Autunno 2012 “I tre corpi del politico.
Appunti fra comunismo, femminismo e ambientalismo”
di Gian Andrea Franchi
Lo sviluppo del capitalismo negli ultimi decenni, con i suoi sempre più acuti fenomeni di devastazione umana e ambientale, ci sta costringendo a una nuova esperienza politica del nostro corpo.
E’ un’esperienza analoga, mutatis mutandis, a quella che può fare chi subisce un effetto patologico grave. L’ammalato grave, infatti, può fare esperienza diretta che il suo corpo in realtà rimanda a un più vasto insieme corporeo: il mio corpo è molto più vasto del mio Io. Il corpo è mio meno di quanto io sia del corpo.
Il corpo individuale è parte di un grande corpo, un tessuto di relazioni, comprensivo di tutti i viventi, che, a sua volta, rimanda a una dimensione inglobante che chiamo corpo ambientale (l’unorganische Leib del giovane Marx) (1).
Partire dal corpo, quindi, vuol dire porre il rapporto con la vita non umana che ci integra e sorregge e con l’intero corpo ambientale (che coincide con il sistema terrestre o biosfera: terminologia che non voglio usare). Siamo e sempre più saremo costretti a esperire, per via negativa, che la nostra esistenza e la nostra vita sono legate a molteplici forme di vita, senza di cui noi non potremmo vivere e quindi neanche esistere e a un più vasto ambito di relazioni che le comprende.
Tutto ciò è ormai evidente, anche a un livello di banale informazione. Informazione, però, non è esperienza. Anzi, l’informazione agisce oggi in senso opposto all’esperienza. Com’è noto, già Benjamin osservava come la modernità tendesse a rimuovere la possibilità dell‘esperienza. Questa rimozione è un modo fondamentale del dominio. La novità sta nel fatto che di questa ben più vasta dimensione del corpo siamo e sempre più saremo costretti a fare esperienza, individuale e collettiva. Se non riusciremo a farla, le conseguenze saranno catastrofiche.
La politica parte dall’esperienza del corpo, che è, ovviamente, la base di ogni possibile esperienza. Non si tratta più solo dell’inaccettabile ingiustizia dello sfruttamento del corpo di lavoro, che è la base della civiltà moderna. Siamo andati oltre. La condizione storica attuale, caratterizzata dalla pervasività incontrollabile di quel dispositivo di potere che è l’economia, divenuto la forma di vita dominante in modi sempre più capillari ed estesi, ci sta costringendo, ma con pericolosa lentezza, a fare esperienza di quello che chiamo corpo ambientale, l’ambito in cui prende forma la vita in generale e quindi la vita umana.
Questa esperienza negativa può essere rovesciata in positivo.
L’esperienza del corpo – singolare, sociale, storico-politico, ambientale –, rimanda a tre fondamentali e diversi filoni di pensiero e di pratica, che indico nel loro ordine storico più ovvio: il classismo d’impostazione marxista (con le sue varianti), l’emergere della questione ambientale come questione cruciale e il femminismo.
I movimenti femministi e la questione ambientale modificano l’esperienza del conflitto e della politica classisti, maggior forma di conflitto sociale e di attività politica dall’Ottocento fino a buona parte del Novecento, basata sull’esperienza del corpo di lavoro e del suo sfruttamento.
Ma c’è anche un’altra esperienza, l’esperienza di un altro corpo, del corpo che riproduce la vita e che ne ha cura, il quale precede e condiziona la prima. Dovremmo aver capito che la prima senza la seconda è monca e incapace di fare quel che la politica di classe voleva fare: liberare gli esseri umani da ogni forma d’ingiustizia. Per questo non basta la proposizione dell’uguaglianza, ci vogliono anche quelle della singolarità e della differenza.
Il corpo di lavoro è un corpo forza-lavoro, un corpo quindi da cui sono tagliate fuori tutte le altre dimensioni. E’ un corpo asessuato. Certamente, è maschile e femminile, anche infantile, le cui caratteristiche però sono colte solo in funzione del lavoro: le donne e i bambini in quanto fisiologicamente più abili e adatti a certi lavori e soprattutto per il minore o minimo o anche nullo salario in ragione della loro minore o minima o nulla forza contrattuale.
