggettività sul versante del metodo e la parzialità su quello dei valori, i quali però sono rivendicati – anzi rafforzati nella loro legittimità – in nome di una universalità che nessuno metterebbe in discussione (la “funzione civica della storia”, ad esempio).
Di fatto, il mancato sviluppo in Italia dei men’s studies evidenza come nella quasi totalità degli studiosi uomini non ci sia il desiderio o la necessità di interrogarsi in quanto uomini e di portare questa riflessione nelle proprie discipline[23].
4.1. Un vuoto di genealogia maschile
In Italia i men’s studies e le riflessione maschile si muovono tra le pieghe di una rottura generazionale che non ha ancora trovato una propria rappresentazione pubblica[24], se non in termini di una sociologica “crisi” degli uomini che ha a volte come obiettivo quello di riproporre i ruoli tradizionali.
Tra uomini di diverse generazioni – come tra padri e figli, insegnanti e studenti – c’è un consolidato (nel tempo) deserto relazionale. La sola complicità che c’è è data attraverso le pacche sulle spalle e la competizione esclusiva per il potere. Il modello è quello della paternità “moderna”: la trasmissione delle regole e dei valori sociali a partire dal distacco dei corpi, di corpi che non sanno toccarsi con dolcezza, a meno di non mettere in discussione la propria idea di virilità. Questo modello informa di sé ogni ambito della formazione e della trasmissione del sapere, anche in quello accademico.
La crisi di questo sistema di relazioni tra uomini – o (cambiando interpretazione) il fatto che un numero crescente di giovani uomini non ne sopporta più costi e miserie – ha fatto emergere, in questi ultimi due decenni, esperienze maschili diverse, che si accompagnano al lento modificarsi della qualità delle relazioni di genere. Sono esperienze di singoli uomini e a volte di piccoli gruppi, il cui riconoscimento pubblico è arrivato quasi esclusivamente dalle donne. Nel loro piccolo (in termini numerici, non di qualità) queste sono le premesse per l’avvio in Italia dei men’s studies.
In questa storia non ci sono molti “padri nobili”, tanto per usare una metafora maschile. I padri sono assenti, a prescindere dagli schieramenti politici ed intellettuali. Se la tradizione del movimento operaio è rimasta per molto tempo ancorata a una immagine tradizionale dei ruoli di genere, anche le esperienze di critica al maschilismo avanzate nel corso degli anni Settanta non hanno avuto una vera continuità e si sono esaurite: non è ad esse che si può far riferimento[25]. Arnaldo Testi e Maurizio Vaudagna[26], i due storici evocati all’inizio che appartengono a quella generazione, sono l’eccezione e non la regola (e non è un caso che siano entrambi degli americanisti). La riflessione sul maschile, quando c’è stata, è quindi rimasta chiusa nel privato. Altre volte ha preso la forma di un pensiero astratto incapace di riportare a sé le ragioni della propria parola[27].
In Italia, come nel mondo anglosassone, è stato importante lo stimolo politico ed intellettuale portato dalle donne del femminismo. Negli anni Ottanta l’influsso del femminismo ha preso le forme del pensiero della differenza (sessuale o di genere, secondo le articolazioni) e per qualche momento è sembrato che esso potesse influenzare anche la vicenda dei partiti politici di massa[28]. Mario Tronti, uno dei più importanti intellettuali della sinistra critica, ha colto nel pensiero e nella pratica politica delle donne non solo uno strappo teorico forte (“che da solo scardina interi mondi di pensiero”) ma anche un partire da sé inteso come una strategia politica di parte, radicale e non universalistica[29]. Nello stesso ambito culturale, all’inizio degli anni Novanta, la rivista “Democrazia e diritto”, ha dato un importante contributo alla definizione di un diritto sessuato[30], mentre sulle pagine de “L’Unità” Alberto Leiss e Letizia Paolozzi hanno creato spazi più agili d’intervento sul maschile e di dibattito politico tra uomini e donne[31]. Proprio su queste pagine sono intervenuti Carmine Ventimiglia e Alfredo Capone, che hanno contaminato la propria riflessione di uomini con il lavoro accademico.
