Giu 1993 “Turisti per caso. Viaggio difficile intorno alla differenza maschile”
di Renato Sebastiani e Claudio Vedovati *
pubblicato in Democrazia e Diritto n.2 1993
«−Vé, te porte mé, / vòi fatel veder / ‘l om che volares. / − Fin ros el me devé / ma el strapeghe / daanti al prim specc. / Che pora che ghe vé / e mé, con l’oter là / ze dre a rider»[1] (Franca Grisoni).
‘l om che volares: l’uomo che vorrei, il desiderio di una donna. Ma qual è invece l’uomo che noi, uomini, vogliamo? Siamo capaci di metterci spontaneamente davanti ad uno specchio, senza esservi «strascinati», superando la paura del guardarvi dentro, trovando un’identificazione? Queste le domande che come uomini non possiamo eludere per cominciare ad affrontare il difficile viaggio intorno alla nostra identità sessuata. Segnati dallo scarto tra desiderio e condizione reale, non è stato facile capirlo.
Scopo di questo scritto è descrivere i passaggi di un tentativo fatto in questa direzione. Una esplorazione sulla propria condizione di individui sessuati svolta da un gruppo di ragazzi romani a partire dalla seconda metà del decennio trascorso, iniziata con lunghe chiacchierate private davanti ad una tazza di tè, proseguita poi in riunioni di gruppo, discussioni in luoghi pubblici (assemblee del movimento della pace, sezioni del Pci, feste dell’Unità), e incontri con collettivi di donne.
E’ stato un percorso non sempre lineare, che ha oscillato tra le forzature dei momenti pubblici e la molteplicità dei bisogni più intimi di chi vi ha partecipato, in cui non è mancato uno sforzo di autoriflessione. Un ruolo importante è stato svolto anche dall’esperienza di alcune riviste (Guernica dall’82 all’85, Amori difficili dall’89 al ‘90, e infine Novantuno), in cui questa riflessione si è intrecciata con la ricerca sulle culture della pace, sulla condizione giovanile, sulla critica ai saperi e al modello dominante di sviluppo.
Dalla necessità di prendere posizione sullo stupro alla voglia di parlare di se stessi
«È sera, camminando incontriamo una ragazza, ci vede e affretta il suo passo finché non ci siamo sufficientemente allontanati. Due uomini di sera fanno paura, noi le abbiamo fatto paura. In questa situazione l’affermazione provocatoria secondo cui “gli uomini sono tutti stupratori” si fa reale e concreta e non c’è nulla che, agli occhi della sconosciuta, ci distingua da uno stupratore. Il primo impulso sarebbe la voglia di comunicare la nostra non aggressività, eppure molte donne hanno pagato subendo violenza la loro fiducia nei confronti dell’amico, del parente, del collega, dell’apparente “bravo ragazzo”»[2].
Cominciava così una lettera aperta pubblicata sul bollettino dell’Associazione per la pace del marzo del 1988. Scritta da alcuni di noi, la lettera nasceva dall’esigenza di prendere posizione pubblica dopo uno stupro verificatosi nel pieno centro di Roma[3]. Ci sentivamo chiamati direttamente in causa e cresceva dentro di noi il bisogno di avviare, come uomini, una riflessione sulla violenza sessuale. Quanto siamo simili e quanto diversi dallo stupratore? Non era una domanda retorica. Lo stupro non è il frutto di una devianza, l’atto di un «maniaco», ma affonda le proprie radici in un universo maschile comune anche alla nostra cultura e alla nostra condizione. «Sono queste radici – scrivevamo – che vogliamo esplorare; radici che soffocano anche la ricchezza possibile della nostra vita di uomini»[4].
In realtà questo percorso di riflessione e di comunicazione era cominciato tra noi già qualche anno prima, in occasione del corteo dell’8 marzo del 1985. Al centro di quella manifestazione era la battaglia per l’approvazione della legge contro la violenza sessuale. Anche qui sentivamo la necessità di una riflessione autonoma come uomini sulla cultura dello stupro.
Sentivamo quella battaglia come nostra, come cosa che ci riguardava direttamente, un punto di partenza in comune con le donne. Ma avevamo il problema di esprimere in modo adeguato questo nostro sentire. Limitarci a prendere pane al corteo, come tante altre volte nel passato avevamo fatto, ci sembrava non solo non sufficiente, ma sviante, forse il frutto di una non esatta comprensione del problema.
«La presenza di uomini nei cortei delle donne – si era scritto in un volantino di quei giorni – è ogni anno fonte di polemiche. Questa presenza, spesso richiesta inespressa di dialogo e dimostrazione di solidarietà o di semplice curiosità, ugualmente maldestro tentativo di intromissione, oggi vogliamo metterla in discussione: crediamo infatti che pur esprimendo spesso una volontà di costruire un rapporto non abbia contribuito ad aprire varchi di comunicazione. Gli schiaffi che abbiamo spesso preso o i girotondi intorno a noi non hanno fatto crescere nessuno, la nostra presenza è stata vissuta comprensibilmente dalle donne come un’aggressione ed ha reso più difficile e lacerante un dibattito ed una riflessione che sappiamo avviati tra generazioni diverse di donne sul tema del separatismo e del rapporto con i maschi»[5].
Era questo un primo livello di riflessione, certamente ancora arretrato[6], ma che coglieva comunque la necessità di una nostra iniziativa autonoma. Cominciammo partendo dal disagio vissuto rispetto ai modelli storici della sessualità maschile: volevamo esprimere una critica compiuta di quei modelli[7] ma anche cogliere in maniera liberatoria le ricchezze possibili della parzialità maschile. In questo senso nasceva la necessità di un confronto con le riflessioni della cultura delle donne – identità/differenza, parzialità/norma – non come atto dovuto ma come opportunità da sfruttare[8].