A partire da questo corpo di lavoro, le cui differenze appaiono solo nei termini funzionali alla produzione, nasce la politica di classe, intesa come il rovesciamento politico dello sfruttamento in solidarietà, del corpo sfruttato e ridotto a forza-lavoro in corpo collettivo, solidale. La lotta di classe è quindi anche esperienza politica della intrinseca dimensione collettiva del corpo, mentre il dispositivo dell’economia separa e contrappone i corpi nella figura mistificante dell’individuo isolato, giuridicamente libero, che si presenta sul mercato come mero detentore portatore di forza-lavoro.
Anche il corpo solidale della lotta di classe riproduce, però, il dominio sociale del corpo maschile. La differenza fra corpo maschile e femminile è qui inessenziale: la donna è uguale all’uomo. La lotta di classe, come l’abbiamo conosciuta, non esce dalla supremazia del maschile. Contiene perciò un limite intrinseco alla sua valenza universale. Il corpo che si presenta nella lotta di classe è modellato sul corpo maschile (2).
Oggi, inoltre, è diventato evidente che l’esperienza dello sfruttamento del corpo di lavoro implica la più vasta dimensione corporea ambientale, quella dell’intero circuito in cui si forma e riproduce la vita, su cui si esercita l’impatto violento della produzione capitalistica.
Ciò significa anche che la produzione di beni deve stare dentro la riproduzione della vita, che oggi è invece intaccata da quella. Il dominio della produzione sulla riproduzione, dell’attività di trasformazione dell’ambiente sulla cura, che si origina in ultima istanza dal domino antropologico del maschile sul femminile, si rivela ogni giorno di più come una cieca dinamica distruttiva.
Il fatto che oggi l’economia finanziaria, cioè la produzione di denaro per mezzo del denaro, sopravanzi l’economia produttiva, indica il prevalere dell’astrazione da ogni relazione vitale. Il capitalismo, nella sua corsa irrazionale verso un sempre maggior profitto, ha da tempo toccato e intaccato “la sostanza naturale della nostra vita”, come dice Zizek, quel che io chiamo corpo ambientale, mettendo in pericolo la vita stessa (3). La riproduzione della vita, che è sempre anche trasformazione, tradizionalmente e in maniera subalterna affidata alle donne, è balzata in primo piano.
Può essere utile fare un esercizio di ragionamento in termini di parte e di tutto.
La vicenda storica mostra, per la via negativa di danni, sofferenze e rischi sempre più gravi, che il corpo umano individuale e quindi il singolo essere umano sono parte intrinseca di un vasto tessuto di relazioni costituito dall’insieme degli esseri umani. Questo è a sua volta, parte intrinseca di una totalità, di un più vasto ed essenziale ambito circoscrivente in cui la vita prende forma. Questa totalità non è soltanto un insieme di parti legate fra loro, un contenitore indifferente, ma, in quanto matrice della vita, una dynamis (potentia) generativa e differenziale che le produce. Ciò che agisce come una matrice circoscrivente non può diventare parte (oggetto) di una sua parte, perché non è un oggetto o un insieme di oggetti, uno stato inanimato e passivo a cui si vorrebbe invece ridurre e quindi non può essere circoscritta come qualcosa di sussumibile ad libitum dalla cultura. Gli esseri umani non sono il tutto della vita ma una sua parte, sia pure fondamentale. Far diventare il tutto mera parte di sé è, invece, è proprio quello su cui insiste ciecamente quella parte che è il capitale, sviluppando una contraddizione che si può ben chiamare ontologica. Da qui gli effetti distruttivi di ogni tipo che oggi sono sotto gli occhi di chiunque riesca a tenerli aperti.
La civiltà del capitale, tuttavia, è l’ultimo e più potente esito di una storia interamente caratterizzata dal prevalere di una parte sul tutto: la parte maschile dell’umanità sulla parte femminile. Lo notava con chiarezza Engels, quando nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato ricordava che “la prima oppressione di classe coincide con quella della donna ad opera dell’uomo” (ed. Editori Riuniti 1963, p. 93). “Prima oppressione di classe” significa che è l’oppressione-base di tutte le altre e che, fino a quando é attiva, le altre si riprodurranno. Ma la problematica indicata da Engels venne accantonata dal movimento operaio e comunista e ridotta nei termini dell’emancipazione e della parità dei diritti. E’ stata ripresa in maniera indipendente e in termini diversi, e anche tra loro diversi, a partire dagli anni Sessanta, dal movimento delle donne, sviluppando un pensiero politico creativo, strettamente legato a pratiche molteplici, indispensabile oggi per un’azione politica pensante.