Carmine Ventimiglia, che come sociologo della famiglia ha lavorato sulla paternità e sulle violenze degli uomini, ha più volte portato ad evidenza i nessi tra questa violenza e la pretesa di “universalità indifferenziata” con cui la riflessione maschile riduce a sé il mondo e neutralizza la differenza. Ciò riguarda anche il pensiero scientifico e quelle attività mediche (come la ginecologia) che, secondo Ventimiglia, devono la loro fortuna “all’espropriazione che inevitabilmente operarono a danno dei saperi pratici delle donne” e che legittimano anche la falsa convinzione che l’identità di genere abbia “esclusiva” origine dal dato biologico[32]. Lo storico Alfredo Capone, riprendendo il lavoro sulla sessualità di Foucault, ha invece lavorato sui legami tra l’esperienza storica del maschile e il carattere incorporeo del pensiero e del soggetto filosofico della tradizione europea, identificando nel distacco dal corpo femminile materno una delle chiavi da cui partire per comprendere l’esperienza del corpo maschile[33].
In questo scarno panorama si possono fare pochi altri nomi: lo psicoterapeuta Claudio Risé, l’unico studioso italiano che fa esplicito riferimento alle posizioni “iniziatorie” di Robert Bly e del movimento mitopoietico[34]; l’antropologo Franco La Cecla, fautore dell’esplorazione di una mascolinità “non ancora conosciuta” ma che non deve “sbarazzarsi” del suo passato e che può far perno su di una fragilità considerata come una ricchezza[35]; il sociologo Tullio Aymone, autore di una significativa critica radicale del maschilismo[36]; il sociologo come Osvaldo Pieroni, che ha lavorato sul rapporto degli uomini con il proprio corpo[37].
4.2. Genere e generazioni: un’altra cultura politica
Chi scrive appartiene ad un’altra generazione, che forse non è neanche una tale essendosi formata nell’arco di tempo in cui si è consumata la crisi dell’autonomia delle culture giovanili. Sono cresciuto a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, lasciandomi alle spalle i modelli culturali promossi dal movimento operaio ma anche l’autodistruttività del punk e del terrorismo. Con i miei coetanei cercavo di portare nella politica altri desideri, un’altra idea dello spazio pubblico, in rottura con le culture dell’appartenenza.
Volevamo trasformare la politica, farla parlare altri linguaggi. Crescevamo insieme ad un nuovo pacifismo, alla nonviolenza all’ambientalismo, ed eravamo consapevoli di come la politica annettesse queste “nuove tematiche” neutralizzandole, senza coglierne la critica complessiva al sistema delle relazioni sociali, al modo di produrre, consumare, pensare. “A leggere queste parzialità – scrivevamo riflettendo su quegli anni- è stata una politica che non ha smesso di presupporre se stessa come generale e neutra” (Sebastiani, Vedovati, 1993, p. 289). Il nostro disagio esprimeva una lettura della crisi italiana non chiusa nelle categorie della storia nazionale. Ai nostri occhi la crisi dello stato, della rappresentanza e dei partiti di massa, la crisi dei sistemi di welfare state, dei riformismi nazionali e dello sviluppo economico inesauribile mettevano in evidenza la crisi della soggettività moderna[38].
È in questo contesto che all’inizio degli anni Ottanta, mentre la politica – incapace di affrontare la propria crisi – ci spingeva ad un lavoro più sotterraneo, è cominciata la mia riflessione insieme ad altri uomini sul maschile, su come il genere segnasse la nostra vita e la politica, sul nesso tra la crisi della soggettività moderna e la storia, i pensieri e le pratiche maschili[39]. Il nostro gruppo nasceva a Roma e, come accade a volte alle culture politiche che si sviluppano fuori dalla scena pubblica, non sapevamo allora che in altre città, altri uomini della nostra stessa generazione, si ponevano domande simili.
Nel nostro percorso abbiamo cercato di costruire una nostra genealogia, anche maschile. Eravamo in particolare da quelle culture che, già dagli anni Sessanta, avevano messo in discussione le forme consolidate del sapere e della politica. Per rimanere in un ambito italiano: la didattica di Mario Lodi; la critica al neutralità della scienza (la rivista “Sapere”) e la medicina del lavoro di Giulio Maccacaro; l’ambientalismo scientifico di Laura Conti; la critica del diritto; la psicoanalisi e l’antipsichiatria di Elvio Facchinelli, Giovanni Jervis, Franco Basaglia.