Critica della politica, identità e sessualità
«Negli anni ottanta, mentre sotto il segno del craxismo tutto il mutamento possibile veniva ceduto al campo dell’avversario, la critica femminista della politica ha conosciuto la sua migliore stagione»[9]. Queste parole di Ida Dominijanni ci aiutano a collocare meglio il senso di quell’esperienza, e a motivare l’importanza di riprendere il filo di quei ragionamenti.
C’è infatti una generazione politica che non può accettare il senso comune diffusosi a sinistra intorno al decennio passato e che denuncia come un impoverimento ed una rimozione l’idea che gli anni ottanta siano stati solo un periodo buio, attraversato esclusivamente da sconfitte.
In quegli anni sono emersi anche nuovi bisogni e nuove identità che hanno tentato di definire e praticare un diverso paradigma della politica, facendo leva sui limiti dei tradizionali sistemi di welfare e delle strategie storiche del movimento operaio.
Mentre diventava predominante, anche a sinistra, una visione economicista della politica – organizzazione «neutrale» di interessi, praticata da individui che si credono autofondati e autosufficienti, ma che in realtà soggiacciono all’imperativo dell’astratta valutazione economica –, pacifisti, donne, giovani, ambientalisti (figure magari coincidenti in un’unica esperienza), tentavano di contrapporne ad essa un’altra, partendo dal principio che la relazione con l’altro è sempre costitutiva del soggetto. Politica, dunque, come relazione che permette di istituire un ordine comune, di pensare l’agire sociale, di intrecciare un legame tra singolarità concrete e collettività.
E’ stato un tentativo di combattere la saldatura, poi avvenuta a fine decennio, tra modernizzazione e razionalizzazione capitalistica. Tentativo che ha criticato anche le forme in cui ha preso corpo la vicenda politica di questo secolo (partito di massa, sviluppo inesauribile, riformismi nazionali), e ha scelto, ad esempio, la messa in discussione delle appartenenze, lo smascheramento del carattere universale e neutrale della rappresentanza, la battaglia per un diverso modello di sviluppo come risposte in avanti alla crisi della sinistra.
Eppure allora – ben prima dell’attuale rimozione – la politica operava solo un’annessione neutralizzata delle cosiddette «nuove tematiche»: donne, ambiente e pace, punti programmatici distrattamente citati, «novità» considerate aggiuntive e, nella loro parzialità, incomunicanti. Raramente se ne assumeva invece la valenza di critica complessiva delle relazioni sociali, del modo di produrre, consumare, pensare. A leggere queste «parzialità» è stata una politica che non ha smesso di presupporre se stessa come «generale» e neutra, come direzione dall’alto dei processi.
La scelta di discutere di sessualità maschile in pubblico, dentro i luoghi della politica, si inseriva certo facilmente nel bisogno individuale di cercare e trovare in modo nuovo risposte ad interrogativi e vicende di vita personali. Anzi, all’inizio questa è stata la spinta più forte, tanto che le pulsioni individuali hanno continuato a contare molto anche quando la dimensione «pubblica» ha preso il sopravvento. Ma la scelta esprimeva anche la nostra necessità di trasformare la politica, di farla parlare e farle ascoltare altri linguaggi, linguaggi che parlassero di altre dimensioni della vita. Ed era insieme la presa d’atto della necessità di porre fine ad un pensiero della politica astratto, incapace di mediare domande radicali di senso e d’identità, bisogni che non accettano sintesi tradizionali e per questo si dimostrano dirompenti. Ad entrare in crisi – sotto le spoglie rivestite nella politica – era in realtà un pensiero maschile neutrale, pietra di misura unica rispetto alla quale costruire e descrivere altri pensieri e soggetti parziali. La critica dunque è stata rivolta anche alle forme dell’individuo moderno.
Per questo nella generazione di cui facciamo parte – nata a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e la fine dei sessanta – la critica della politica ha rappresentato uno strumento inedito di ricerca d’identità: culturale e sociale, individuale e collettiva. Essa è andata di pari passo con una domanda di autonomia rispetto alla storia passata del paese, alle sue culture politiche, alla forme ereditate di organizzazione politica.
La cultura politica delle donne: un’opportunità per gli uomini
La coincidenza tra critica della politica e costruzione d’identità è stato certamente un punto di contatto con la cultura delle donne, nel momento in cui essa ha integrato la fase di denuncia dello sfruttamento maschile con il bisogno di esprimere compiutamente la differenza del soggetto femminile. Il presupposto comune era dunque il sentire, il vivere la sessualità come una caratteristica non temporanea che segna menti e corpi, dentro cui non c’è solo discriminazione e oppressione, ma anche una parzialità che è espressione di ricchezza: dunque «qualità dell’essere e del pensare» che è d’obbligo attraversare per chiunque, donna o uomo, voglia definire autonomamente la propria esistenza.
Non è un caso allora che la ricerca di autonomia e d’identità della nostra generazione si sia subito scontrata – per gli uomini – con un disagio profondo verso i modelli ereditati di sessualità maschile. Si è stabilito un nesso – che è stato prima di tutto un conflitto – tra la sessualità, i modi di viverla e di esprimerla, e il modo di fare cultura, di essere, pensare e stare con gli altri. Tra il modo di progettare la propria esistenza e lo stare nel proprio corpo. Era la consapevolezza, da una parte dell’impossibilità di conquistare una nostra autonomia senza riflettere e rimettere in discussione la nostra identità sessuata e dall’altra della crisi dell’identità maschile come crisi di una cultura che ha pervaso di sé tutte le relazioni umane.