Più precisamente, il pensiero femminista ha messo in rilievo la differenza di genere, come fattore imprescindibile e innovativo di differenza culturale, nei termini di liberazione di una cultura femminile rimasta subalterna e quindi privata delle sue potenzialità (il carattere oblativo e subalterno della cura femminile), ma essenziale per la riproduzione e la vita di ogni società e dotata di grandi possibilità di sviluppo: la cura come presupposto generale dell’attività umana, che oggi si mostra necessaria.
Nel far questo, il pensiero e la pratica femminista hanno mostrato il carattere fondamentale della relazione fra singoli (4), anche all’interno dei movimenti sociali e conflittuali, introducendo, come criterio politico, il presupposto che la liberazione o è già in atto nelle relazioni fra coloro che desiderano promuoverla o è mera ideologia.
La classica formula femminista del ‘partire da sé si rivela oggi in tutta la sua pregnanza anticipatrice. Scrive, ad esempio, l’economista Andrea Fumagalli:
“Sappiamo che nel corso di questi trent’anni, la precarietà è diventata la forma del rapporto capitale-lavoro e ha assunto connotati che vanno oltre la semplice dimensione lavorativa.[ …] La precarietà definisce, infatti, una condizione dell’esistenza. Una condizione che presenta alcuni tratti comuni ed omogenei, pur esplicitandosi in condizioni lavorative e soggettive molto differenziate. […] Diversamente da quanto avveniva per il lavoro manuale nell’epoca fordista, laddove era la condizione oggettiva di lavoro – in quanto “esterna” alla persona – a determinare il livello di coscienza di sé, nel bio-capitalismo cognitivo, la prestazione lavorativa viene quasi totalmente interiorizzata. Così la presa di coscienza o è auto-coscienza o non è. Di conseguenza, la consapevolezza della propria condizione di precarietà non può oggi nascere che dall’analisi critica di sé, sino alla messa in discussione della propria vita: ovvero, dal riconoscimento della propria “complicità” e “partecipazione” nel sistema di controllo biopolitico dei corpi e delle menti. In un simile contesto, il processo di coscienza può avvenire al di fuori della condizione strettamente lavorativa e presuppone un processo di soggettivazione degli individui“ (Presentazione dossier “precarietà e reddito”, 20/10/2012, pubblicato da Uninomade.org)
Questa precarietà non riguarda soltanto la condizione umana, ma la totalità delle relazioni che rendono possibile la vita. Occorre quindi una nuova logica politica, nei termini di una logica ontologica o cosmologica e non solo politico-sociale, in cui gli esseri umani si colgano come parte, sia pure fondamentale, rispetto a un tutto che non può mai essere oggettivato dentro la cultura come un suo elemento. Si può dire che la pòlis si è allargata all’intero sistema terrestre. E’ evidente che agire come parte che rimanda a un tutto implica un impegno e un’attività collettivi, perché il tutto è appunto anche ciò che è comune – il munus, come è stato detto, il dono in comune – e utilizzabile solo collettivamente. Anzi, è ciò che fonda il comune, il corpo comune dei viventi, il corpo ambientale: l’insieme di relazioni che consentono e sviluppano la vita e su cui poggia l’esistenza non è un insieme di oggetti possedibili e tanto meno privatamente. Una cultura individualista (5), come quella liberista dominante, alla cui base c’è il possesso privato, non è solo storicamente ed eticamente ingiusta, ma è ontologicamente errata e quindi suicida, come oggi tutti possono vedere.
Queste considerazioni vorrebbero dare qualche spunto per formulare in modo diverso il concetto di comunismo, che veramente concetto non è mai stato, ma un ensemble contraddittorio di emozioni collettive, immagini, parole, miti, concetti, precipitato di una storia delle classi subalterne incrociata con molteplici influssi culturali.
Perché, allora, conservare il nome ‘comunismo’?
Per mantenere fedeltà a una storia che, per quanto drammatica e per molti aspetti disastrosa, non può essere rinnegata, come d’altronde nessuna storia. Può solo essere rimossa. Ma sulla rimozione non si può costruire niente.
Inoltre, l’opera di Marx, e di alcuni seguaci, fornisce tuttora elementi indispensabili per una critica dell’economia come modo dominante di produzione di soggettività.