Nel corso degli anni Ottanta è arrivato l’incontro con il femminismo, radicato nel vissuto delle nostre compagne e coetanee. Nei cortei dell’8 marzo, dove andavamo per “solidarizzare”, abbiamo cominciato a scoprire cosa potesse significare, e quale tensione portasse, avere un corpo di uomo. Questa tensione ci interrogava ed è stata un importante motore di trasformazione politica e personale. Non potevamo più ragionare in termini di solidarietà, perché essa proponeva, alle relazioni di genere solo un poco più di spazio in quella universalità imposta dal maschile che neanche noi sentivamo come nostra. La storia del maschile, tutta quanta, intera, cominciava a parlare di noi, perché vedevamo quanto fosse radicata nei nostri corpi e nelle nostre menti. Il femminismo e il pensiero della differenza – il “partire da sé”, la “pratica dell’autocoscienza”, la “politica del desiderio”, la “cultura del limite”, ecc. – ci apparivano come una grande opportunità di libertà. Dovevamo anche noi cominciare a portare nelle relazioni la nostra libertà.
4.3. Un altro modo di misurarsi con la storia maschile
Cominciavamo dunque a guardare al maschile, a noi stessi, in modo diverso: iniziava lo scavo in un universo ancora non esplorato, l’essere soggetti sessuati, e il confronto critico con i ruoli socialmente costruiti del maschile[40].
Con questo sguardo potevamo portare alla luce il “condiviso” del maschile, quell’universo di rappresentazioni simboliche che accomunano ad esempio lo stupratore e il militante della sinistra, il borghese e l’operaio, l’intellettuale ed il tifoso di calcio, il marito affettuoso e l’uomo armato che uccide il nemico e violenta le sue donne. Affrontavamo questo universo, di cui sentivamo la miseria, senza sensi di colpa per la nostra appartenenza di genere e non per fare “di tutta un’erba un fascio”, ma per poter lavorare su quel condiviso, per poterlo storicizzare e farne oggetto di scelte. Se all’inizio si scopriva – come scrissero Stefano Ciccone e Renato Sebastiani – “la paura di riconoscere negli altri la parte peggiore di sé, di scoprire che ciò che ci accomuna, anche partendo da esperienze diverse, possa essere una cultura di violenza e di oppressione” (Ciccone, Sebastiani, 1988), emergeva poi la voglia di interrogare il desiderio, di “non farci più poveri di quello che si è”[41] e di ricostruire una diversa genealogia maschile.
Il nostro obiettivo non era quello di proporre un modello di mascolinità: “siamo alla ricerca di domande differenti, che sappiano illuminare la qualità della nostra esperienza e delle nostre relazioni” (Seidler, 1992, p. xv). Il metodo era quello degli storici dei men’s studies, applicato a noi stessi: decostruire i modelli dominanti della maschilità. Così abbiamo cominciato a vedere alcune cose con uno sguardo che può orientare anche il lavoro dello storico.
4.3.1. La violenza sessuale e la sessualità maschile
La violenza sessuale viene di volta in volta esorcizzata attraverso il paradigma della devianza, del gesto di uno sconosciuto, del residuo di una cultura maschile arretrata, di una mancanza di autocontrollo, del prodotto di una differenza di “civiltà” (oggi gli immigrati). Ma le statistiche – e la storia – indicano padri, fratelli, fidanzati, ex fidanzati, amici, d’ogni età e classe sociale. Questa violenza (ora, come nel passato) può essere invece letta come uno strumento di regolazione sociale, attraverso cui il maschile esercita un controllo sul corpo delle donne. A sua volta, la violenza interroga il rapporto che gli uomini hanno storicamente costruito con il proprio corpo e la propria sessualità: rapporto segnato da una incapacità di riconoscere e di dialogare con il desiderio femminile. La violenza di genere ci dice che “c’è un solo soggetto, l’uomo, legittimato a desiderare” e che questo soggetto non riesce a risignificare il proprio desiderio oltre un ordine simbolico già segnato.