Anche rispetto alla riflessione sullo stupro è stato subito evidente che, se il problema era quello di confrontarci con identità diverse rappresentate da forme di sessualità che sono anch’esse diverse, ciò andava fatto a partire da noi stessi, da un’analisi cioè della sessualità «al maschie». Avevamo capito che la nostra non doveva essere né l’iniziativa dei maschi «aperti e illuminati» né tanto meno lo scotto da pagare per rendere credibile la nostra «buona fede» verso le donne, mettendoci la coscienza in pace. D’altra parte non si trattava neanche di assumere un atteggiamento vittimista, quasi a rivendicare dei problemi nostri in contrapposizione a quelli dell’altro sesso.
Non ci si proponeva dunque, di appoggiare diritti altrui come se questo ci avesse poi privato di alcuni privilegi. Noi cercavamo una nostra libertà e questa ricerca passava attraverso il rifiuto del modello maschile tradizionale, come di ogni mito della virilità. Ciò comportava quindi non il semplice riconoscimento della legittimità dell’elaborazione delle donne o della ricchezza della cultura della differenza, quanto piuttosto il riconoscimento vero e proprio della differenza sessuale, da assumere fino in fondo, fino alla percezione di noi stessi come differenti, come parzialità, e non come norma. Un’opportunità di conoscenza e non un atto di umiltà, un’occasione e non certo una rinuncia.
Per una critica della differenza maschile
La nostra scelta è stata perciò quella di affrontare il tema della violenza sessuale in stretta connessione con i modi in cui ciascuno di noi viveva la propria sessualità. La «mascolinità» come luogo segnato dal dominio tra i sessi.
Infatti, se sentiamo odiosa e insopportabile la violenza estrema dello stupro, sappiamo anche che essa è figlia di tante piccole violenze quotidiane che le donne subiscono ad opera dei loro mariti, datori di lavoro, colleghi, compagni di scuola. «Gli uomini che non hanno mai stuprato nessuno tendono a rimuovere l’orrore della violenza sessuale, a considerarlo qualcosa che non li riguarda, frutto di una devianza illogica e omicida che nulla ha a che vedere col mondo dei normali»[10]. E’ per questo che, convinti che non esista una devianza «indipendente» dalle dinamiche e dalla cultura della società, abbiamo cercato di raccogliere la provocazione contenuta nell’affermazione che in ogni uomo si cela uno stupratore potenziale[11].
A farci porre questa questione è stato un bisogno profondo: «noi stessi non ci sentiamo a nostro agio in questa situazione; essa procura da nostra individualità almeno altrettanti danni quanti ne provoca alle donne. Ne è un esempio l’emarginazione e lo scherno di cui continuano ad essere fatti oggetto gli omosessuali, quasi una sorta di avvertimento per chi non fosse poi tanto convinto di dover sbandierare in ogni modo il suo essere “macho”»[12].
La critica ai modelli tradizionali della sessualità maschile è divenuta subito una critica delle forme di socialità dominanti tra uomini: «il ruolo a cui un uomo ancora oggi si deve uniformare è quello di “possedere”, di essere “potente”. I rapporti tra i maschi difficilmente sono improntati a vera solidarietà. L’elemento che domina è la competitività, magari presentata con il vestito buono: l’emulazione. La sessualità maschile non è forse stata ingabbiata nel binomio potenza-impotenza? Non si dice comunemente “possedere una donna”? È un modo di esistere che ci permea ancora moltissimo e che si traduce in rapporti umani. Violenza verso la donna, “oggetto di competizione”, violenza (diversa) verso noi stessi e verso gli altri. Non può esserci comunicazione, solidarietà su queste basi»[13].
E ancora: «considerare il rapporto sessuale come una sfida da vincere, la sessualità come una prestazione, come qualcosa di cui “essere all’altezza”, fa vivere male una parte essenziale della nostra vita perché la caricano di frustrazioni e sensi di colpa che come uomini continuiamo a vivere individualmente»[14].
Non a caso ci siamo rivolti anche ai nostri compagni nell’Associazione della pace, uomini che, per aver vissuto nel movimento per la pace il tentativo di sottoporre a critica una cultura dei rapporti tra gli stati e tra gli individui fatta di violenza e di sopraffazione, dovevano sentire dentro di sé più stridente e dirompente questa contraddizione. E questo nesso lo sentiamo ancora più vivo oggi, di fronte agli stupri di guerra perpetrati in Bosnia. Come può un uomo combattere la cultura della guerra senza affrontare dentro di sé i modelli ereditati d’identità sessuale?
Il silenzio degli uomini
Il disagio rispetto alle forme in cui viviamo la nostra sessualità era ed è accresciuto anche dal silenzio che sul tema regna tra maschi. Infatti, non solo la sessualità maschile è ridotta a povera cosa, se costretta tra i binomi potenza/impotenza, possesso/conquista, ma come tale è oggetto di una rimozione continua, o di un parlare imbarazzato e rozzo. Il silenzio non come scelta ma come difetto di comunicazione.[15]
Secondo una convenzione diffusa, forse stereotipata ma onestamente sentita anche da molti di noi, gli uomini parlano con difficoltà delle loro «cose» intime. Anzi, il solo fatto di provare sentimenti sembra sconveniente» per un uomo. «Una caratteristica del maschio che io sento fortissima -ha scritto uno di noi -è la solitudine all’interno del suo sesso. Quanti di noi riescono a parlare con altri ragazzi della loro sessualità, di come vivono le pulsioni più profonde, in modo sincero? Com’è difficile togliersi le corazze»[16].