Il comunismo, quindi, non è un’idea eterna, come sostengono Alain Badiou e, in termini meno netti, Slavoj Zizek: ancora dunque in chiave ideologica. Né emerge da un general intellect che avvolge il mondo “con lo sviluppo delle economie di rete e di apprendimento come fonte della produttività” (A. Fumagalli), che non può scindersi dal dispositivo capitalista.
Il comunismo è intrinsecamente iscritto nel comune della condizione umana in quanto parte di un tutto, non solo umano, senza di cui gli esseri umani e i viventi in generale non possono né vivere né esistere, ma che richiede l’intervento umano per la sua attiva riproduzione, entro cui deve darsi la produzione di ciò che serve per vivere e per esistere.
La peculiarità dell’essere umano – la ‘cultura’, per dirla in breve – non lo rende il padrone della vita, di cui disporre a suo piacimento, ma il suo custode e il suo promotore, perché la vita è dynamis, non stasis, è un equilibrio dinamico che, per esser tale, deve rinnovarsi continuamente, caratterizzato dunque da irreversibilità, irriducibilità, possibilità.
Custodire la vita vuol dire dunque agire come parte fondamentale di un tutto e non come parte che vuol sottomettersi il tutto. Anche la lotta di classe operaia è il rifiuto di essere mera forza lavoro, parte della produzione, riscattando tendenzialmente la pienezza del corpo (che rimaneva però un corpo modellato sul maschile).
Il comunismo, allora, non è questione di parte. Questione di parte è la lotta di classe del capitale condotta con tanto successo in tutto il mondo dalle sue personae: questa parzialità è oggi di un’evidenza micidiale nelle devastazioni di vario tipo prodotte dallo squilibrio fra la parte detentrice della ricchezza e l’intera ricchezza mondiale. Il comunismo rappresenta non solo l’interesse a un’esistenza positiva, libera e solidale da parte degli esseri umani, ma «l’interesse » della vita sulla terra, cioè del tutto.
Ciò rimanda alla problematica attuale dei commons, dei beni comuni – aria, acqua, terra energia (fuoco), che sono gli elementi dei presocratici (e questo non mi sembra banale) – come base per la ripresa di un pensiero e di una pratica comuniste, non utopiche né ideologiche, liberate da schemi, pregiudizi e parzialità.
Oggi il comunismo è, semplicemente, necessario.
Pensiero femminista e questione ambientale modificano strutturalmente il vecchio comunismo, ma non ne tolgono l’opportuna ricorrenza nei termini di una fedeltà creativa. Direi che dobbiamo passare da un comunismo materialista, che rimane cartesiano (il concetto di materia nasce da una riduzione causalistica), a un comunismo del corpo.
Penso che oggi sia cambiato il concetto stesso di possibilità politica, ovvero della possibilità della trasformazione sociale. Non è più legata soltanto all’esigenza di vivere in una società giusta e solidale. Oggi il concetto di possibilità va inteso come richiesta del tutto, cioè dell’insieme complesso, in cui è inserito l’uomo, del corpo ambientale, senza di cui non può vivere. Trascolora quindi in quello di necessità vitale.
‘Necessità’ non vuol dire ‘necessariamente realizzabile’. La vita può anche vivere diminuita e offesa o scomparire del tutto. L’essere umano è il responsabile, colui che risponde della vita sulla terra. La peculiarità dell’essere umano – il pensiero-linguaggio – lo rende l’unica parte responsabile nei confronti non di una qualche forma di trascendenza, ma del tutto della vita. La sordità nei confronti di questa responsabilità, insita nello sviluppo delle società umane sulla terra, si manifesta come danno irreversibile per la vita stessa (6).
Il nuovo comunismo comporta innanzitutto un nuovo rapporto con il corpo ambientale, considerato non come un insieme di materie prime, ma come la matrice del vivere e dell’esistere comune, quindi non definibile in termini oggettivi e causali; corpo ambientale entro cui i corpi dei viventi e degli esistenti possono prender forma.
Questo implica nuove modalità di produzione dei beni necessari alla vita, di cui ormai avvertiamo l’esigenza e di cui esistono premesse e tentativi in giro per il mondo. Emerge il concetto di Cura come presupposto di quello di lavoro. Non può darsi cura di sé senza cura dell’altro e cura dell’ambiente e viceversa.