4.3.2. La miseria dei corpi e delle relazioni
Imprigionate in una cultura della prestazione le relazioni tra uomini, pubbliche e private, esprimono un immaginario di impotenza e di miseria. La rappresentazione che il maschile fa di sé è quella di un corpo che può essere sempre rimosso, messo da parte, sacrificato (nel lavoro, in guerra, nella politica); portatore di “bassi” istinti, di mere pulsioni biologiche (quindi da controllare, civilizzare, governare); non desiderabile (si immagina di poter accedere alle relazioni solo pagando o con la violenza); che non può essere usato dagli stessi uomini per affidarsi l’uno all’altro (se non attraverso le pacche sulle spalle, le battutine, il cameratismo); che nella paternità serve a trasmettere regole sociali ma non affetto (salvo poi rivendicare l’idea di famiglia attraverso il legame di sangue). Ci si deve chiedere: quale corpo consegna agli uomini la propria storia? Quali relazioni produce un corpo che non è disponibile come luogo dove frequentare e interrogare il proprio desiderio? Cosa deve sacrificare di se stesso un uomo per “imparare a comportarsi da uomini”? Qual è il costo sociale di questa povertà?
4.3.3. La politica, lo stato e la guerra
La politica moderna, radicata in un’idea asessuata della cittadinanza, segnata dalla crisi della rappresentanza, ridotta a strumento di amministrazione, oppure luogo di conferme di appartenenza dominato da metafore militari e proprio per questo condannato a rimuovere le differenze e i conflitti che esse producono; la “guerra fatta da uomini che si rappresentano come difensori dell’onore dei padri, custodi della purezza del sangue e delle tradizioni ma anche da altri uomini convinti di essere portatori di una razionalità astratta che afferma la propria superiorità proprio per essersi affrancata dalle pulsioni del corpo e della natura, per essere portatrici di regole e tecniche valide ad ogni angolo della terra” (Ciccone, 2002). La politica e la guerra – e con esse ciò che chiamiamo stato moderno – confermano un ordine simbolico tutto maschile e segnano il mondo di conseguenza.
4.3.4. L’uso dei saperi
Il potere di parola che gli uomini si sono dati fa storicamente ricorso all’autorità di tecniche e di saperi che sono presentati come neutri ed esterni a sé, come il diritto, la politica, la scienza, l’economia, la medicina e che sono usati come protesi del corpo maschile. Questo tipo di parola maschile si dà come astratta e neutrale e in base a ciò fonda etiche, diritti, tecniche che prescindono dalle relazioni di genere e sono strumento di controllo di altri corpi. Il silenzio del corpo maschile è, da un lato, il punto di partenza per dispiegare “liberamente” una soggettività astratta e, dall’altro, la fonte di una precarietà che cerca riparo nell’appartenenza a “corpi collettivi”. La riduzione dei corpi maschili a strumento produce saperi che sono anch’essi strumenti, oggetti.
4.4. Una rete di uomini
Il nostro lavoro, in questi anni, è stato quello di far affiorare un’altra forma di desiderio maschile, di fare cioè qualcos’altro di noi stessi. Nessuno di noi ha pensato di fare “men’s studies”. Piuttosto, in qualche occasione, quando gli studi di genere si presentavano nella forma di un ulteriore specialismo, li abbiamo interpretati come nuove occasioni maschili per occupare nuovi spazi di potere.
Ma il percorso degli studi sul maschile non può che passare attraverso quel desiderio, come mostra la ricerca di una nuova generazione di studiosi che emergono proprio dai mille rivoli di questa cultura politica sotterranea. Tra di essi, lo storico Sandro Bellassai, promotore già nel 1996 a Bologna di una associazione di “Uomini contro la violenza alle donne” e autore di una articolata ricerca sull’evoluzione dell’identità maschile dell’Italia del secondo Novecento[42]; e il sociologo Marco Deriu, che ha animato a Parma il lavoro della rivista “Alfazeta” e che fa interagire la riflessione sul maschile e sulle relazioni di genere con la cultura della nonviolenza e l’innovazione epistemologica[43].
Il loro lavoro fa oggi parte di una rete che si sta costituendo tra i gruppi di uomini, composta da gruppi che esprimono sensibilità politiche, culturali, religiose e sessuali diverse tra loro e al cui interno, di volta in volta, si trovano i più disparati equilibri tra il fare militanza politica, autocoscienza, self-help o ricerca storica e teorica[44].