In una ricerca sulle forme di socialità maschile Rita Caccamo ha mostrato in maniera esemplare quanta solitudine si nasconda anche dietro ad esperienze collettive per eccellenza: da banda di ragazzi, la vita nel quartiere, le vacanze collettive, l’attività politica, in generale il fare gruppo rappresentano i classici esempi di amicizia maschile. Gli amici, con i quali si compete sulla base di metri di valutazione legati alla bravura, alla prestazione, al successo nell’azione e nella gara, sono perciò molto spesso dei “compagni di strada e d’avventura”. Alla vita in gruppo, per gli uomini si accompagna però anche un profondo senso di solitudine che non è bilanciato dalla solidarietà collettiva»[17]. Questo perché il rapporto tra uomini è basato su una rimozione. Non c’è infatti solo la competitività a frustrare le ricchezze possibili della sessualità maschile, ma una incapacità a compiere quel passo che permette di aprirsi all’altro da sé, che dunque trasforma le carezze e gli abbracci in pacche sulle spalle, la solidarietà in cameratismo.
Ancora la nostra esperienza ci mostrava come noi uomini parlassimo assai più con le donne, soprattutto nei momenti di crisi e di solitudine maggiore. Alla compagna, all’amica o magari da prostituta si parla con più facilità di noi stessi, del nostro corpo, dei nostri sentimenti. Ad esse si chiede quell’intimità che con gli altri uomini non riusciamo a creare, come se le donne avessero il linguaggio giusto, capissero, sentissero, si esprimessero più e meglio degli uomini. Questo ci rassicura, ci fa parlare. I nostri gesti goffi, le nostre aro le asettiche mostrano tutta la loro inadeguatezza, mentre «un’amica donna permette ad un uomo di raggiungere il lato emotivo della personalità, di comportarsi verso se stesso e verso “l’altro” femminile in modo più tenero (una carezza, un abbraccio …) di quanto non faccia con i propri amici maschi»[18]. Esiste una comunicazione interna tra le donne, forme di solidarietà e di intimità dalle quali l’uomo è storicamente escluso, a partire dal rapporto tra madre e figlia fino alle amiche e alle compagne di lavoro. Un linguaggio che non prescinde dal proprio corpo ma che anzi attinge dalla propria comune identità di sesso. Viceversa per gli uomini «anche con l’amico del cuore rimane l’incapacità a concedersi, a mettersi nelle mani dell’altro, a fare del proprio corpo un veicolo di comunicazione»[19].
Questo silenzio corrisponde alcune volte ad una vera e propria condizione di solitudine, di incapacità di comunicare, anche all’interno di un rapporto di coppia. La difficoltà di raggiungere un atteggiamento di apertura, di «resa in positivo, non cattura dell’altro da sé»[20], rende gli uomini «incapaci (impotenti?) di accettare i vincoli dell’attaccamento e del distacco che il rapporto affettivo inevitabilmente comporta»[21].
L’impasse del discorso pubblico
Non a caso anche nel nostro percorso c’è stata una forte resistenza a parlare di sé, travestita magari dalla tentazione di «buttarla in politica» o di mutuare parole e immagini non proprie ma espresse dal movimento femminista. Questa resistenza, non superata, ci impedisce ora di definire la nostra vicenda in termini di «gruppo di autocoscienza». Ci siamo invece resi conto di quanto é forte la tendenza all’autoassoluzione.
Proprio l’iniziare a parlare tra uomini della propria sessualità non ha diminuito ma accresciuto il silenzio, perché questa, di fatto, è una mossa che rompe una sorta di virile complicità, rapporti che si reggono sul non detto, su gesti incompiuti, sul malinteso. «Il riconoscersi simili, l’avere come punto di partenza la comune appartenenza al sesso maschile è risultato “fastidioso” o imbarazzante; di certo ha ostacolato una comunicazione profonda», si è scritto in una prima riflessione su questa esperienza[22].
L’autoriflessione funzionava ancora finché a farla si era in pochi, pochissimi. In due infatti ci si poteva riferire alla propria storia di individuo, da relazione tra amici che si conoscono da tempo e che hanno già scelto di parlarsi, anche se era sempre presente il rischio di finire per giocare ai sociologi e osservare l’universo maschile come neutri osservatori universali. Anche se questo non ha escluso che proprio in due, qualche volta, ci si scoprisse anche di meno, perché la complicità può funzionare ancora meglio.
Così non deve sembrare paradossale che il nostro bisogno di interlocuzione abbia incontrato reazioni più interessate tra le donne piuttosto che tra gli uomini. Al contrario, c’è stata da parte nostra l’incapacità di avvicinare uomini diversi da quelli omogenei del nostro gruppo, di trovare il modo di parlargli, di lanciare ad essi un «segnale» forte. D’altra parte la difficoltà di confrontarsi con gli altri corrisponde alla paura di riconoscere in loro la parte peggiore di sé, di scoprire che ciò che ci accomuna, anche partendo da esperienze diverse, possa essere una cultura di violenza e di oppressione.
Il silenzio tra gli uomini, la difficoltà di rapporto col proprio sesso non è stato, perciò, soltanto un tema del nostro discorso, ma anche lo scenario in cui esso si è svolto. E questo lo abbiamo vissuto con un senso di sconfitta.
