Mag 2012 “Per amore della libertà”
di Franca Fortunato
pubblicato dalla rivista bimestrale Mezzocielo
nel numero Apr Mag 2012 “Contro la mafia perché donne”
La ‘nadrangheta è sempre stata , ed è, un fenomeno criminale costruito dagli uomini all’interno di un ordine sociale e simbolico patriarcale, fondato sulla famiglia e sulla subordinazione all’uomo della donna in quanto madre, sorella e figlia.
Tale subordinazione è stata sempre il punto di forza dell’organizzazione. Il fatto che la famiglia di sangue e la famiglia mafiosa coincidessero, ha consentito alla ‘ndrangheta di evitare fenomeni come il “pentitismo” e quando c’è stato qualche pentito non ha mai pensato di ucciderlo, né di uccidere i suoi familiari, se non a condanna definitiva. La strategia scelta è stata quella, tramite le mogli e con molto denaro, di fare pressione sul pentito perché interrompesse la collaborazione. A un certo punto, una nuova minaccia, più potente, ed imprevista, si è abbattuta su di essa. Mi riferisco alle tante donne, testimoni e collaboratrici di giustizia, che, in questi ultimi anni, hanno tolto agli uomini quello che le loro madri, per generazioni, avevano garantito: fedeltà e complicità, subordinazione e omertà, continuità e forza.
Sono queste figlie che, con le loro scelte, oggi stanno erodendo la ‘ndrangheta fin dalle fondamenta, almeno quella che conosciamo fino ad ora. Lea Garofalo, assassinata e sciolta nell’acido dopo essere stata torturata. Giuseppina Pesce, figlia di una delle più potenti famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro che, con le sue dichiarazioni, ha fatto arrestare anche la madre e la sorella. Maria Concetta Cacciola, fatta “suicidare” dalla famiglia, dopo aver iniziato la collaborazione. Tina Buccafusca, moglie del boss Pantaleone Mancuso di Nicotera, “suicida” prima che iniziasse la collaborazione con i magistrati. Rosa Ferraro, testimone contro i Pesce nel processo “All’Inside”.
Sono loro la prima generazione di donne, nate e cresciute in famiglie mafiose, che con le loro scelte stanno trasformando in debolezza quello che è sempre stato motivo di forza per la ‘ndrangheta. La coincidenza delle due famiglie. Lasciano mariti che non amano più, collaborano con i magistrati, denunciano genitori, parenti, familiari, mettono in discussione l’autorità e l’identità dei maschi dentro e fuori la famiglia.
La reazione violenta dei loro uomini era prevedibile, loro lo sapevano, come lo sanno le tante vittime della violenza maschile sul corpo delle donne (mogli, fidanzate, ex, sorelle, figlie) che decidono di lasciare i propri uomini e riappropriarsi della propria esistenza.
Che cosa spinge queste donne a rischiare la vita? Da dove traggono la loro forza? Per che cosa lottano e, a volte, muoiono? Per il desiderio di legalità e giustizia, come ripetono in molti? Non credo proprio. “Lo faccio per i miei figli, solo per i miei figli, e per me stessa, per avere una vita migliore”. E’ quanto ripetono tutte.
Nessuna di loro rinnega la famiglia da cui proviene, abbandona il marito mafioso, per il trionfo della legalità, ma solo e soltanto per amore di sé e delle proprie creature. E’ la libertà femminile che cammina nel mondo e che fa paura a tanti uomini, anche e ancora di più ai mafiosi. Il prezzo che queste donne stanno pagando, o rischiano di pagare, è alto, molto alto. Un prezzo doloroso, certo, ma non inutile. La misura delle loro scelte non è la quantità di arresti di mafiosi o la distruzione stessa della ‘ndrangheta, queste sono solo secondarie, vengono, se vengono, solo dopo il guadagno di consapevolezza della propria libertà, che queste madri stanno trasmettendo alle loro figlie.
Basta pensare a Denise, figlia di Lea Garofalo, che si è costituita parte civile contro il padre, in nome della madre, grazie a cui ha potuto dire ai suoi parenti: “Lo so che per la vostra mentalità sto sbagliando, ma voglio avere la possibilità di avere una vita diversa”. E una vita diversa la chiedono anche Annamaria Molé e Roberta Bellocco, appartenenti a due delle più potenti famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro, studentesse del Liceo scientifico di Rosarno che, in un convegno sulla legalità, organizzato dalla scuola, hanno dato testimonianza del loro desiderio di essere libere di poter vivere la propria vita, nonostante il nome che portano.
Donne di una Calabria attraversata dalla libertà femminile. Dico questo pensando anche ad Anna Maria Scarfò di Taurianova, che ha denunciato e mandato in carcere i suoi violentatori, alcuni dei quali mafiosi. Alle sindache Elisabetta Tripodi di Rosarno e Carolina Girasole di Isola Capo Rizzuto, che quotidianamente governano la propria comunità, rischiando la vita. A tutte le donne che nelle scuole insegnano alle più giovani l’autorizzazione ad essere libere. Scuole frequentate anche dalle figlie dei mafiosi. Insomma, le collaboratrici sono parte di una Calabria che sta cambiando, che è già cambiata, grazie alle donne. Vedere e riconoscere nel desiderio di libertà le reali ragioni che spingono le donne a collaborare con la giustizia, impone a rivedere i paradigmi stessi della lotta alla mafia. Le collaboratrici non possono essere separate dalle figlie e dai figli, lasciate/i a quella famiglia da cui vogliono fuggire, come è avvenuto per Maria Concetta Cacciola. Una donna, una madre va protetta insieme, e non separata, dalle figlie e dai figli, indipendentemente dagli arresti o meno conseguenti alle sue dichiarazioni. Questo vuol dire che non si può continuare a guardare alla lotta alla ‘ndrangheta senza tenere conto della differenza sessuale. Donne e uomini non sono la stessa cosa, neppure nella lotta alla ‘ndrangheta.
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