La parola di chi lavora ad esplorare un altro maschile, infatti, non può avere autorevolezza se il lavoro su di sé non diventa relazione tra uomini. Una relazione che è politica e che non esclude ma al contrario permette le relazioni politiche tra uomini e donne. Il lavoro di questi gruppi offre anche ad altri uomini l’occasione di superare l’impasse pubblica del discorso maschile, di arginare il suo assordante silenzio[45]. Parla anche agli storici uomini, di tutte le generazioni, a cui propone un modello possibile per lavorare su quell’intreccio di materialità e storia di cui sono fatti i nostri corpi. Un modello per praticare un sapere maschile sessuato. Qualcosa che ci manca e qualcosa che ci assomiglia.
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[1] “Sono molto combattuto per l’attrazione tra qualcosa che mi manca e qualcosa che mi assomiglia” è un’espressione di Simonpietro Marchese, che ci ha lasciato all’improvviso e a cui dedico questo lavoro. Il testo prende complessivamente spunto da un precedente lavoro (Vedovati, 1999a) che fu commissionato da Barbara Mapelli, che ora ringrazio. All’epoca uscirono anche altre rassegne storiografiche su l’argomento: Piccone Stella, 2000, Vaudagna, 2000.
[2] Sono state, in Italia, Gianna Pomata (Pomata, 1983), Paola Di Cori (Di Cori, 1987, 1990, 1996 e 1997) e Luisa Passerini ad introdurre nell’ambito storiografico la prospettiva di genere: il lavoro di storiche anglosassoni come Joan W. Scott (Scott, 1987). È significativo che anche la “storia degli uomini” è stata introdotta e sollecitata dalle storiche (Uomini, 1989) e che ad esse si debba l’unico manuale di storia con una prospettiva di genere (Bravo, Foa, Scaraffia, 2000).
[3] La questione è stata posta in Kelly-Gadol, 1976.
[4] L’attitudine (maschile) ad un pensiero che crea rifiuti è analizzata in Scanlan, 2006.
[5] Rappresentativi di questi primi approcci sono: Sawyer, 1971; Farrell, 1974, Fasteau, 1975.
[6] Per una ricostruzione delle vicende dei movimenti maschili statunitensi vedi: Messner, 1997, e Kimmel, 1995. Per una sintesi dell’evoluzione dei modelli maschili nella storia statunitense vedi: Rotundo, 1993; Kimmel, 1996. Una estesa bibliografia sui men’s studies nel mondo anglosassone è Flood, 2006.
[7] Il testo che ha portato alla notorietà le tesi di Bly è: Bly, 1990.
[8] Questo approccio è alla base – nell’ambito dei men’s studies – di ricerche sociologiche e psicologiche che evitano verifiche storiche. L’approccio giornalistico alla “crisi del maschile” – anche in Italia – si nutre di questo tipo di studi.
[9] Sui modelli della mascolinità statunitense negli anni Ottanta vedi: Jeffords, 1994. Alcuni testi rappresentativi degli inizi del movimento dei men’s rights sono: Doyle, 1976; Goldberg, 1976 e 1979. Per la sua evoluzione vedi: Farrell 1983 e 1993.
[10] La sconfitta del Vietnam ha messo in crisi l’immagine della “potenza” statunitense. Le difficoltà di reinserimento sociale dei reduci hanno reso ancor più esplicito questo nesso simbolico tra potenza nazionale e virilità. Su questi temi vedi: Jeffords, 1989.
[11] Una ricostruzione sul radicamento di queste posizioni nel corso dell’intera storia statunitense è in Kimmel, Mosmiller, 1992. Tra le prime sistematizzazioni teoriche: Stoltenberg,1990 e 1993; Hearn, Morgan, 1990; Brod, Kaufman, 1994.
[12] Il nesso tra differenza di genere e differenza di classe è alla base dell’impostazione di Torlson, 1977, e di Hearn, 1987.
[13] Negli ultimi anni si sono moltiplicati i testi che, con questa prospettiva, introducono agli studi di genere sul maschile: Whitehead, Barrett, 2001; Whitehead, 2002; Adams, Savran, 2002; Gardiner, 2002; Connell, Hearn, Kimmel, 2000 e 2005.