Oggi poi ci interroghiamo se proprio l’itinerario pubblico – intrapreso quando ancora non avvertivamo alcuna impasse e senza voler peraltro cedere alla tentazione di rendere tutto astrattamente «politica» – non sia stato insieme il segnale di un limite (un deficit di autocoscienza?), non superato nella prima fase del la riflessione, e una strada sul momento più facilmente percorribile che ha poi reso difficile affrontare i nodi più complessi. Forse, anche l’aver cominciato dallo «stupro», forma radicale di una alienazione, ha reso più difficile l’interlocuzione con altri uomini, limitando la possibilità di nuove aperture.
Il corpo dell’uomo
«Ma l’uomo ha un corpo? Sa di possederne uno? Lo riconosce? Ne riceve i segnali? Riferisce il narcisismo al suo corpo? Se ricorda il passato, se immagina il futuro, chi pone al centro di questi ricordi, di queste previsioni: un corpo? E quale corpo?»[23]. Questi interrogativi hanno segnato in positivo e in negativo tutta la nostra riflessione. Da una parte infatti abbiamo preso atto di un sentire comune, di una lettura tradizionale del corpo maschile e della sua sessualità in termini negativi. D’altra però abbiamo cercato di individuare nel corpo dell’uomo cosa ne qualificasse comunque la differenza: un punto imprescindibile da cui partire per ridefinirne le qualità anche in positivo e per ripensare e praticare la propria specificità.
Il stato quello di condividere o contestare una visione negativa della sessualità maschile, se confrontata a quella femminile, quanto piuttosto di constatare che mentre «nella mentalità comune, la sessualità femminile ha una sua realtà autonoma e viva in se stessa (ad esempio una donna può decidere di avere un figlio “da sola”, cioè attraverso un rapporto occasionale, per vivere poi la maternità in modo più esclusivo), la sessualità maschile, invece, è come se fosse priva di un senso che acquista solo nel momento in cui si “possiede una donna”, o comunque ha bisogno di continue “verifiche” esterne»[24]. Non a caso, dicevamo forse calcando un po’ troppo la mano, «mentre nessuno si sognerebbe di dire che una donna vergine sia priva di sessualità…l’uomo che non abbia mai fornito prova delle sue “capacità” non è considerato uomo a tutti gli effetti»[25]. Invece, esperienze precluse all’uomo (mestruazione, gravidanza, parto, allattamento) segnalano continuamente alla donna di essere un corpo vivo, capace di creare la vita, di dare nutrimento e piacere
L’idea del sesso maschile ridotto a strumento, a macchina che misura la sua esistenza solo fuori di sé, ha peraltro riscontro anche nell’esperienza delle donne: «un corpo “altro da sé”, apparentemente privo di senso, che non riesce ad essere fino in fondo strumento di comunicazione, indice di povertà della loro cultura sulle relazioni sessuali»[26]; «il sesso, campo storicamente maschile, ora che è stato recuperato al femminile, ha rivelato la miseria della sessualità maschile… Questo concetto stereotipo di “vita sessuata” come “altro da sé”, porta l’uomo ad avere rapporti solitari, si potrebbe dire masturbatori, nonostante faccia l’amore con un’altra persona»[27].
Il segnale più evidente di quanto il sesso sia per il maschio «esterno a sé» era per noi la domanda che spesso segue un rapporto sessuale: «ti è piaciuto?». E una richiesta non solo di ruolo ma anche e soprattutto di esistenza, una rassicurazione, una conferma necessaria quando non si è in grado di coniugare il proprio piacere con quello dell’altro, il proprio corpo, le sensazioni, con i propri sentimenti.
A noi è parso che nella percezione negativa del nostro corpo maschile fosse il nodo profondo, il filo sotterraneo più robusto che lega lo stupro alla cultura e all’esperienza diffusa degli uomini. C’è un rapporto che lega la violenza sessuale all’esperienza quotidiana che un maschio fa con il proprio corpo: l’uomo accerta e dimostra la propria sessualità non a partire dai propri desideri ma dalla propria potenza. E il segno di una frattura tra la sessualità e i sentimenti.
Più difficile è stato invece ricostruire le qualità «positive» della differenza «al maschile», i punti di ricchezza su cui far leva. Questo è stato sicuramente un altro limite del nostro percorso, accentuato dalla difficoltà di scindere queste qualità dalle caratteristiche culturali e storiche che segnano il corpo maschile come strumento di dominio.
Proprio questo limite coglieva anche Maria Luisa Boccia, una delle donne che avevamo scelto come nostra interlocutrice: «a me ha colpito molto questa percezione fortemente negativa della sessualità maschile, che qui viene descritta come tutta esteriorizzata. Si parla del corpo come di uno strumento, chiuso dentro la dinamica potenza/impotenza, conquista/affermazione. Mi sembra che emerga l’idea che il corpo maschie non sia desiderabile in sé; è visto come qualcosa di sgradevole, ridicolo, minaccioso, che difficilmente può essere oggetto di piacere per la donna»[28].
Quale percorso fare, dunque, per scindere le caratteristiche del «dominio maschile» dalle parzialità intrinseche dell’esser uomo? Il problema maggiore è riconoscere l’artificialità della scissione. Perché, come ha notato Gabriella Buzzatti riferendosi alle donne, «il corpo non può essere un “indistinto dato” sia perché per ciascuna di noi il corpo è quell’impasto storico, culturale e biologico che non è intercambiabile, non è sovrapponibile, non è in alcun modo mutabile… sia perché la nostra sessualità non è “realmente” fondata sul corpo biologico, ma fantasticamente affidata al corpo immaginario e garantita dalla relazione e dal desiderio incrociato dell’altro»[29].