Ciò comporta, allo stesso livello, forme di autorganizzazione, da attuarsi nella società e nella produzione. Anche sotto questo profilo, esistono degli inizi o degli indizi, per quanto fragilissimi, che si possono cogliere qua e là, ad esempio i movimenti Indignados e Occupy. Se intendiamo con comunismo una democrazia integrale, autogestita, allora, rivisitando una formula di Etienne Balibar, ci sono tre forme di democrazia, che si implicano in una sorta di piramide: la democrazia partecipativa è la base, senza di cui le altre crollano. Viene poi la democrazia conflittuale, cioè il diritto autocostituitosi di confliggere nei confronti di tutto ciò che va contro la prima forma di democrazia, ivi compresa e soprattutto la terza forma, indispensabile quando la dimensione sociale sia troppo ampia per la democrazia diretta, la democrazia delegata, la cui delega non può che essere pro tempore, ma che tende inevitabilmente a costituirsi in forma separata, qualora non sia sottoposta a un continuo controllo dal basso.
La crisi odierna è crisi di civiltà. Le crisi, distruggendo le svariate forme di identità sociali, generano sofferenza individuale e sociale che possono generare domanda d’alternativa allo stato presente. La sofferenza sociale, però, non basta: da sola, divide e deprime. Soltanto se trova la via del pensiero, può rendere possibili, immaginabili, praticabili e nominabili, altri percorsi. A sua volta il pensiero deve poter ascoltare le emozioni, produrre immagini collettive e trasformarle, nei limiti del possibile, in concetti.
Ritengo che la questione dell’immaginario sia essenziale. Un’azione politica collettiva accade solo all’interno di un immaginario collettivo, di un vasto insieme di emozioni condivise, di immagini, di simboli, di linguaggi.
Il vuoto è tanto più grande oggi perché si è consumato quell’immaginario storico di alternativa conflittuale, nato inizialmente con la Rivoluzione Francese e durato, trasformandosi ma con un filone di continuità, sino agli anni Settanta del Novecento. Ma quell’immaginario aveva dei limiti, che sono stati elementi fondamentale della sua crisi. Il femminismo e le problematiche ambientali li hanno mostrati ed elaborati. Ci mettono in grado di interrogare il vuoto di esistenza e il rischio vitale dell’oggi senza rinnegare il passato ma, nella consapevolezza dei suoi limiti, mettendo in atto le sue potenzialità trascurate o rimosse.
(1) Il giovane Marx, messo al margine da buona parte del marxismo novecentesco (il caso più noto è Althusser), aveva invece colto qualcosa che oggi possiamo rileggere con occhi diversi. “L’universalità dell’uomo si manifesta praticamente proprio nell’universalità per cui l’intera natura è fatta suo corpo inorganico […] La natura è il corpo inorganico (unorganische Leib) dell’uomo: cioè la natura nella misura in cui non è essa stessa corpo (Körper) umano. Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo (Leib), con il quale egli deve rimanere in processo continuo per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo si congiunge (zusammenhängt) con la natura, non ha altro significato se non che la natura si congiunge (zusammenhängt) con se stessa, poiché l’uomo è parte della natura”, cfr. Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere di Marx Engels, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 302. E’ interessante quel “la natura si congiunge con se stessa”, che potrebbe far pensare a una concezione non esclusivamente antropocentrica. Nel Capitale si legge: “la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza. La terra e il lavoratore”.
(2) Dato che il corpo non è separabile dalla sua attività, perché é la forma mobile di un’attività o un’attività che ha una forma, l’energia del corpo ‘di classe’ e quindi la sua attività politica ha certe caratteristiche tipiche del corpo maschile.
(3) Sappiamo che il ‘genoma’ umano è intaccato.
(4) Intendo con ‘singolo’ il soggetto individuale in quanto unico e insostituibile.
(5) Bisogna distinguere il concetto di individuo da quello di singolo: il secondo presuppone la relazione, il primo vuole prescinderne.
(6) Potremmo allargare la categoria marxiana di sfruttamento alla vita, nel senso che lo sfruttamento dell’energia lavorativa umana è congiunta allo sfruttamento dei viventi e del non vivente come materia prima, cioè al consumo dell’energia dei viventi non umani e del-la terra per trasformarli in valore di scambio.
Commenti recenti