[14] Vedi ad esempio, in Inghilterra, l’approccio proposto da Jeff Hearn (Hearn, 1991), Victor Seidler (Seidler, 1992 e 1994) e John Tosh (Tosh, 1996). Negli Stati Uniti quest’approccio è portato avanti dall’American Men’s Studies Association (AMSA), nata nel 1991 e promotrice dal 1992 del “Journal of Men’s Studies”.
[15] In ambito antropologico vedi i lavori sulla costruzione della mascolinità eterosessuale (Gilmore, 1993) ed omosessuale (Herdt, 1981).
[16] L’esplorazione della genealogia maschile può avere esiti paradossali laddove venga usata dagli storici per costruire una finta distanza tra sé e i propri “padri”, in una prospettiva “pacificante”. Maurizio Vaudagna cita acutamente, in proposito, lo storico della paternità Ralph LaRossa (Vaudagna, 2000, p. 27): “Costruendo storie che dipingono se stessi come diversi dai loro predecessori, gli uomini realizzano quella che si può chiamare la politica del sé e dell’altro. ‘Alterizzare’ [other-izing] i padri di ieri, così come ‘alterizzare’ un’altra razza o genere, permette agli uomini di sentirsi meglio con se stessi”. La citazione di Vaudagna è ripresa da LaRossa, 1997, p. 5.
[17] Su questo punto la differenza tra l’approccio alla storia maschile proposto dagli studiosi anglosassoni, da una parte, e quelli provenienti dall’Europa continentale, dall’altra, è radicale. Vedi ad esempio la “distanza” scientifica presente alla base dei lavori degli storici europei che indagano sulla “restaurazione” della virilità promossa dai movimenti nazionalisti e dai fascismi: Mosse, 1984 e 1997, Theweleit, 1997; Banti, 2005. Differisce invece da essi l’impostazione di Pierre Bourdieu (Bourdieu, 1998).
[18] La citazione di Ehrenreich è tratta da Connell, 1996, p. 47.
[19] Sul modello della mascolinità vittoriana in Inghilterra vedi: Roper, Tosh, 1991; Tosh, 1999 e 2005; McLaren, 1999. Per gli Stati Uniti vedi: Carnes, Griffen, 1990; Dellamore, 1990; Carnes, 1994; Stearns, 1999.
[20] Il nesso tra l’identità di genere e l’appartenenza razziale è stato indagato da vari punti di vista (e soprattutto da studiose donne). Per quanto riguarda ad esempio la whiteness, cioè la costruzione sociale dell’idea di superiorità del uomo e del maschio bianco, vedi Roediger, 1999, e Kasson, 2001. Sul corpo della donna come conflitto razziale vedi: Frankenberg, 1993. Sulla rappresentazione del corpo dei “neri” americani: Friedrickson, 1972.
[21] Vedi: Leed, 1988; Adams, 1990; Jarvis, 2004.
[22] Vedi in particolare: Lehman, 1993; Pendergast, 2000.
[23] Un’eccezione sono quegli uomini che esplicitano il proprio orientamento non eterosessuale. Dopo l’esperienza militante proposta da Mario Mieli già negli anni Sessanta, si sta ormai imponendo una storiografia omosessuale di rilievo. Vedi ad esempio due recenti contributi: Benedusi, 2005, e Goretti, Giartosio, 2006.
[24] Diciamo che da una parte, le generazioni più giovani, si fatica a portare in evidenza il conflitto e dall’altra si finge di non vedere.
[25] Due esempi: L’altro uomo, 1977, e L’antimaschio, 1977. Nel primo di questi volumi Marco Lombardo Radice auspicava: non faremo in tempo ad essere gli uomini nuovi, speriamo di essere gli ultimi vecchi.
[26] Maurizio Vaudagna si occupa, tra l’altro, dei rapporti tra pubblico e privato nella storia contemporanea americana.
[27] Mi sembra questo il caso di quegli uomini che riducono il femminismo a filosofia.
[28] Mi riferisco in particolare alla vicenda del Pci della seconda metà degli anni Ottanta, con il tentativo fatto dalla Carta delle donne, promossa nel 1987, e dall’esperienza della rivista Reti, diretta da Maria Luisa Boccia.