E dunque necessaria una scelta strategica che metta in luce la costruzione di una diversa genealogia maschile e le asimmetrie di percorso rispetto all’operazione che sul versante opposto hanno fatto le donne.
Differenza sessuale: L’asimmetria dei percorsi
Cosa differenzia allora il viaggio «verso l’appartenenza», di ricostruzione della propria identità come corpi e menti, di uomini e donne? Ci facciamo aiutare da Maria Luisa Boccia, che ha recentemente utilizzato[30] le trame di tre diverse pellicole cinematografiche per descrivere forme diverse e sessuate di appartenenza: Easy Rider, dove ci si mette in viaggio per allontanarsi da un luogo, «per appropriarsi sia della propria origine sia del luogo verso cui si va»; Turista per caso, dove il viaggio è sempre fatto con una valigia «che non si può abbandonare perché dentro c’è tutto quello che ci è necessario per essere», dunque ci si muove senza mai mettersi in discussione; infine Senza tetto né legge, storia di una donna che «non proviene da nessun luogo e non va in nessun luogo… non c’è luogo d’origine né luogo dove andare».
Tutti e tre i film sono immagini dell’essere «senza luogo», ma ne rappresentano declinazioni sessuate diverse: «senza luogo» maschile i primi due, dove c’è un «rapporto con una provenienza, con un’origine forte e piena; così piena che c’è necessità di dissolverla perché si teme di esserne posseduti»; femminile l’ultimo, perché esemplifica bene «la condizione per cui la donna si è messa in viaggio, come condizione necessaria, poiché né la domus né la polis, luoghi fondanti di appartenenza, sono in realtà tali per la donna».
Se la donna ha quindi bisogno di produrre da sé la propria appartenenza, l’identità, avendo rifiutato condizioni che non le sono proprie, l’uomo invece, il «pensiero maschile che ragiona sulla propria crisi», deve nominare a se stesso «che cosa ha perduto e il perché di questa perdita», cosa non ha mai avuto (ma che può riconoscere) e il perché di questa assenza.
La necessità di costruire una riflessione sulla differenza sessuale, richiede perciò a uomini e donne percorsi asimmetrici. Quello fatto dalle donne pone l’obiettivo di liberarsi da una identità, da forme di soggettività che non sono sentite proprie, e mettersi in mare aperto per intraprendere un viaggio in cui costruire la propria soggettività, il proprio orizzonte, uno spazio simbolico insieme ad altre donne, a partire dalla propria condizione comune di esclusione. Il pensiero della differenza, pensato e praticato da un uomo, incontra invece il problema di affrontare la crisi di modelli che, anche se vissuti con disagio e sentiti come imposti, comunque appartengono alla storia del proprio sesso maschile.
Di questa asimmetria ben consapevoli sono state le donne che interrogammo. Secondo Maria Luisa Boccia, ad esempio, rispetto alla messa in discussione dei modelli tradizionali della sessualità, «la crisi è vissuta da uomini e donne in forme profondamente diverse. Se per gli uomini si tratta di individuare i punti di distanza, ma anche i punti di adesione, non è la stessa cosa per una donna, che non si può riconoscere in questa storia, in questa cultura, anche perché non vi può ricostruire una propria genealogia femminile.
L’uomo sì, deve ritrovare i punti di questa storia e questa cultura che gli appartengono e gli hanno dato senso. Non siamo privi di origine allo stesso modo»[31].
Dunque rispetto a questa disparità di percorsi e asimmetria di condizioni, per l’uomo è importante scoprire i punti di adesione non forzata e manipolata all’identità sessuale ereditata. «I1 punto di vista parziale maschile – aggiunge Boccia – non può essere un punto di vista solo critico, di distanza dal soggetto; perché questo finirebbe per produrre una posizione simmetrica tra i due sessi, rispetto alla crisi di questi due modelli[32].
Certamente infatti il silenzio maschile non significa che poi gli uomini non si siano occupati di sessualità. Al contrario, l’elaborazione storica sulla sessualità e sul corpo, sia maschile che femminile, è stata prodotta principalmente da una cultura maschile, tanto sul piano scientifico quanto su quello letterario e artistico. Questa cultura non va rimossa, ma reinterrogata.
«Perché – si è chiesta invece Maria Luisa Boccia – nel momento in cui si deve riflettere e recuperare una posizione soggettiva maschile rispetto a quanto le donne vanno dicendo, la percezione di questa sedimentazione culturale va persa? E come se si sentisse il bisogno di fare tabula rasa, come se quella storia consegnasse solo contenuti da rifiutare, che non rappresentano più nulla di significativo. A me convince poco che un uomo, tutte le volte, per rapportarsi al modo diverso con cui la donna oggi gli si pone di fronte, e a quanto di autonomo come cultura ed esperienza va producendo, si liberi dei panni di quello che la storia e la cultura gli hanno insegnato, per ritenere quello che le donne producono più idoneo, più ricco, più rispondente a dare risposte ai problemi attuali. Non mi convince perché mi sembra un’operazione di non autenticità, ma di mascheramento dei propri processi e della relazione tra donne… Rimuovere le acquisizioni che gli uomini hanno fatto è una privazione anche per le donne: anche se sono segnate da un dominio rispetto all’altro sesso, non vanno perse. Confrontarsi con la cultura delle donne abbassandosi e facendosi più poveri, più umili, e più privi di risorse di che si è, è di nuovo un segno di disprezzo»[33].
Eppure, a nostro avviso, come non basta denunciare la povertà di una sessualità vissuta come strumento di dominio così non è sufficiente neanche un’«operazione di verità» rispetto da storicità della propria condizione sessuata che eviti rimozioni e tabulae rasae: occorre un gesto ulteriore di libertà, una collocazione nuova del soggetto maschile (e non, certo, una presa di distanza da esso) che sia in grado di restituirgli parola e capacità di comunicazione, colmare la frattura tra i suoi sentimenti e la sua sessualità. Non si può sminuire il bisogno di una rottura.
Il movimento delle donne si è interrogato su questo bisogno («trovare la libertà per pensarsi») e ha individuato via via diverse strategie, dal separatismo passivo dell’autocoscienza al «mondo comune delle donne»[34], luoghi in cui è sospesa la relazione tra i sessi permanentemente o, viceversa, come scelta di fase per poi reimpostare la relazione con l’altro, a partire da autonomia e libertà.
Certo, nel nostro caso invece il «dover rompere» con tutti i modelli maschili tradizionali, quasi che fosse altrimenti impossibile qualsiasi scoperta della propria sessualità, qualsiasi libertà, è stato un ostacolo che ha reso più difficile comprendere quel modello per quello che era: luogo d’identità e non solo di negazione. Eppure non era possibile fare altrimenti: la rottura – non ne abbiamo avuto dubbio alcuno – era un passaggio necessario e non superficiale per imparare a riconoscersi e anche per poter guardare più liberamente ai punti di ricchezza riconosciuti nel modello.
Casomai un limite che ora sentiamo più forte è stata la coincidenza che talvolta si è prodotta tra un’immagine negativa di sé ed una falsamente «idilliaca» della donna. Certo c’è stata idealizzazione, ma questa era uno strumento, l’unico che il nostro gruppo ha saputo darsi, per fare dei passi concreti. Serviva a dire: «c’è un’altra possibilità», altri modi di vivere la sessualità. Era un termine di paragone esterno che indicava a noi e fuori di noi la legittimità del nostro stesso percorso. Come tutti gli strumenti «d’emergenza» ha svolto un ruolo, ma ha anche fatto i suoi guasti, rivelato i suoi limiti, forse sviandoci da percorsi più ricchi. Ma ci ha comunque permesso di partire.
Insomma, tempi, luoghi, forme individuali e collettive per ricostruire una nostra genealogia critica, un’identità sessuata disalienata, liberata da funzioni di dominio, devono essere ancora trovati, senza prescindere tuttavia dal fatto che la parzialità del soggetto maschile non può essere realizzata in autonomia dalle donne, al di fuori di una relazione.
Riconquistare la paternità
Un tentativo in questa direzione lo abbiamo fatto ragionando sulla paternità. L’uomo, che non partorisce e non abortisce, ha bisogno di recuperare un rapporto con un evento in cui svolge in larga parte una funzione accessoria. Ma come? Qualche anno fa, in nome del «diritto alla paternità», l’allora ministro Amato fece una proposta ispirata ad un ricorso all’autorità giudiziaria fatto negli Stati Uniti da alcuni uomini per impedire alle proprie compagne di abortire: dare all’uomo un «potere di firma» in pretura per autorizzare un’eventuale interruzione di gravidanza sentita come lesiva del diritto alla paternità. A noi quella proposta colpì moltissimo e ci sembrò «figlia di quella stessa logica per cui, di fronte alla connaturata incertezza della paternità, si impone sempre ai figli il cognome del padre: si cancella la donna per affermare il ruolo dell’uomo»[35].
Non si tratta solo di un disconoscimento dell’autonomia femminile e del legittimo potere delle donne sul proprio corpo. La questione è che ancora una volta si è pensato che il corpo maschile abbia bisogno di ricorrere a strumenti esterni (la legge) per affermare il proprio ruolo. La presenza dell’uomo è ancora controllo, dominio sul corpo della donna. Ma è questa la paternità che vogliamo?
Vogliamo un riconoscimento da parte della legge di un nostro potere o un riconoscimento da parte dei figli del nostro corpo come veicolo di comunicazione? «La paternità a cui pensiamo significa possibilità di vivere un’affettività ed un rapporto con i figli che sia pieno ed autonomo, libero dal ruolo di “pater familias”, di trasmettitore, necessariamente distaccato sul piano emotivo, delle “conoscenze che contano” per diventare “uomo”. Un ruolo che è una gabbia che mortifica le potenzialità del rapporto tra padri e figli, che alza barriere, genera troppo spesso rapporti violenti con le donne e con i figli»[36]. Quest’esperienza non ci è affatto preclusa per natura, ma presuppone una rivoluzione culturale nel mondo dei comportamenti e dell’immaginario maschile.
Anche oggi, a fronte degli attacchi alla legge 194 come di quella sentenza della Corte di Cassazione che ha assolto un marito che costringeva con la forza la moglie a rapporti sessuali[37], pensiamo debbano essere gli uomini i primi a scendere in campo, a sentir violato il diritto alla libertà della scelta sessuale. E possibile – se lo vogliamo – costruire una presenza, forte della capacità di concedersi, di godere e far godere di sé, del proprio corpo e delle proprie emozioni.
Il dialogo con la cultura femminista
La convinzione che la parzialità del soggetto maschile necessiti, per realizzarsi, di misurarsi continuamente in relazione con l’altro sesso ci ha spinto a cercare un’interlocuzione in questa direzione, privilegiando il contatto con quelle donne che hanno deciso di rifondare una propria autonomia. Discussioni e dialoghi che si sono svolti in privato e in pubblico, con singole e con collettivi.