[29] Vedi tra l’altro: Tronti, 1998. Altri due intellettuali di sinistra che hanno colto l’impatto del femminismo sul maschile sono stati Michelangelo Notarianni e Aldo Tortorella.
[30] Vedi ad esempio i contributi di uomini come Giuseppe Cotturri, Luigi Ferrajoli, Giuseppe Bronzini, Amedeo Santosuosso, in Diritto sessuato?, 1993, e La legge e il corpo, 1996.
[31] Tra il 1997 e il 1995, nella pagina intitolata “L’uno e l’altro”.
[32] Carmine Ventimiglia, morto nel 2005, ha pubblicato molti articoli e libri sul maschile. Vedi tra l’altro: Ventimiglia, 1987, 1996 e 2002.
[33] Di Alfredo Capone vedi: Capone, 1998 e 2000.
[34] Tra i molti contributi di Claudio Risé: Risé, 1993a, 1993b e 1995.
[35] Di Franco La Cecla vedi: La Cecla, 2002.
[36] Di Tullio Aymone, morto nel 2002, vedi: Aymone, 1992, 1993a e 1993b.
[37] Di Osvaldo Pieroni vedi: Pieroni, 2000.
[38] Il legame tra la vicenda della soggettività moderna, la differenza sessuale e il genere è messa in evidenza in Boccia, 1999 e 2002. Sul termine soggettività vedi Di Cori, 1990.
[39] Il noi si riferisce ad un gruppo, romano, promosso da Stefano Ciccone, e variamente composto nel tempo. Vi hanno preso parte, tra gli altri, Renato Sebastiani, Michele Citoni, Andrea Baglioni. Per un resoconto della prima parte di questo percorso vedi: Sebastiani, Vedovati, 1993. Nel tempo il gruppo romano si è trasformato ed è cresciuto grazie all’apporto – tra gli altri – di Massimiliano Luppino, Simonpietro Marchese, Jones Mannino, Fausto Perozzi, Massimo M. Greco, Gianfranco Proietti, Andrea Ciantar, Claudio Tognonato. Questa esperienza è ora documentata sul sito internet www.maschileplurale.it.
[40] L’evoluzione di questo sguardo sul maschile, è documentato da testi sparsi tra riviste, quotidiani, trascrizioni di interventi pubblici e soprattutto taccuini personali che sono rimasti tali. Si possono vedere: Ciccone, Sebastiani, 1995; Sebastiani, Vedovati, 1993; Ciccone, Vedovati, 1997 e 2000; Vedovati, 1996, 1999a e 1999b; Ciccone 2000, 2002, 2005a e 2005b; Citoni, Ciccone, 2001.
[41] Il riferimento è a quanto ci esortava Maria Luisa Boccia (Coppola, vedovati, 1989)
[42] Vedi in particolare di Sandro Bellassai: Bellassai, 2000, 2003, 2004 e 2006.
[43] Di Marco Deriu vedi: Deriu, 1997, 2003 e 2006. Sulle cui pagine di “Alfazeta” per la prima volta, nel 1997, si sono pubblicamente confrontate esperienze maschili provenienti da diverse città italiane (Derive del maschile, 1997).
[44] Questi gruppi sono: gli Uomini in cammino di Pinerolo (http://web.tiscali.it/uominincammino/), i promotori degli incontri di Agape, il Cerchio degli uomini di Torino, il Gruppo uomini di Verona, il gruppo Maschile plurale di Bologna, l’esperienza milanese che ruota intorno a Umberto Varischio, il Gruppo uomini di Viareggio, l’associazione Uomini casalinghi di Pietrasanta.
[45] Un esempio recente è l’appello La violenza sulle donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini, promosso da questa rete di uomini e pubblicato sulle prime pagine dei quotidiani “il manifesto” e “Liberazione” (19 settembre 2006). Il testo – che ha raccolto centinaia di adesioni di uomini – ha rilanciato il dibattito promosso il 6 novembre 2005 dal quotidiano “Liberazione”, che aveva posto la domanda “Maschi, perché uccidete le donne?” (Nel cuore della politica, 2006).
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