Tuttavia l’attenzione e la disponibilità dimostrata dalle donne rispetto a questa esperienza si è un po’ fermata di fronte ad alcuni aspetti. L’attenzione ha infatti oscillato «tra lo scetticismo e il sospetto di operazioni trasformistiche da un lato, e un atteggiamento un po’ “maternalistico” dall’altro, che ha assunto quasi sotto tutela questo percorso riconoscendo in esso elementi di analisi e di approdo che sono figli dell’elaborazione e dell’azione delle donne»[38]. La sensazione che abbiamo provato è stata spesso quella di interlocutrici che si limitavano a misurare il grado di legittimità o di avanzamento/arretratezza del nostro percorso solo in relazione ad un separato percorso delle donne, senza mettersi davvero in gioco.
Eppure, una parte rilevante della riflessione delle donne sulla propria autonomia ha contato sulla necessità di misurarsi con la relazione con l’altro sesso, proprio perché – per molte – la scelta del separatismo aveva il valore di una collocazione strategica e non di mossa fatta una volta per tutte.
Su questo punto ci è sembrato ancora una volta chiaro e stimolante un ragionamento di Maria Luisa Boccia: «O noi riusciamo come donne a portare gli uomini a pensare e ad agire come parzialità e quindi a ridefinire la propria soggettività a partire dalla propria parzialità, oppure la nostra stessa posizione di autonomia è continuamente messa in pericolo, non dall’azione degli uomini in sé, ma da noi stesse. Perché non riuscire a far questo vuol dire che noi saremo continuamente costrette a mediare e a contenere la forza della nostra stessa autonomia per mantenerci comunque in contatto con l’altro e quindi se il contatto non presuppone la parzialità vuol dire che noi ridurremo la nostra di volta in volta, la addomesticheremo»[39].
Questo non vuol dire per Boccia «che portare l’altro sesso alla parzialità è il fine o lo scopo di ciò che facciamo. Il fine e lo scopo siamo noi stesse, è la costruzione della soggettività femminile come soggettività autonoma. Tuttavia o anche l’altro sesso cambia il modo di produrre la propria soggettività in rapporto a ciò, ne viene condizionato, influenzato e modificato, oppure il senso di ciò che noi facciamo risulterà comunque modificato»[40]. Anche da questo abbiamo sentito rafforzata la necessità di una interlocuzione, senza che questa leda l’autonomia e l’asimmetria delle rispettive ricerche.
Una stanza vuota
Virginia Woolf si è chiesta quale poema avrebbe potuto scrivere la sorella di Shakespeare se solo avesse avuto una stanza tutta per sé e 500 sterline l’anno, senza dover accudire ai bambini o lavare i piatti[41].La proposta di riflessione che abbiamo avanzato a partire dal 1985 è stata in fondo un tentativo di aprire una stanza anche per noi, tutta per noi, dove affrontare questa nostra ricerca. L’esito, invece, è stato un’incapacità di frequentare collettivamente questa stanza[42]. Alcune volte ci sono mancate le parole, altre volte la forza di concederci, altre ancora il coraggio di fare i conti con l’immaginario e la complessità di determinazioni che qualificano storicamente la sessualità maschile. E anche quando abbiamo parlato, sentivamo di usare un linguaggio non adatto, importato (la politica, il femminismo), una falsa scorciatoia.
Gli esiti della crisi della sinistra a partire dall’89, le forme assunte dal conflitto politico nella crisi del paese, le nuove regole della rappresentanza, hanno aumentato il nostro disagio del mondo e diminuito la possibilità di rifondare la nostra identità sessuata in un percorso collettivo, legato alla possibilità di ripensare l’agire sociale e le regole che istituiscono un ordine comune tra gli individui. Questo non deve suonare come una scusa, ma piuttosto come un’ulteriore consapevolezza rispetto a necessità che sappiamo di non poter più rimuovere.
[2] R. Sebastiani, S. Ciccone, Se la notte lei ci incontra, in “Guernica”, n. 1, 1985, (ripubblicato in “Amori difficili”, n. 0, giugno, 1989). Lo stesso testo è stato pubblicato con il titolo di Una proposta di riflessione “al maschile” sulla violenza sessuale, in “Giornalino dei Centri d’iniziativa della per la pace”, Roma, numero speciale per l’8 marzo 1988, ripubblicato su “Noi donne”, n. 4, 1988.
[8] Cfr. per una ricostruzione di parte, certo funzionale a questi nostri bisogni, N. Coppola-C. Vedovati, Trovare la libertà per pensarsi. Identità e differenza nella cultura politica delle donne, in Amori difficili, giugno 1989.
[11] Cfr. R. Tatafiore, in Fluttuaria n. 10/1989, che coglie bene il nesso tra rimozione e complicità, silenzio e potere: «…la paura e il disprezzo degli uomini per “lo stupratore che è in loro”. Disprezzo e paura che sono un tutt’uno con le strumentali complicità tra maschi e con la scarsa conoscenza che gli uomini hanno dell’attività sessuale, malgrado siano da secoli i detentori del discorso sessuale nelle sue varie forme di rappresentazione e malgrado il loro potere sociale si basi sul governo dei loro potere sessuale».
[15] Poche le eccezioni: le lettere alle rubriche (sempre tenute da donne) nelle rivi-ste di attualità (cfr. R. Pisu, Maschio è brutto, Bompiani), o su un piano completamente diverso alcuni libri di autoriflessione, come La violenza negata, Angeli, 1988, di Carmine Ventimiglia o il più recente Riscoprire la mascolinità, Editori Riuniti. 1992. di Victor Seidler.
[41] V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Il Saggiatore, 1963.
[42] S. Ciccone, Una stanza vuota,cit.
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